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Dopo gli Usa, l’Italia è il Paese che negli ultimi anni ha ospitato il maggior numero di casi di back reshoring, ossia di rientro della produzione nella Penisola. Merito soprattutto delle nostre competenze in fatto di stile. Imprescindibili per le aziende del fashion system

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A Brendola, piccolo comune con meno di 7 mila anime in provincia di Vicenza, i progettisti sono già al lavoro da tempo, con un compito ben preciso: creare dal nulla un nuovo polo produttivo per Bottega Veneta, storico marchio della moda made in Italy, che ha scelto proprio questa minuscola cittadina per dar vita a un nuovo insediamento manifatturiero con attività industriali e artigianali, ma anche con uffici, magazzini, aree commerciali all’ingrosso e persino con un po’ di spazio dedicato all’istruzione professionale. Altro che delocalizzazioni in Cina, India, Vietnam o in qualche altro Paese emergente dove la manodopera costa poco o nulla. Anche dopo essere stata acquisita da una multinazionale del fashion come il gruppo francese Kering, Bottega Veneta ha deciso di mantenere salde le proprie radici nei luoghi in cui è nata. La ragione? Semplice: per chi realizza beni di lusso e di alta moda, oggi è più conveniente restare (o addirittura espandersi) in Italia, dove ci sono tutti gli ingredienti giusti per realizzare creazioni di qualità, nonostante i costi di produzione siano ben più alti che altrove. A pensarla così, non sono soltanto i vertici Bottega Veneta e i suoi proprietari transalpini. Molti altri marchi del lusso, infatti, oggi stanno puntando con decisione sulla Penisola, dove cercano di ampliare il più possibile le proprie attività.

BENTORNATI Gli addetti ai lavori lo chiamano con l’espressione inglese “back reshoring” ed è un fenomeno che, da qualche anno a questa parte, viene studiato attentamente dalle società di consulenza strategica e persino nelle facoltà universitarie di economia. Si tratta della decisione da parte di molte aziende, di riportare nel proprio Paese di origine (totalmente o parzialmente) le produzioni che erano state trasferite in precedenza all’estero, soprattutto nei Paesi emergenti.

Le aziende che “ritornano” in patria

A ben guardare, il rimpatrio delle attività manifatturiere non è un fenomeno solo italiano. A guidare la classifica sono, infatti, gli Stati Uniti. Secondo i dati di Uni Club MoRe Back-reshoring (centro di ricerca composto da docenti delle Università di Catania, L’Aquila, Udine, Bologna, Modena e Reggio Emilia), negli ultimi cinque anni ben 175 attività industriali americane sono tornate a casa, dopo aver “soggiornato” per un po’ di tempo in altri angoli del pianeta, in particolare nel lontano Oriente. Subito dopo gli Usa, però, si piazza al secondo posto l’Italia, con ben 79 operazioni di back reshoring dal 2009 in poi, più del doppio di quelle registrate in Germania, Francia o Gran Bretagna. E a fare la parte del leone, nelle decisioni di rientro nei confini nazionali, sono proprio i gruppi del lusso e della moda made in Italy che, assieme alle aziende del comparto dell’arredamento, rappresentano da sole circa il 50% di chi è tornato a produrre da noi.

NUOVA VITA PER IL MADE IN Del resto, per rendersi conto di cosa stia accadendo nel tessuto industriale legato al mondo del fashion, non occorre essere studiosi di economia aziendale. Basta ripercorrere le cronache degli ultimi mesi, che raccontano la ritrovata vitalità di alcuni segmenti del made in Italy. Nella primavera scorsa, per esempio, alcune note griffe hanno comunicato la propria intenzione di rafforzare le attività dentro i confini nazionali. È il caso di Prada che, nel suo piano industriale per il triennio 2014-2016, ha annunciato la volontà di aprire quattro nuovi stabilimenti tra le Marche e la Toscana. A farle compagnia c’è Ermenegildo Zegna, che nel 2014 ha messo in cantiere investimenti per 107 milioni di euro nei suoi poli produttivi di San Pietro in Mozzetto (Novara) e di Parma. Sulla stessa lunghezza d’onda si muovono anche Salvatore Ferragamo, che sta ampliando il proprio quartier generale di Osmannoro (Firenze) e Tod’s, che sta costruendo una nuova fabbrica a Casette d’Ete (Fermo) a cui se ne aggiungerà un’altra in Toscana. Altro caso da ricordare è quello della fiorentina Nannini, noto marchio di borse che da tempo ha abbandonato l’Europa dell’Est per tornare a fabbricare in madrepatria oppure quello di Furla che, negli ultimi tre anni, ha incrementato la produzione di merci in Italia di 300 mila unità, con un trend in crescita. Senza dimenticare, poi, che anche molti gruppi stranieri del fashion stanno scommettendo sulla manifattura italiana.

