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Economia

Superalcolici: un business sempre più in fermento

Gli italiani lo fanno meno, ma meglio… scendono i consumi di superalcolici, ma le loro qualità sono apprezzate di più. Tutto quello che c’è da sapere sul mercato degli spirits

Il Daiquiri, a base di rum bianco, è il più amato di sempre dalla letteratura e dal cinema, dal Grande Gatsby al Padrino Parte II. Il Negroni, una storia tutta italiana racchiusa in un mix di vermuth rosso, Campari e gin, nato come aristocratico aperitivo ottocentesco, grazie al conte fiorentino Camillo Negroni e all’intuitivo barman Fosco Scarselli, è oggi il secondo cocktail più bevuto negli Stati Uniti dopo l’Old Fashioned, il patriarca “al bourbon” di tutti i drink superalcolici, riportato alla ribalta dalla serie Mad Men.

Ma potremmo citare anche un evergreen di stile ed eleganza come il Gin Tonic, così semplice eppure molto complesso da realizzare. E se pensate che certi “sorsi illustri” siano appannaggio dei soli gentlemen, ricordatevi del Manhattan (rye whiskey, vermouth rosso, Angostura), che ha spesso deliziato le signore da metà del XIX secolo a oggi, dalla mamma di Winston Churchill, l’americana Jennie Jerome, a lanciatissime donne in carriera alla Sex and The City. Almeno quando Carrie e le sue amiche non stringono un altrettanto modaiolo Cosmopolitan (vodka, succo di mirtillo e triple sec).

Come evidenziano dati Iswr (International Wine and Spirit Research), nel 2015 il volume globale del mercato dei cosiddetti “spirits” ha raggiunto 3,07 miliardi di casse, dopo aver registrato una crescita dell’8% tra il 2010 e il 2014, malgrado l’onda lunga della crisi congiunturale. Non solo. Sembrano rosee le previsioni per il prossimo biennio, visto che, fino alla fine del 2019, s’ipotizza un ulteriore aumento del 2,9%. E se la chiave del successo della vendita delle bottiglie più pregiate si gioca tutta tra ricette tradizionali, fortemente legate al territorio d’origine, packaging impreziosito da dettagli glamour e vintage abilmente dosati, secondo la rivista The Spirit Business, che cita uno studio targato Cga Strategy, per quanto riguarda le nuove tendenze nel consumo di superalcolici i principali trend si svilupperanno attorno a principi chiave come l’uso di materie prime d’eccellenza e bio, la genuinità autentica del flavour, il servizio impeccabile da parte degli artisti dei long drink che creano miscele al ritmo di boston e mixing glass, di strainer e blender.

I big del mercato dei superalcolici

Guardando l’andamento del comparto degli “spirits” degli ultimi dieci anni, Stuart Whitwell, Joint Managing Director della società di consulenza britannica Intangible Business, ha dichiarato: «Il mercato statunitense sta diventando sempre più forte e prestigioso, sfidando la supremazia della Scozia nel settore. Sul fronte dei consumatori, questi ultimi saranno sempre pronti a pagare per un whiskey scozzese premium, ma, nello stesso tempo, si evidenziano anche nuove categorie attrattive come i bourbon e i whiskey giapponesi e irlandesi».

Un rilevante ago della bilancia, in tal senso, potrebbe essere rappresentato dalle conseguenze della Brexit. Produttori e operatori del Regno Unito sono seriamente preoccupati: basti pensare che vale oltre 3,8 miliardi di sterline il giro d’affari dello Scotch esportato nel corso dell’ultimo anno, di cui almeno un terzo (1,2 miliardi) nel perimetro Ue. Ma, a parte questa incognita da sciogliere e le oscillazioni cui saranno sottoposti i dazi nei prossimi mesi, quel che è certo è che il settore resta dominato da almeno quattro grandi gruppi, come emerge anche dagli ultimi report di Intangible Business: Diageo, Pernod Ricard, Bacardi Martini and Beam Global/Beam Suntory, un giapponese d’acciaio, quest’ultimo che, insieme a Campari (al settimo posto in base alle rilevazioni della società britannica) potrebbe fare ulteriori balzi in avanti nel prossimo triennio.

Brand dalla consolidata riconoscibilità presso i consumatori nel proprio portfolio; heritage secolare; forte radicamento territoriale nella produzione e nella logistica, ma, nello stesso tempo, anche una notevole spinta all’innovazione, tesa alla ricerca di prodotti dal gusto più sperimentale e contemporaneo, per strizzare l’occhio a un pubblico più giovane; ingenti investimenti nell’ambito della sostenibilità, perché la propria crescita economica vada di pari passo con la creazione di valore per tutti gli stakeholder, rispettando l’ambiente, puntando sulla social responsibility e mettendo a punto campagne di comunicazione sulla prevenzione, contro l’abuso di alcolici.

