Connettiti con noi

Business

Finanza ed ebraismo, un coacervo di luoghi comuni

Sono molti gli stereotipi sul rapporto tra la cultura giudaica il mondo della finanza. A partire da quello legato al prestito di denaro. Tutti strettamente connessi alle attività economiche di questa comunità, anziché alla sua religione

architecture-alternativo

È la frase che il grande economista Milton Friedman pronunciò durante una conferenza all’Università di Chicago nel lontano 1976, poco dopo essere stato insignito del Premio Nobel per le sue celebri teorie sulla moneta, le stesse che poi hanno ispirato il pensiero neo-liberista dei successivi 30 anni. Fu nel corso di quella conferenza che Friedman, nato a Brooklyn nel 1912 da una famiglia ebrea poverissima, emigrata negli Stati Uniti dall’Europa Orientale, analizzò il complesso rapporto che lega lo spirito dell’economia moderna all’etica e alle tradizioni di un popolo (quello ebraico, appunto) capace di dare un contributo fondamentale alla cultura dell’intero Occidente. Secondo il celebre sociologo tedesco Werner Sombart, per esempio, l’etica ebraica ha addirittura posto le basi per la nascita del capitalismo moderno, favorendo nel corso dei secoli l’affermazione della libertà individuale nello svolgimento delle attività economiche (un ruolo che Max Weber, amico e “collega” di Sombart, attribuiva, invece, al cristianesimo protestante). Nella sua conferenza, Friedman ribaltò di fatto il ragionamento di Sombart: non è il capitalismo a essere debitore degli ebrei, ma è il popolo ebraico a essere debito-e del capitalismo. Per quale ragione? Perché, sottolineò Friedman, la moderna economia capitalista si fonda sempre sulla concorrenza e sul mercato che, a differenza dei monopoli, non fanno mai distinzioni tra razze, colori della pelle o convinzioni religiose. Se c’è vera concorrenza, infatti, i consumatori acquistano un determinato prodotto soltanto perché lo ritengono migliore degli altri, indipendentemente da chi lo vende o da chi lo produce, sia esso un ebreo, un bianco, un nero, un cinese o un americano. È proprio grazie all’economia di mercato, dunque, che molti ebrei hanno potuto affermarsi nella società, in diverse epoche, nonostante il ruolo di perseguitati assegnato dal destino ai figli d’Israele.

I CONCETTI-CHIAVE

Zedakah È una parola ebraica che significa giustizia ma che viene comunemente usata anche per indicare la carità. Secondo il medico e giurista ebreo Maimonide, la forma più alta di Zedaqah consiste nel fare donazioni, ma anche prestiti che rendano i destinatari indipendenti economicamente, in modo da non dover più chiedere l’elemosina.

Concorrenza Nella tradizione ebraica è sempre stata considerata come un elemento positivo. Le fonti rabbiniche, per esempio, hanno sempre promosso la concorrenza anche nell’insegnamento delle sacre scritture.

Damim Questo termine che in ebraico significa denaro, è il plurale della parola dam, che significa anche sangue. Il valore (vitale) del denaro, come per il sangue, consiste nella sua capacità di circolare nel modo giusto. Nell’etica ebraica, c’è però una condanna dell’uso sbagliato del denaro, della cupidigia, mentre la parsimonia e l’oculatezza hanno un valore positivo.

Interessi Nonostante i luoghi comuni sulla figura dell’ebreo-usuraio, la concessione di soldi in prestito in cambio di interessi viene condannata in diverse parti del Vecchio Testamento (nell’Esodo, nel Levitico e anche del Deuteronomio). Le attività bancarie cui si dedicarono con successo gli ebrei, sin dal Medioevo, hanno origine piuttosto dal fatto che ai membri della comunità giudaiche era vietato l’esercizio di altre professioni.

