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Business

Aziende, oltre 400 le eccellenze italiane

Viaggio tra le aziende che sono cresciute a dispetto della recessione grazie a internazionalizzazione e innovazione: 483 società tricolori, accomunate da un management di lungo corso e dall’azionariato familiare, che non chiede risultati a breve. Alla scoperta dei casi più emblematici

Cosa hanno in comune la Abiogen di Pisa, l’emiliana Sportswear, la siciliana Fratelli Damiano o la Nuceria Adesivi della provincia di Salerno? A prima vista poco o niente, essendo aziende che fabbricano prodotti molto diversi tra loro, dai medicinali ai vestiti, dalle etichette adesive alle mandorle biologiche. A ben guardare, invece, c’è un comune denominatore che lega tra loro tutte queste società (e molte altre ancora) sparse sul territorio italiano, dalle Alpi fino alle pendici dell’Etna. Si tratta, infatti, di piccole e medie imprese (pmi) d’eccellenza che non conoscono e non hanno conosciuto la crisi: quando l’economia italiana batteva la ritirata o sprofondava nella recessione, come purtroppo è accaduto negli ultimi sette anni, i ricavi e i profitti di queste imprese manifatturiere viaggiavano a gonfie vele, crescendo con tassi a due o tre cifre. Per questo, Global Strategy, società italiana di consulenza strategica con sedi operative a Milano, Varsavia, Praga e Amsterdam, ha voluto dedicare a queste realtà aziendali di successo un intero Osservatorio, nel quale ha messo sotto i riflettori ben 483 pmi manifatturiere d’eccellenza di tutta Italia. Sono società che hanno un fatturato compreso tra 50 e 250 milioni di euro e che, nell’ultimo quinquennio, hanno messo a segno dei risultati da incorniciare: un incremento medio del valore della produzione pari al 170%, accompagnato da una crescita di circa il 210% per l’Ebitda (il margine operativo lordo). Si tratta di performance superiori tra due e dieci volte a quelle dei rispettivi settori di appartenenza, ottenute da queste imprese grazie a un fortunato mix di fattori: la capacità di conquistare i mercati esteri, la caparbietà imprenditoriale, ottime doti strategiche e organizzative, unite a solidi valori aziendali che affondano le proprie radici in una tradizione ultra-decennale.

I segreti di chi ce l’ha fatta

Quasi il 58% delle imprese individuate dall’Osservatorio di Global Strategy è presente sul mercato da più di un quarto di secolo, circa il 30% ha tra i 25 e 35 anni di vita, mentre un altro 20% esiste da oltre 36 anni e il restante 7,5% addirittura da più di 50 anni. Non si tratta dunque di start up ma di aziende con una lunga storia alle spalle, che hanno saputo tutte puntare su un elemento importantissimo: il fattore umano, su cui ha concentrato la propria attenzione anche il report 2015 dell’Osservatorio Pmi di Global Strategy, giunto quest’anno alla settima edizione. Le migliori piccole e medie imprese manifatturiere italiane, infatti, hanno raggiunto il successo soprattutto perché sono riuscite a valorizzare le risorse umane, lasciando spazio ai migliori manager che hanno dimostrato un forte attaccamento all’azienda e ai suoi valori, senza farsi irretire dalle logiche di carriera e dei guadagni facili nel breve termine. Ed è proprio il fattore umano uno degli elementi che ha fatto la fortuna dei 39 casi esemplari selezionati quest’anno tra le 483 aziende eccellenti individuate da Global Strategy analizzando il suo database di oltre 40 mila pmi italiane (si veda la tabella nelle due pagine seguenti). Business People ha voluto conoscere meglio la storia di alcune di loro, ascoltando la viva voce di chi oggi le dirige. Si tratta, per la stragrande maggioranza dei casi, di imprese a proprietà familiare, concentrate per lo più nel Centro-Nord Italia, anche se alcune storie interessanti si trovano pure al Sud.

FARMACEUTICA MADE IN PISAPer riassumere i risultati raggiunti dalla sua azienda, la Abiogen Pharma di Ospedaletto (Pisa), a Massimo Di Martino basta snocciolare pochi e significativi numeri: i primi sono quelli sul fatturato, che nel 2010 era pari a 70 milioni di euro e alla fine del 2014, cioè dopo appena quattro anni, aveva superato ampiamente i 118 milioni di euro. Gli altri numeri riguardano l’Ebitda che, in meno di un lustro, è pressoché quintuplicato crescendo da 8 a 40 milioni di euro. Merito di un modello di business “controcorrente”, ideato sfidando una tendenza prevalente nell’industria farmaceutica e puntando a mantenere dentro Abiogen, a differenza di quanto hanno fatto altre aziende, tutta la filiera produttiva, dalle attività di Ricerca e sviluppo sino alla fabbricazione vera e propria di farmaci di successo, in diverse aree terapeutiche come il metabolismo osseo (da sempre ambito di eccellenza dell’azienda), il trattamento del dolore e delle malattie respiratorie, dermatologiche o metaboliche (come il diabete). «La nostra è un’azienda nata nel 1997, quindi relativamente giovane, ma con una storia che viene da lontano», dice Di Martino, che ricopre la carica di presidente e amministratore della società. Abiogen è infatti frutto di uno spin-off, cioè di uno scorporo di buona parte delle attività dell’Istituto Galenico di Pisa, fondato agli inizi del secolo scorso da Alfredo Gentili, bisnonno dello stesso Di Martino. Si tratta dunque di un’impresa di proprietà familiare, «molto proiettata alla crescita nel medio e lungo termine, senza essere soggetta all’obbligo di accontentare qualche azionista un po’ troppo orientato ai profitti di breve periodo».

