George P. Mitchell, petroliere texano scomparso nel 2013 a 94 anni, non pensava davvero che un giorno avrebbe cambiato la storia economica degli Stati Uniti e del mondo intero. Erano gli anni ‘80 del secolo scorso e Mitchell, proprietario di una compagnia energetica che alimentava un gasdotto collegato alla città di Chicago, non sapeva più dove andare a parare per rifornirsi di materia prima, visto che le sue fonti tradizionali diventavano sempre più scarse. Fu così che, con grande spirito pionieristico e sfidando il parere di molti ingegneri che lo invitavano alla prudenza, decise di giocarsi l’ultima carta: per produrre il gas, puntò su una tecnologia già conosciuta da tempo in America ma considerata poco conveniente dal punto di vista economico. Si tratta del fracking, la frantumazione degli scisti argillosi, una particolare categoria di rocce che si trova a migliaia di metri sotto la superficie terrestre e che contiene una grande quantità di materiale gassoso. Dagli sforzi di Mitchell (e di chi ne ha seguito le orme sviluppandone il lavoro) è nata negli Stati Uniti la rivoluzione dello Shale Oil e dello Shale Gas, due tecniche che consentono da tempo di produrre il il petrolio greggio e metano proprio attraverso la frantumazione delle rocce argillose.
NUOVI EQUILIBRI. Grazie a questa innovazione, gli americani stanno ormai marciando senza sosta verso la piena indipendenza energetica. Anzi, da Paese grande importatore di idrocarburi, gli Usa hanno buone chance di trasformarsi in futuro in un gigante dell’export e di diventare entro il 2020 il primo produttore di petrolio al mondo, con un’estrazione di oltre 13 milioni di barili al giorno, un milione e mezzo in più dell’Arabia Saudita. Nella generazione del gas, invece, il primato è già stato raggiunto e gli Stati Uniti sfornano ormai ogni anno oltre 670 miliardi di metri cubi di materia prima, più della Federazione Russa.La rivoluzione dello Shale Oil e della Shale Gas, però, non è soltanto quel fenomeno industriale che Massimo Siano, responsabile per il Sud Europa della casa di investimenti Etf Securities, ha paragonato di recente all’avvento di Internet negli anni ‘90. La ritrovata forza degli Usa nel mercato petrolifero ha, infatti, notevoli conseguenze anche sugli equilibri geopolitici mondiali e in particolare sull’altra sponda dell’Atlantico. Oggi l’Europa si trova impegnata in un duro braccio di ferro diplomatico con la Russia di Vladimir Putin, a causa della recente crisi in Ucraina e della conseguente annessione della Crimea da parte di Mosca. Dopo varie minacce di sanzioni contro l’ex-Unione Sovietica, oggi i maggiori Paesi del Vecchio Continente rischiano ancora di compromettere irrimediabilmente i propri rapporti con la Federazione Russa che, va ricordato, è il loro principale fornitore di gas (per un totale di oltre 160 miliardi di metri cubi l’anno). Ed è proprio in questo scenario di contrapposizione tra Bruxelles e Mosca che gli Stati Uniti tentano di giocare un ruolo chiave sullo scacchiere internazionale, proponendosi come nuovo fornitore di materie prime dell’Europa, grazie all’aumento di produzione che Washington ha ottenuto con lo Shale Oil e lo Shale Gas.
– Perché l’Europa non sta curando i propri interessi
– La guerra diplomatica a Putin è priva di senso
QUEL LENTO CAMMINO VERSO LE RINNOVABILI. A dire il vero, oltre ad appigliarsi al salvagente statunitense, l’Europa può in teoria emanciparsi dal legame con Putin anche in altra maniera. Può sviluppare la produzione di energia da fonti rinnovabili come l’eolico, il solare o le centrali idroelettriche, che da tempo promettono di liberare il Vecchio Continente dalla schiavitù del petrolio e dei suoi derivati, compreso il gas. Purtroppo, però, l’energia pulita ha ancora molta strada da compiere prima di trasformarsi veramente in una valida alternativa ai combustibili fossili. «Nonostante il loro significativo sviluppo», dice Federico Ferrari, Commodity Economist della società di ricerche Prometeia, «le fonti rinnovabili possono dare un contributo significativo alla riduzione della dipendenza energetica europea soltanto in un orizzonte temporale di lungo periodo, cioè nell’arco di qualche decennio». Per rendersene conto, basta dare un’occhiata agli obiettivi che i Paesi dell’Ue hanno appena fissato per i prossimi anni nello sviluppo della green economy, l’economia verde basata sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Dopo aver quasi raggiunto il traguardo del 20% di energia prodotta da fonti rinnovabili entro il 2020 (che ormai è molto vicino), adesso l’Europa punta a raggiungere un target non particolarmente ambizioso. Nel 2030, infatti, la quota generata dalle rinnovabili dovrebbe salire al 27%. Entro i prossimi 15 anni, dunque, più di due terzi dell’energia consumata in Europa arriverà ancora da fonti tradizionali, principalmente dagli idrocarburi.
