Adesso ci comprano loro

Dopo aver subito per anni lo strapotere dei grandi gruppi occidentali, sono ora sempre di più le multinazionali di Paesi emergenti partite all’arrembaggio delle imprese italiane ed europee. I rischi non mancano, ma non tutti gli investimenti vengono per nuocere…

A Piombino, nelle sto­riche acciaierie della Lucchini dove le cimi­niere sono spente dal­l’aprile del 2014, han­no festeggiato più di 1.800 lavoratori. «Ben venga lo straniero», era il leit motiv delle dichiarazioni rilasciate dagli operai e dai delegati sindacali, non appena è arriva­ta l’offerta di un nuovo compratore este­ro, in grado di rimettere in piedi l’intero impianto siderurgico ormai prossimo alla chiusura definitiva. Lo straniero dispo­sto a salvare la fabbrica toscana, però, non arriva né dalla Germania né dal re­sto d’Europa e neppure dagli Stati Uni­ti. Il salvatore delle acciaierie ha, infat­ti, un nome e un cognome arabo: si chia­ma Issad Rebrab ed è il patron del grup­po algerino Cevital, un impero industria­le che ha 12 mila dipendenti e 25 filia­li in tutto il mondo e che, alla fine del novembre scorso, ha promesso di inve­stire a Piombino almeno un miliardo di euro entro il 2020, per tornare a produrre 2 milioni di tonnellate di acciaio all’an­no. E così, di fronte a questa offerta assai difficile da rifiutare, un pezzo importan­te dell’industria italiana come l’impianto della Lucchini è finito nelle mani di una multinazionale di un Paese arabo. Una sorte analoga è toccata ad Alitalia che, dall’agosto dell’anno scorso, gravita nel­l’orbita di Etihad, il vettore di Abu Dhabi che ha comprato una partecipazione del 49% nella compagnia di bandiera trico­lore, con l’obiettivo di rimetterla in sesto in tempi brevi.

Non bisogna avere pregiudizi

Perché abbiamo bisogno degli asiatici

COLONIALISMO AL CONTRARIOLe due acquisizioni appena descrit­te, però, sono soltanto la punta di diamante di un fenomeno che vie­ne da lontano e che è iniziato (sep­pur lentamente) almeno un decennio fa. Si tratta dell’arrembaggio alle azien­de italiane ed europee portato avanti dal­le multinazionali dei Paesi emergenti. C’è chi parla già di un nuovo coloniali­smo al contrario, che ha come protago­nisti i nuovi ricchi del pianeta, dagli emi­ri mediorientali sino ai miliardari cinesi e indiani. Dopo aver subito per decenni lo strapotere dei grandi gruppi occidenta­li, ora questi nuovi tycoon sembrano in­tenzionati a far rotta con decisione verso un’Europa ancora acciaccata dalla crisi economica, per mangiarsi in un bocco­ne le migliori aziende del Vecchio Conti­nente. Ma stanno davvero così le cose? A leggere le cronache finanziarie degli ulti­mi mesi e anni, sembrerebbe proprio di sì. A parte i casi dell’Alitalia e delle ac­ciaierie di Piombino, finite entrambe in mani arabe, tantissimi altri pezzi del­l’industria italiana oggi appartengono a grandi investitori delle nuove “potenze”. A fare la parte del leone non sono però gli arabi bensì i cinesi, che hanno acqui­sito quote di maggioranza o di minoran­za di importanti gruppi del Belpaese. Sul­lo scacchiere dell’alta finanza, per esem­pio, si è mossa la People’s China Bank, la banca centrale di Pechino che, tra mar­zo e luglio del 2014, ha fatto shopping sul listino di Piazza Affari comprandosi una partecipazione di circa il 2% nel ca­pitale di Eni, di Enel, di Telecom Italia, di Fca (Fiat Chrysler Automobiles) e di Pry­smian, leader mondiale nella produzio­ne di cavi per il settore energetico e per le telecomunicazioni.