IL DOLCE SAPORE DELL’INNOVAZIONEQuando studiava ancora Economia all’università, Alberto Balocco era uno abituato a spostare sempre in avanti la linea del traguardo: «Non appena passavo un esame», dice, «subito mi mettevo a studiare per quello successivo, senza prendermi un giorno di ferie». È lo stesso spirito che Balocco, oggi alla guida dell’omonimo gruppo dolciario fondato dal nonno Aldo a Fossano (Cn), ha portato all’interno dell’azienda di famiglia. Anche quando il business va a gonfie vele, infatti, per lui bisogna lavorare sodo, mettersi in discussione e non smettere di innovare. «È grazie a questo atteggiamento che siamo riusciti a crescere anche in questi anni di crisi», dice l’imprenditore piemontese: negli ultimi due lustri, il fatturato è lievitato a un ritmo di un milione di euro al mese, superando i 162 milioni nel 2014, contro i 67 milioni del 2005. Oggi il gruppo Balocco cresce ancora con tassi a due cifre, grazie anche alla diversificazione dei prodotti: dai tradizionali dolci festivi come i panettoni e le colombe, molto esposti alla stagionalità, il business si è allargato ai frollini e agli alimenti da colazione, varcando anche i confini nazionali. Balocco è presente attualmente in 67 Paesi del mondo, dagli Stati Uniti all’Oceania, passando per Europa, Cina e il resto dell’Asia. La produzione è tuttavia rigorosamente made in Italy, concentrata negli stabilimenti di Fossano.

LA MINERALE SULLE TAVOLE CINESIFino a circa venti anni fa, di acque minerali Alberto Bertone sapeva poco o nulla. Poi, nel 1995, assieme al padre Giuseppe (imprenditore delle costruzioni scomparso nel 2008), Bertone venne a conoscenza della qualità superiore dell’acqua che sgorga dalle fonti di Vinadio, in provincia di Cuneo, nel cuore della Alpi Marittime. Fu in quel momento che iniziò il miracolo dell’Acqua Sant’Anna, il marchio oggi leader in Italia nel mercato delle minerali, con un fatturato superiore a 250 milioni, triplicato nell’ultimo decennio. «Partire da zero è stato probabilmente la nostra fortuna», dice Bertone, «poiché abbiamo saputo mettere in discussione le logiche che avevano caratterizzato fino a quel momento l’industria delle acque minerali». È, infatti, grazie all’innovazione che Sant’Anna si è affermata come leader italiana del suo settore, con il miglioramento dell’efficienza dei processi produttivi, la diversificazione dei prodotti nel segmento del tè freddo (SanThé) e dei succhi di frutta (SanFruit) e con l’adozione della BioBottle, la prima bottiglia di acqua minerale realizzata interamente con una rivoluzionaria plastica naturale, ricavata dalla fermentazione degli zuccheri delle piante, anziché dal petrolio. La nuova frontiera per l’azienda oggi è lo sviluppo sui mercati esteri, con il recente sbarco in Cina dove Bertone ha l’obiettivo di vendere 20 milioni di bottiglie all’anno, per un valore di circa 5-6 milioni di euro di fatturato. «Gli stranieri amano il made in Italy soprattutto per il nostro saper fare bene le cose», dice l’imprenditore piemontese, «poco importa se si tratta di cibi, vestiti di lusso, macchine sportive o acque minerali».