IL NODO DELL’USURA

Ragioni storiche, più che affinità etiche, hanno spinto dunque l’ebraismo e la comunità degli affari a trovare spesso molti punti di contatto, nel corso dei secoli. Fin dal Medioevo, per esempio, gli ebrei erano gli unici a poter esercitare legalmente la pratica dell’usura, che invece era vietata ai cristiani. Molti membri delle comunità giudaiche divennero, infatti, degli usurai soltanto perché, contemporaneamente, si vedevano precluso l’accesso ad altre attività economiche: non potevano ad esempio effettuare lavori agricoli, né far parte di alcuna corporazione, mentre una bolla del 1205 di papa Innocenzo III (Etsi Iudaeos) li aveva posti nella condizione di «perpetua servitù». Alle comunità giudaiche medievali, dunque, restavano ben poche scelte: o si dedicavano ad alcune forme di artigianato e di commercio oppure svolgevano quella che era per loro un’attività lecita, proibita ai cristiani, cioè la concessione di denaro in prestito. Come ha ricordato il biblista Pietro Stefani (nel saggio Gli Ebrei, Edizioni il Mulino, 2006) i membri delle comunità giudaiche non furono però gli unici a praticare l’usura: erano piuttosto i soli a farlo alla luce del sole, cioè in maniera pubblica e regolata delle autorità civili, mentre alcuni cristiani vi si dedicavano clandestinamente. Nonostante questo “dettaglio” tutt’altro che trascurabile, nel corso della storia si è affermato comunque uno stereotipo che ha dato vita a non poche farneticazioni antisemite. È lo stereotipo dell’ebreo-strozzino, avido di ricchezze, che trova spazio persino nella letteratura di William Shakespeare, con il personaggio di Shylock, il ricco usuraio giudeo disprezzato dai cristiani, che è uno dei protagonisti de Il Mercante di Venezia.

L’ETICA DEGLI AFFARI

A ben guardare, anche nell’etica ebraica, la pratica dell’usura ha suscitato non poche discussioni teologiche. Nell’Antico Testamento, c’è infatti un passo importante che afferma: «Allo straniero potrai dare denaro in prestito, ma non a tuo fratello» (Deuteronomio 23,20). Fu così che nel XII secolo, come ricorda Stefani nella sua opera, una delle più importanti autorità rabbiniche francesi, Rabbenu Tam, si appellò a questo principio per giustificare la pratica dell’usura da parte degli ebrei, visto che la loro condizione di minorità sociale impediva appunto l’esercizio di altre professioni. In questo filone, si inserisce anche il pensiero del medico e giurista ebreo spagnolo Maimonide, che definiva la concessione di denaro in prestito o il dare un lavoro a un povero come la forma migliore di assistenza, ancor più dell’elemosina. Tra gli studiosi, c’è chi attribuisce a queste interpretazioni dei testi sacri la genesi di una spiccata propensione della comunità ebraica per gli affari e la finanza. Analizzando il passo biblico sopra citato, però, emerge comunque che anche nella tradizione religiosa ebraica, almeno in quella delle origini, l’usura non viene vista particolarmente di buon occhio. Anzi, è considerata addirittura una pratica peccaminosa, se viene praticata tra fratelli e non è giustificata da particolari ragioni e da determinate circostanze storiche, come appunto le persecuzioni.

LE PERSECUZIONI E IL COMMERCIO

Sono dunque le persecuzioni contro le comunità giudaiche nel corso dei millenni, che spiegano il perché vi siano così tanti punti di contatto tra gli ebrei e le attività finanziarie e commerciali. Si tratta di un aspetto messo in evidenza anche dall’economista Alberto Heimler, studioso della concorrenza, il quale ha sottolineato le notevoli differenze esistenti tra le comunità ebraiche sefardite della penisola iberica e quelle sviluppatesi invece nell’Europa centrale. I sefarditi – scacciati dalla Spagna nel 1492 dalle persecuzioni di Isabella di Castiglia e dell’Inquisizione – ebbero un ruolo importantissimo nel commercio internazionale e svilupparono, secondo Heimler, una doppia identità: un forte attaccamento alla loro tradizione e alle loro comunità di origine, ma anche un senso di appartenenza ai Paesi che li avevano accolti e integrati, soprattutto quelli dell’Impero Ottomano di fede musulmana. Questa fitta rete di relazioni tra ebrei e non ebrei, fu un terreno fertile per la nascita di un ricco tessuto di scambi commerciali e per la genesi di uno spirito proto-capitalistico, che sta alla base dell’economia moderna. Al contrario dei sefarditi, invece, le comunità ebraiche dell’Europa centrale vissero isolate fino quasi al ‘700, facendo propria la tradizione di alcuni scritti rabbinici dei secoli precedenti (in particolare del ‘500 e del ‘600), che disprezzavano l’accumulo di ricchezze e persino il lavoro, subordinandoli entrambi allo studio dei testi sacri. Heimler (che ha messo in evidenza questa differenza storica nel Dizionario di economia e finanza edito da Treccani), ricorda per esempio che lo stesso giurista Maimonide consigliava agli uomini di dedicare al lavoro ben dodici ore al giorno, di cui solo tre avevano però come scopo le esigenze materiali, cioè il sostentamento personale, mentre le altre nove dovevano essere destinate all’interpretazione delle sacre scritture. Fu così che fino al XVIII secolo, mentre i sefarditi facevano affari nel Mediterraneo, le attività economiche degli ebrei centro-europei rimasero molto circoscritte (anche per volontà del potere politico) e si limitarono al commercio di stracci e di bestiame, oltre che all’erogazione di credito. Per analizzare in maniera approfondita il rapporto tra l’ebraismo e le vicende dell’economia o della finanza, dunque, bisogna studiare bene le storie delle diverse comunità israelitiche nel mondo ed evitare di sposare molti luoghi comuni, che guardano alla storia ebraica come un corpo unico e indistinto. Sono gli stessi luoghi comuni che anche Friedman, nella conferenza di Chicago del n1976 cercò di smentire citando un episodio della sua carriera. Una volta, invitato a parlare di fronte a un consesso di banchieri e top manager finanziari di tutto il mondo, il celebre premio Nobel fece un rapido sondaggio e appurò che soltanto una persona su cento, tra le quelle che lo ascoltavano, era di origine ebraica. Stando ai risultati di quella brevissima indagine, dunque, ha torto chi ritiene che la finanzia mondiale sia da sempre in mano, del tutto o in parte, a una lobby ebraica.