AZIONISTI CON GLI OCCHI A MANDORLAA queste operazioni dal caratte­re eminentemente finanziario, che valgono nel complesso quasi 3 miliardi di euro, si aggiungo­no poi parecchie acquisizioni che hanno obiettivi per lo più industriali. Un esem­pio è quanto accaduto a Cdp Reti, la hol­ding della Cassa Depositi e Prestiti che controlla quasi un terzo di Snam e di Ter­na e che, dall’estate scorsa, è partecipata al 40% da State Grid Corporation, il ge­store della rete elettrica della Repubbli­ca Popolare. Nel 2014, è finito ai cine­si anche il 40% del capitale di Ansaldo Energia, acquistato da Shanghai Electric Corporation (Sec), leader mondiale nel­la produzione di macchinari. Senza di­menticare, poi, i nomi del lusso made in Italy, oggi controllati interamente da azionisti con gli occhi a mandorla. È il caso della maison di moda Krizia, acqui­stata lo scorso anno da Shenzhen Mari­sfrolg Fashion, azienda leader nel merca­to asiatico del pret-à-porter, fondata più di vent’anni or sono dall’imprenditrice Zhu ChongYun. Risale a quasi tre anni fa, invece, la cessione al gruppo meccanico cinese Shig-Weichai del noto produttore di yacht Ferretti, altro celebre nome del made in Italy, famoso in tutto il mondo ma zavorrato fino al 2012 da un debito di 600 milioni di euro. Di acquisizioni simi­li, che hanno avuto come protagonisti gli imprenditori della Repubblica Popolare, però, se ne trovano a decine, se si guarda all’universo delle piccole e medie azien­de italiane attive nei settori tessili o della meccanica, insediate per lo più in Lom­bardia e nel resto del Settentrione.

IN ARRIVO DALL’INDIAAnche le multinazionali indiane, nonostante i tesi rapporti diplo­matici tra Roma e Nuova Delhi dovuti alla nota vicenda dei due marò, non sono certo rimaste alla fine­stra negli ultimi anni e hanno acquisito diverse aziende del made in Italy, spes­so attive in settori di nicchia. Un esempio è la Klopman di Frosinone, maggio­re produttore europeo di tessuti ignifughi, finita nell’orbita di Mw Corp, colosso in­dustriale di Mumbai, attivo sia nel com­parto tessile sia nel settore energetico. La stessa sorte è capitata alla Leggiuno spa, storica azienda della provincia di Vare­se specializzata nella produzione di tes­suti per la camiceria di alta qualità, che dal 2008 è sotto il controllo del gruppo indiano S. Kumars Nationwide. Un al­tro esempio è quello di Piaggio Aero, nome celebre dell’industria aeronautica italiana che, nel 2009, è stata comprata da Tata group, conglomerata di Mumbai presente in diversi settori, da quello au­tomobilistico alla meccanica, dalla chi­mica all’energia. Lo scorso anno, però, lo stesso gruppo Tata è uscito dall’azio­nariato di Piaggio Aero, cedendo la pro­pria quota a un altro grande investitore dei Paesi emergenti: Mubadala, il fondo sovrano di Abu Dhabi che oggi detiene il 98% circa del capitale dell’azienda.

I SOLDI ASIATICI SONO FONDAMENTALI PER LE AZIENDE IN CRISI, MA SPESSO I NUOVI PADRONI HANNO UN ATTEGGIAMENTO PREDATORIO: COMPRANO, ACQUISISCONO TECNOLOGIA E TORNANO A CASA LORO