Dopo aver acquisto una lunga sfilza di aziende del made in Italy quali Gucci, Fendi, Rossimoda, Roveda o la stessa Bottega Veneta le multinazionali del lusso come Lvmh, Dior, Celine, Kering o Chanel si sono ben guardate dallo smobilitare la produzione dal nostro Paese. Anzi, il territorio della Penisola è diventato piuttosto un polo aggregante per nuovi stabilimenti. Lo sanno bene gli esperti di Pambianco strategia d’impresa, nota società di consulenza specializzata nel settore della moda e del lusso che, nel novembre scorso, ha dedicato un intero convegno al fenomeno del back reshoring, invitando molti testimonial dell’imprenditoria italiana.

UNA REALTÀ A DUE FACCE Tra questi c’era pure il patron di Tod’s Diego della Valle che ha spiegato, con la sua solita schiettezza, che nessun imprenditore trasferisce gli stabilimenti all’estero a cuor leggero. «Chi può mantenere le produzioni vicino a casa, lo fa più che volentieri», ha detto Della Valle. Il guaio è, secondo il proprietario di Tod’s, che non tutti possono permetterselo. La prova arriva da una ricerca degli analisti di Pambianco, che dimostra come questo fenomeno (almeno nel settore del lusso) interessi soprattutto una categoria di aziende: quelle che realizzano beni di alta gamma e che sono capaci di generare ampi margini di profitto. Non va dimenticato, infatti, che in Italia c’è un indice di costo della manifattura molto alto, non soltanto se confrontato a quello della Cina, che è inferiore di quasi il 30%, ma anche in rapporto ai nostri vicini di casa della Francia e della Germania, per non parlare degli Stati Uniti.

Non a caso, un sondaggio effettuato dalla società di consulenza rivela una realtà a due facce. Mentre tutte le imprese che producono beni di alta gamma prevedono di incrementare o mantenere stabile la propria produzione in Italia, tra quelle di fascia media i risultati sono ben diversi: il 74% del campione è intenzionato ad aumentare o a lasciare invariata la presenza produttiva nel Belpaese, ma c’è pure una quota di ben il 26% che vuole diminuirla.

LA PATRIA DEL LUSSO A quanto pare, dunque, sono soprattutto le griffe più prestigiose a fare rotta verso la Penisola. Alla base di questa scelta, non c’è di certo uno spirito patriottico bensì un mix di fattori strategici. Innanzitutto, a spingere le aziende a tornare è la crescita del costo del lavoro nei Paesi emergenti come la Cina, dove il salario minimo, pur rimanendo competitivo, è aumentato tra il 15 e il 25% negli ultimi quattro-cinque anni. Poi, molte imprese sono diventate più attente ai costi della logistica. Infine, non va dimenticata la necessità di tenere d’occhio più da vicino la qualità delle produzioni e delle forniture, difficilmente controllabile a distanza.

L’intervista a David Pambianco

Dunque, se consideriamo il nutrito esercito d’imprenditori che ritornano e aggiungiamo quelli che all’estero non ci sono mai andati come il re del cashmere Brunello Cucinelli, si può dire che le delocalizzazioni sembrano ormai passate di moda, almeno nel fashion. Dietro queste scelte ci sono anche ragioni di tipo storico e culturale. Nonostante l’arrembaggio dei Paesi emergenti, infatti, il made in Italy mantiene un prestigio internazionale indiscusso. Per rendersene conto, basta rileggere le parole pronunciate da Sidney Toledano, presidente e Ceo della maison Christian Dior. «Il vero lusso si fa solo in Italia», ha detto in sostanza il manager di Dior all’inaugurazione di una nuova pelletteria a Scandicci (Firenze). Il nostro Paese, secondo Toledano, ha conservato una grande maestria che, grazie alla tradizione familiare, è rimasta intatta ed è stata tramanda fino a oggi. Lo sanno bene pure quelli di Marchon, gigante americano dell’occhialeria, che ha riportato a Puos d’Alpago (Belluno) una serie di produzioni che erano state delocalizzate in Asia. Nel mondo intero, infatti, nessuno è capace di fare bene gli occhiali quanto gli artigiani del Veneto, una regione che ha dato anche i natali a multinazionali del calibro di Luxottica e Safilo. Se è vero che produrre nel nostro Paese costa un po’ di più, per molti imprenditori il saper fare italiano non ha prezzo.

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© Tullio M. Puglia/Getty Images