SOLO A SENTIRLA NOMINARE, MI SENTO A DISAGIO

Haim Baharier ci racconta il suo punto di vista sulla finanza islamica

«Quando sento parlare di jewish banking, un’espressione con cui vengono definiti in inglese il modo di fare banca degli ebrei e la cosiddetta finanza ebraica, mi viene subito un senso di non sopportazione». Parola di Haim Baharier, 66 anni, noto studioso di ermeneutica biblica e di sacre scritture, allievo di celebri pensatori come Léon Askenazi ed Emmanuel Lévinas. Dunque, professore, non esiste nessuna finanza ebraica? Guardi, mi faccia dire innanzitutto una cosa: io non sono mai stato interessato a quelle statistiche che ci dicono quanti sono i premi Nobel assegnati nella storia agli ebrei o quanti top manager e banchieri di origine ebraica ci sono oggi.Per quale ragione? Perché quella dell’ebraismo resta per me l’etica della claudicanza, di chi è consapevole dei propri limiti e sa rimpicciolirsi, senza diminuirsi.Dunque? Allora è bene sottolineare che il jewish banking non esiste. Esiste piuttosto un jewish being, cioè l’essere ebreo, ossia un’etica condivisa che naturalmente si traduce in un fare. Io sono ebreo nel mio fare.Anche nelle attività economiche… Certo. È chiaro che un individuo sarà ebreo anche nel suo fare banca. Ma non ci sono delle leggi e delle regole di comportamento in quest’ambito. C’è piuttosto una predisposizione di spirito.C’è chi vede nell’etica ebraica le radici del moderno capitalismo. Cosa ne pensa? Di certo, nell’etica ebraica la libera concorrenza viene considerata in maniera positiva. Va ricordato, però, anche un aspetto importante: nel pensiero ebraico si parla di economia di giustizia, più che di economia giusta.In che senso? Le rispondo con una domanda: chi decide gli elementi che consentono di definire un’economia giusta? Tutto è relativo e dipende sempre dal contesto politico e sociale: un’economia considerata giusta in un determinato contesto, può non esserlo invece in un altro. La tradizione talmudica dice, invece, che esistono dei valori di giustizia definiti a priori, che hanno poi dei risvolti nella vita pratica. In altre parole, un ebreo si deve interrogare sempre su come questi principi di giustizia possono trovare applicazione nell’attività economica.Che rapporto c’è tra l’etica ebraica e il denaro? Direi un rapporto molto complesso, che invece nel mondo esterno viene percepito in maniera monolitica. Nel linguaggio del Talmud, il denaro è chiamato Damim, che ha contemporaneamente due significati diversi.Quali? Denaro e sangue. Al pari del sangue, i soldi sono conduttori di vita, ma soltanto se circolano nel modo giusto. Altrimenti, il denaro porta alla morte. In altre parole, quando i soldi diventano un idolo e vengono utilizzati in maniera sbagliata, hanno un effetto letale.