IL RISCHIO DEL MORDI E FUGGIProprio quest’ultima operazione, che ha visto gli indiani entrare e usci­re da un’azienda italiana nel giro di pochi anni, pone alcuni inter­rogativi tutt’altro che trascurabili, riguar­do al ruolo delle multinazionali asiatiche nel tessuto industriale del nostro Paese e dell’Europa intera. Conviene o non con­viene consegnare le nostre migliori im­prese ai nuovi ricchi dell’Asia? Senza i loro soldi, molte fabbriche come la Luc­chini di Piombino avrebbero chiuso i bat­tenti, è vero. Tuttavia, non va sottovaluta­to il rischio che parecchie multinazionali in arrivo dal lontano Oriente abbiano an­che un atteggiamento predatorio: venga­no cioè in Europa seguendo la logica del mordi e fuggi, per impossessarsi del mar­chio o della tecnologia di qualche azien­da importante, per poi tornarsene a casa non appena hanno inglobato tutto il valo­re che c’era da inglobare. Non va dimen­ticato, infatti, che non sempre gli investi­menti in Italia delle multinazionali emer­genti si sono conclusi con il lieto fine. Lo sa bene chi ha seguito le vicende della Guru, azienda tessile di Parma fondata nel 1999 e poi finita in mano agli indiani di Bombay Rayon Fashion, dopo le tur­bolente vicende che hanno visto il fon­datore della società, Matteo Cambi, sotto accusa per bancarotta. La presen­za dei nuovi proprietari asiatici, che ave­vano l’ambizione di rilanciare il marchio Guru, non ha impedito all’azienda emi­liana di finire sull’orlo del fallimento, av­viando un concordato preventivo con i creditori, iniziato lo scorso anno. L’arri­vo dei soci cinesi non è stato una passeg­giata neppure per i lavoratori della Fer­retti che, nel febbraio del 2014, hanno ri­schiato di assistere alla chiusura di uno dei tanti stabilimenti della società, quel­lo di Forlì, poi salvato in extremis da una lunga trattativa sindacale. Le multinazio­nali dei Paesi emergenti, insomma, han­no tanti soldi a disposizione ma non han­no certo il cuore tenero. Investono dove conviene investire, comprano quel che c’è da comprare quando i prezzi delle aziende sono a buon mercato, ma non sono molto legate al territorio in cui si in­sediano e sembrano anche pronte a la­sciare sul campo migliaia di posti di lavo­ro, non appena il loro business comincia a traballare.

SE LA FABBRICA È NUOVA DI ZECCA Nonostante l’opportunismo dei nuovi ricchi del lontano Orien­te, però, rinunciare ai loro soldi sembra oggi assai difficile. An­che perché, quando si parla di multina­zionali dei Paesi emergenti, è bene non fare di ogni erba un fascio. Un’indagine effettuata dalle economiste Elisa Giuliani e Roberta Rabellotti, collaboratrici del sito Lavoce.info, rivela, infatti, che esiste an­che un gruppo non trascurabile di azien­de in arrivo dai Paesi in via di sviluppo che hanno instaurato un rapporto virtuoso con i territori in cui si sono insediate, collabo­rando con le piccole e medie imprese lo­cali, con le università e i centri di ricer­ca. Un’altra analisi, sempre pubblicata sul sito de Lavoce.info dai ricercatori Alessia Amighini e Claudio Cozza e dalla stessa Rabellotti, dimostra invece come la pre­senza in Europa delle multinazionali asia­tiche non sia dovuta soltanto ad acquisi­zioni di imprese già esistenti, ma si con­cretizzi per lo più in investimenti green­field, cioè con la costituzione ex-novo di impianti prima inesistenti. Su 840 opera­zioni effettuate nel Vecchio Continente da aziende cinesi tra il 2003 e il 2012, per esempio, più di 670 sono avvenute con in­vestimenti greenfield, mentre appena 131 si sono concluse tramite un M&A (merger and acquisition), cioè con fusioni e acqui­sizioni. Anche per gli investimenti diretti indiani nell’Unione Europea, si è assistito più o meno allo stesso fenomeno e le ope­razioni greenfield, dal 2003 in poi, sono state la maggioranza: 520 su un totale di 949. L’arrivo di una multinazionale emer­gente, insomma, spesso coincide anche con l’apertura di fabbriche e uffici nuovi di zecca che portano posti di lavoro. Se­condo la banca dati Reprint sull’interna­zionalizzazione, creata dall’Ice e dal Po­litecnico di Milano, oggi ben 18 mila ita­liani lavorano per le multinazionali cine­si e di Hong Kong presenti del nostro Pae­se. Tra queste, ci sono nomi conosciutissi­mi a livello mondiale come Huawei Tech­nologies, produttore di smartphone e reti di telecomunicazione, che dispone di di­verse sedi e centri di ricerca (in particola­re sulle tecnologie a microonde) tra Mi­lano, Roma e Torino, i quali collaborano proficuamente con gli atenei universita­ri. Senza dimenticare, infine, le aziende presenti in Italia da ben tre lustri come il gruppo di Hong Kong Hutchison Wham­poa (H3g), proprietario della compagnia di telecomunicazioni Tre. Nella Peniso­la, H3g fattura 1,75 miliardi di euro al­l’anno e ha oltre 2.700 dipendenti. In un’Italia come quella di oggi, dove la di­soccupazione è ai massimi storici, è dif­ficile chiudere le porte a chi, pur venen­do da una nazione emergente, dà lavoro a così tante persone.

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