PIONIERI DEL BIOLOGICOQuarant’anni fa, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul futuro dell’agricoltura biologica. Ma la Fratelli Damiano di Torrenova, in provincia di Messina, c’aveva visto lungo: nel 1976, iniziò per prima a puntare sulla coltivazione di mandorle bio, per poi trasformarsi nel 2000 in un’azienda biologica al 100%, specializzata nella produzione di frutta secca. Inutile dire che i fatti hanno dato ragione a questa promettente azienda siciliana, il cui giro d’affari è più che triplicato nell’ultimo quinquennio: dai circa 9 milioni del 2010, si è passati agli oltre 36 dell’esercizio 2014, con l’85% della produzione che oggi è destinata all’export, in 20 Paesi diversi. «Siamo leader mondiali nel mercato delle mandorle biologiche e lavoriamo anche molta altra frutta secca a guscio», dice Riccardo Damiano, amministratore delegato della società ed esponente della famiglia proprietaria, il quale sottolinea uno dei fattori più importanti che, secondo lui, hanno consentito alla Fratelli Damiano di raggiungere i risultati che ha raggiunto: «I punti di forza dell’azienda sono indubbiamente la qualità e la tracciabilità delle merci, visto che, per ogni nostro prodotto presente negli scaffali dei supermercati, siamo in grado di dire da dove viene e da dove è transitato». Il cuore della Fratelli Damiano è oggi nei suoi stabilimenti in Sicilia, cui si aggiungono ovviamente le coltivazioni della materia prima. Di queste ultime (e dei rapporti con i coltivatori) si occupa ancora il padre di Riccardo: Pasquale Damiano, 83 anni, che nella società ricopre la carica di presidente.

PER UN PACKAGING DI SUCCESSOForse molti consumatori non lo sanno, ma parecchi astucci, etichette e imballaggi flessibili che si trovano sui prodotti di largo consumo nel settore alimentare, in quello farmaceutico, così come sui detersivi, sui prodotti per la cura del corpo e sulle bottiglie di vini e bevande, sono progettati e realizzati da un gruppo di packaging italiano: Nuceria Group. Guido Iannone, 32 anni, parla della sua azienda come di una «storia del coraggio » di un imprenditore: suo padre Antonio, tuttora amministratore delegato della società, che negli anni ‘80 seppe compiere scelte difficili. «Benché il nostro sia ormai un gruppo con una forte vocazione internazionale, restiamo ancora un’azienda familiare», dice il general manager di Nuceria, che sottolinea come nel board dell’azienda vi sia anche la sorella Paola, che oggi si occupa della direzione commerciale. Nuceria Group è composto da quattro unità produttive dislocate sul territorio nazionale: una a Milano, due a Salerno e un’altra a Chieri, in provincia di Torino, di recente acquisizione. Ma a fare impressione sono soprattutto i dati sul giro d’affari: nel 2007, cioè prima della grande crisi, il fatturato era attorno ai 14 milioni di euro, nel 2010 è raddoppiato fino a 28 milioni, mentre nel 2014 è salito a 54. Nel decennio più nefasto per l’economia italiana, l’azienda della famiglia Iannone è cresciuta a un ritmo tre volte superiore rispetto alla media del settore, raddoppiando negli ultimi cinque anni anche il reddito operativo. Come c’è riuscita? «Il nostro merito», spiega Iannone, «è probabilmente quello di credere che sia possibile fare innovazione. Ogni anno investiamo, infatti, tra il 2-3% del nostro fatturato in Ricerca e sviluppo ed è grazie a questo che il mercato ci riconosce la capacità di anticipare tendenze ed esigenze».

STORIA DA CAMPIONIQuando venne fondata la Stone Island, marchio di abbigliamento dell’azienda Sportswear Company, correva l’anno 1982 e l’Italia stava per aggiudicarsi il suo terzo campionato mondiale di calcio. «Mi piace molto ricordare quella vittoria, che coincide quasi con la nascita della nostra società e fu per noi bene augurante», dice Carlo Rivetti, membro di una famiglia di imprenditori da otto generazioni, biellese di origine ma emiliano di adozione, che è presente nella compagine di Sportwear Company da 32 anni e ne ha acquisito la totalità del capitale nel 1993. Gli anni ‘80 furono formidabili per le aziende dell’abbigliamento come quella di Rivetti, poiché vi fu l’arrivo sul mercato di una nuova classe di consumatori: una generazione di giovani uomini che, a differenza dei loro padri o fratelli maggiori, mostravano finalmente attenzione alla moda e al modo di vestire. Benché si trattasse di una fase eccezionale per la storia del nostro Paese, di quel periodo Rivetti non sembra però avere particolare nostalgia: «Furono anni magnifici», dice, «ma il Sistema-Italia fece anche molti errori». Meglio allora pensare a ciò che è diventata oggi la Sportwear: un’azienda capace di raggiungere un fatturato di oltre 79 milioni, quasi il triplo rispetto ai 28 milioni di euro di ricavi registrati nel 2009. Il merito di questa crescita a tre cifre va a una strategia lungimirante che, dopo la vendita nel 2010 dell’altro marchio di punta della società (Cp Company), ha visto la Sportswear puntare sul brand Stone Island, innovare i processi produttivi, continuare a sperimentare materiali e tecniche mai applicati all’industria dell’abbigliamento, come i tessuti altamente rifrangenti o termosensibili.