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Lavoro

La debolezza del Country Manager

Per ottimizzare le risorse e valorizzare le economie di scala, sempre più multinazionali accorciano la catena di controllo incaricando pochi dirigenti di gestire aree sovranazionali. Relegando ai responsabili dei singoli Paesi sempre meno funzioni

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Ha un sapore frizzante pranzare a New York. Ogni giorno nei migliori ristoranti di Manhattan si consumano più di 50 mila bottiglie San Pellegrino. E spesso i clienti sborsano più di 10 dollari a bottiglia pur di accompagnare il menù con sorsi dell’acqua Made in Italy. E così succede in oltre 130 Paesi nel mondo. Si dice che la classe non è acqua.

Ma nel caso della minerale della Val Brembana vale il ragionamento opposto: con un brand che in pochi anni è diventato sinonimo di lusso e qualità. La storia di successo di San Pellegrino (800 milioni di fatturato e un export galoppante) non era affatto scontata. Nel 1997 Nestlé ha acquisito la società della famiglia Mentasti insieme con i marchi Panna, Levissima e Recoaro.

Il tricolore va forte all’estero

Il mercato italiano delle minerali è tradizionalmente molto ricco: 192 litri pro capite l’anno per 4,5 miliardi di euro di spesa. Siamo il Paese che ne beve di più al mondo. Per la multinazionale svizzera il business sembrava quindi assicurato. E per quanto riguarda le tavole a 5 stelle aveva già in pancia (dal 1992) l’ammiraglia Perrier, emblema globale delle bolle di lusso.

Insomma per il brand italiano il futuro appariva tutto casalingo. E invece i manager della consociata italiana sono riusciti a spuntarla, convincendo il quartier generale di Vevey della bontà di un prodotto che avrebbe potuto conquistare i consumatori di fascia alta in ogni parte del pianeta. Anche andando a fare concorrenza sullo stesso segmento di mercato alla blasonata e “consorella” Perrier.

Per una storia di successo ce ne sono molte altre di declino. Soprattutto oggi nella stagione del ritorno del Merger&Acquisition, acquisizioni e fusioni con il vento in poppa, a quota 3 mila miliardi nel 2014, che vede il consolidamento delle multinazionali, e le medie società che puntano a diventare sempre più grandi grazie all’allargamento del perimetro di business.

Un tempo per ogni Paese c’era un country manager a governare, riportando direttamente al Ceo. Oggi con l’espansione globale del business e l’aumento dei marchi in cassaforte, le società accorciano la catena di controllo incaricando pochi top manager di gestire più Paesi e più brand e relegando solo poche funzioni ai responsabili dei singoli Paesi. La riorganizzazione delle grandi imprese prevede quindi la ripartizione geografica in cluster: ad esempio l’Europa viene divisa in tre grandi aree: Nord, Est e Sud.

In questo contesto sarà possibile ancora far prosperare le “altre San Pellegrino”? Oppure molti brand saranno destinati a subire logiche di real politik, frenati nello sviluppo per non disturbare i mercati degli altri marchi di un gruppo? La questione non è di poco conto. Negli ultimi quattro anni, stando a dati di Kpmg, investitori esteri hanno compiuto più di 400 acquisizioni in Italia per un contro valore di 55 miliardi di euro.

Tra le maggiori, in tempi recenti, c’è quella degli elettrodomestici Whirlpool sulle attività industriali Indesit, l’ingresso dei russi di Rosneft in Pirelli (e adesso dei cinesi di ChemChina), il 40% di Ansaldo Energia a Shanghai Electric. E c’è il rischio per un Paese in forte difficoltà come il nostro di diventare periferia dell’impero, governata da top manager che seguono un’area indefinita come il Sud Europa, tesi a privilegiare segmenti di business a seconda di logiche globali.

LA RIORGANIZZAZIONE PREVEDE

LA RIPARTIZIONE IN CLUSTER.

PER ESEMPIO, L’EUROPA VIENE DIVISA

IN TRE BLOCCHI: NORD, EST, SUD

NUOVI VICERE’. La società di consulenza americana Spencer Stuart ha cercato di approfondire il fenomeno passando al setaccio le attività di 30 alti dirigenti di grandi multinazionali di prodotti di consumo.