La strategia di Diageo

Ecco le principali leve strategiche su cui puntano, oggi, i titani della produzione e distribuzione di superalcolici. Uno degli esempi più significativi di tali politiche lo fornisce il gigante Diageo, dal fatturato di circa 14 miliardi di sterline nel beverage alcolico, che include marchi dalla lunga tradizione come la rinomata vodka Smirnoff, il liquore cremoso Baileys, lo scotch whisky più bevuto al mondo, Johnny Walker, a cui vanno aggiunti altri nomi celebri quali Pampero, Captain Morgan, Tanqueray.

Con il quartier generale a Londra, il gruppo opera attualmente in più di 180 Paesi e conta oltre 22 mila dipendenti. Quotata al London Stock Exchange e al Nyse di New York, la società è tra le 200 più grandi imprese del mondo per capitalizzazione ed è leader di mercato negli Stati Uniti, in Uk, in Irlanda, e poi ancora in Russia, Brasile, India, Corea e Australia. Malgrado la crisi di durata ultradecennale e “l’effetto Brexit”, stando alle prime stime per il 2016, la multinazionale ha riportato una crescita del 2,8% a valore (10,485 milioni di sterline nelle vendite nette), registrando incrementi in tutte le aree in cui opera.

Sono state evidentemente apprezzate operazioni come quella effettuata su 30 milioni di nuove bottiglie Johnny Walker Red Label, il primo marchio di Diageo a riportare, dalla scorsa estate, le informazioni nutrizionali sul packaging. Ma anche proposte sperimentali quali la vodka Smirnoff con note inusuali di caramello e mashmallows, il Baileys Chocolate Luxe, che unisce finissimo cioccolato belga, pregiato whiskey irlandese e crema di latte, e i Parrot Bay Frozen Cocktails, confezioni monodose già pronte per l’uso domestico, di cui godere senza l’abilità di un barman professionista. Senza contare la promozione di pubblicità sociali, alcune rivolte al “bere responsabile” per un target giovanile, a supporto di enti e istituzioni come il ministero della Salute in Italia, altre mirate a supportare le aree più povere e disagiate del mondo.

Il mercato italiano dei superalcolici

Passando ad analizzare il comparto nella Penisola, occorre interpretare alcuni dati recenti, come quelli Nielsen-Federvini, in modo opportuno. Non spaventi più del dovuto il fatto che, negli ultimi cinque anni, 1,8 milioni di italiani abbiano ridotto i consumi di bevande alcoliche. Così come la flessione del trend dei liquori (- 30%), dei distillati (-17%), dei cocktail alcolici (-31%), mentre tengono champagne, spumante e prosecco e aperitivi alcolici (altri piccoli orgogli tricolori che impazzano nel resto del mondo).

Un calo ammortizzato dall’export, che, complessivamente tra nettari, bollicine e superalcolici, sfiora i sette miliardi di euro. E soprattutto che, per il presidente di Federvini, Sandro Boscaini, «è da imputarsi probabilmente al quadro economico generale, alla minor propensione al consumo fuori casa, alle tendenze in campo alimentare che spingono spesso i consumatori verso stili di vita “pro” o “contro” singoli prodotti o categorie di prodotti, e di conseguenza a una contrazione nella frequenza del bere che, secondo quanto rilevato da Nielsen, passa da quattro a 3,6 volte a settimana».

Ma Boscaini ha anche aggiunto: «Sono indicatori importanti che ci danno la misura di quanto stiano cambiando le abitudini e le modalità di fruizione dei connazionali, che restano i più virtuosi d’Europa». C’è di più. «La fotografia scattata da Nielsen», ha chiosato il presidente di Federvini, «mette in luce un’attenzione crescente ai rischi derivanti dagli eccessi e, allo stesso tempo, mostra la corretta percezione ed il valore di un bere italiano basato sulla qualità». La ricercatrice Nielsen Tiziana Fumagalli, invece, ha posto l’accento sul fatto che «per riconquistare il mercato interno, i produttori di vino e alcolici nazionali dovrebbero porre maggiore attenzione al web. Internet per il comparto è ancora uno spazio da guadagnare, nonostante sia importante nella fase di pre-acquisto quando il 60% degli enonauti vi raccoglie informazioni. Il giro d’affari che la Rete muove sul largo consumo in Italia è ancora su valori di nicchia, uno spazio bianco, ma è questo il futuro».