SOGNO PROIBITO. In una ipotetica sfida tra lo Shale Gas e la green economy, insomma, non ci sarebbe partita: nel breve periodo, la crescita dell’energia verde non riuscirà a eguagliare le performance delle nuove tecnologie estrattive. Sorge spontaneo un interrogativo: perché non mettersi a produrre petrolio e gas frantumando le rocce argillose anche in Europa? «Si tratta di una strategia impraticabile», dice Simona Gambarini, analista di Etf Securities, casa di investimenti con sede a Londra che a settembre, sul listino della Borsa di Milano, ha lanciato un prodotto finanziario che consente di investire sulle Mlp (Master Limited Partnerships), società che possiedono e gestiscono le principali infrastrutture di trasporto delle materie prime energetiche negli Usa. Gambarini ricorda, infatti, tutte le difficoltà che oggi impediscono lo sviluppo di uno Shale Oil e di uno Shale Gas europei, nonostante la presenza di alcuni giacimenti interessanti sul territorio del Vecchio Continente, soprattutto in Polonia e in Gran Bretagna. «L’applicazione delle nuove tecnologie estrattive basate sulla frantumazione degli scisti argillosi», spiega, «richiede la presenza di grandi territori poco abitati come per esempio l’area di Marcellus, in Pennsylvania, uno dei principali giacimenti di Shale Gas in America». Secondo l’analista di Etf Securities, dunque, quest’attività appare ben poco compatibile con il tessuto demografico del Vecchio Continente, dove la densità di popolazione è assai più alta. Senza dimenticare tutti i problemi d’impatto ambientale che hanno fatto nascere un agguerrito fronte “anti-Shale” tra gli ecologisti, i quali paventano il rischio di una crescita degli eventi sismici e di un progressivo inquinamento delle falde acquifere. Che sia giusta o meno la loro posizione, quasi tutti gli osservatori concordano su un punto: la nascita di uno Shale Gas europeo resta per ora un sogno proibito.UNIONE A UN BIVIO. Con questo scenario di fondo, l’Ue si trova dunque a un bivio: o riesce a ricucire i rapporti con Putin, visto che ha bisogno delle materie prime energetiche russe, o si rivolge ad altri fornitori, in particolare agli Stati Uniti. Quale delle due strade conviene intraprendere? Rispondere a questo interrogativo non è certamente facile, anche se il muro contro muro con Mosca appare oggi come un salto nel vuoto per il Vecchio Continente. Non vanno trascurate, poi, le difficoltà oggettive che ostacolano l’avvio di un intenso rapporto commerciale con gli Usa. «Diversificare i propri fornitori energetici è di per sé una scelta giusta», dice Ferrari, «ma, nel breve periodo, non è pensabile rimpiazzare le forniture russe con quelle statunitensi». L’analista di Prometeia ricorda, infatti, come oggi, tra le due sponde dell’Atlantico, manchino ancora adeguate infrastrutture di trasporto del gas, la cui costruzione richiede necessariamente una buona dose di tempo e notevoli investimenti. Le commodity di Putin, insomma, all’Europa servono ancora. Nel frattempo, sullo scacchiere internazionale, l’amministrazione americana sembra aver adottato una doppia strategia. Nel giugno scorso, infatti, il presidente Obama ha ribadito di voler puntare ancora sulla green economy e ha lanciato un ambizioso programma di riduzione delle emissioni di anidride carbonica, per una quota di circa il 30% entro il 2030. In politica estera, però, l’amministrazione di Washington lavora intensamente per spezzare i rapporti tra l’Ue e la Russia e nella primavera scorsa, in occasione della crisi in Ucraina, non ha esitato a offrire il proprio gas a Bruxelles per rendere l’Europa indipendente da Mosca in campo energetico. Negli equilibri geopolitici internazionali, insomma, a dettare legge sono ancora gli idrocarburi. I sostenitori dell’economia verde possono pure mettersi l’animo in pace.
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