Le eccellenze made in Italy

Chi, intanto, continua a riempire i bicchieri, degli italiani e degli stranieri, sono alcuni nostri fiori all’occhiello come Fratelli Branca Distillerie che, al motto di novare serbando, innovare conservando, oggi, a più di 170 anni dalla sua nascita, è presente in oltre 160 Paesi, con un fatturato annuo superiore ai 300 milioni di euro, in costante crescita malgrado le difficoltà del mercato. E sono rimaste sempre in mano alla stessa famiglia: al comando c’è il conte Niccolò Branca, quinta generazione, affiancato, qualche mese fa, dalla figlia Alberica, che ha assunto la responsabilità del mercato inglese, mentre suo fratello Edoardo si occupa, da tempo, di quello nordamericano.

Attorno ai prodotti storici come il Fernet Branca, lo Stravecchio e il Brancamenta, le distillerie milanesi hanno creato un impero con acquisizioni, diversificazioni, extension line ad hoc. Basti pensare che, di recente, il gruppo ha chiuso un importante accordo in Louisiana, patria di storiche realtà del segmento spirits: i nuovi contratti hanno dato il via libera all’accordo che consentirà all’“aquila che vola” di importare e distribuire nella Penisola il brand Southern Comfort, “strappato” ai competitor della Campari. Si arricchisce così ulteriormente un menu che si era rimpinguato già sette anni fa grazie alla partnership siglata con il gruppo Rémy Cointreau (con un pacchetto comprendente i cognac Rémy Martin e Louis XIII, Cointreau, il rum Mount Gay e la specialità Passoa, Tequila Sierra del gruppo tedesco Borco e lo champagne Tsarine di Chanoine).

Continuamente attento alle opportunità che possono emergere da riassetti innescati da grandi fusioni o a piccoli produttori di marchi premium. Festeggia i suoi 120 anni di attività la Grappa Nonino, impegnata a salvaguardare i vitigni autoctoni e diventata un modello culturale e di marketing. Tanto che, di recente, la rivista della London School of Economics ha citato questo gioiello friulano come vero e proprio case study, raccontandone la “rivoluzione” portata avanti da Giannola, moglie di Benito, «che grazie a passione, determinazione, impegno e autenticità ha elevato lo status della grappa, trasformandola da Cenerentola a regina dei distillati».

L’azienda di Ronchi del Percoto, a pochi chilometri da Udine – con un fatturato 2016 di circa 14,4 milioni di euro, di cui il 50% nei 72 Paesi nei quali è presente – ha scelto di non puntare su una pubblicità tradizionale, bensì su eventi, innovazione e sviluppo, sperimentando nuove materie prime per la produzione e packaging attraenti (tra cui le bottiglie realizzate a mano in vetro di Murano) e allargando a nuovi segmenti di clientela, continuando sempre a produrre la grappa con una distillazione 100%, con metodo rigorosamente artigianale. Facendo, inoltre, elemento chiave della sua comunicazione l’omonimo premio che ha lanciato nel 1975, dedicato alla civiltà contadina e successivamente esteso anche a personalità della letteratura e del giornalismo.

Al top del turismo industriale e culturale su scala europea oggi ci sono le Distillerie Poli di Bassano del Grappa (Vicenza), con un giro d’affari da oltre 9 milioni di euro, entrate un paio d’anni fa, con il Museo Poli di Schiavon (sempre Vicenza,10 mila visitatori mensili), nel prestigioso circuito European Route of Industrial Heritage, che valorizza il patrimonio archeologico industriale del Vecchio continente: più di mille siti in 44 Paesi, suddivisi in 13 itinerari tematici e 17 percorsi regionali, con 80 selezionati anchor points, punti di ancoraggio. Ne fanno parte le due realtà aziendali dei Poli, che da quattro generazioni operano con un antico alambicco di rame, fra i pochissimi ancora esistenti, che permette di produrre grappe e distillati corposi ed eleganti: a esso è stato affiancato, qualche anno fa, un apparecchio hi tech all’avanguardia che ha consentito di innovare la procedura di lavorazione delle vinacce. Tutte storie di successi che si sono perpetrati e rinnovati decade dopo decade, forti di alchimie vincenti. Quelle testate nelle ampolle dei laboratori e fatte invecchiare nelle botti di antiche cantine, certamente, ma anche quelle di mix vivaci e stimolanti nel segno di artigianalità e cultura, arte e impresa.

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© Yakobchuk Olena