Le interviste – rilasciate in forma anonima – tracciano un quadro operativo del tutto nuovo nel panorama dell’organizzazione aziendale. Intanto, seppur non esista un modello unico, ci sono alcuni caratteri comuni nella catena decisionale delle grandi aziende. In passato le multinazionali tendevano a dare grande autonomia ai manager incaricati di seguire i mercati nazionali. Oggi si preferisce accorpare le funzioni, allo scopo di ottimizzare le risorse e valorizzare l’economia di scala, in pochi grandi cluster.

Quindi l’area marketing, logistica o innovazione, saranno suddivise per aree, in mano a veri e propri “viceré”, che implementano le linee guida del quartier generale e che saranno poi messe in atto dai country manager dei singoli Paesi. Qualche anno fa The Economist aveva preso di petto il tema lanciando un titolo corrosivo: Country manager da baroni plenipotenziari a hotelier. Così non è per tutti.

Ma dalle interviste condotte dai consulenti di Spencer Stuart ai Country Manager emerge tutta la frustrazione per aver perso l’influenza in campi come l’innovazione, brand strategy e marketing, quando invece rimangono responsabili dei risultati delle vendite e dei target di profitto.

Insomma, il rischio è che il Country Manager si riduca a puro esecutore di strategie altrui, con poche possibilità di manovra. «Se spingi troppo l’acceleratore su strategie globali, rischi di perdere di vista il locale. E allora il consumatore prima o poi se ne accorge. E saranno guai», così si è espresso uno di loro avvertendo i pericoli del fenomeno.

C’ERA UNA VOLTA IL BOSS. «Sono 25 anni che le multinazionali accentrano le funzioni direttive nei rispettivi headquarter. Nell’area euro il fenomeno è ancora più forte che altrove, perché la moneta unica tende a integrare i diversi Paesi in un unico mercato», spiega Enrico Pedretti, direttore marketing di Manageritalia. «Questa estate mi ha chiamato un collega che opera a Vienna per conto di un grande gruppo per dirmi che la sua azienda avrebbe accorpato la sua funzione con quella dell’area di Praga. E per questa decisione avrebbe perso il posto. Storie così, purtroppo, se ne sentono moltissime».

In un momento di contrazione del mercato, e di aggregazioni societarie, vicende di questo tipo tenderanno a moltiplicarsi. E al posto del capo, del Country Manager plenipotenziario, magari capace, come il caso di San Pellegrino, di sollevare un marchio, ci saranno solo responsabili di funzione, assumendo ruoli più operativi che di lancio di strategie.

Lo dice anche Cristina Spagna, Managing Director di Kilpatrick, società specializzata nel reclutamento dei dirigenti: «Più che di Country Manager oggi si parla di capi di una funzione aziendale che sempre di più vengono investiti di responsabilità relativamente a un cluster di Paesi a seconda della geografia organizzativa aziendale. Il capo funzione viene scelto per fare da collante fra la casa madre che prende le decisioni strategiche per il gruppo ed i singoli Paesi che operativamente mettono in pratica le scelte a livello operativo. È sicuramente un trend di tipo organizzativo volto a effettuare sinergie fra Stati e al contenimento dei costi».

A oggi l’Italia mantiene ancora la sua centralità. E anche nell’organizzazione in cluster è molto frequente che il Country Manager mantenga la sua sede operativa nel nostro Paese, e da qui diriga il lavoro negli altri mercati a lui competenti. Ma resta da capire, a seconda dei casi, quanto potere riesca ad avere in mano.

Secondo alcuni analisti la figura del Country Manager è destinata ulteriormente a perdere peso nel tempo, inglobata in scelte che arrivano direttamente dalla casa madre. Restare sulla tolda di comando dipenderà dall’importanza del mercato di riferimento. Ma non solo. Infatti oggi sono richiesti profili manageriali in grado di operare su più mercati.

Per Cristina Spagna l’identikit del Cluster Manager corrisponde alla «capacità di operare su più Paesi comprendendo le differenze culturali e agendo di conseguenza al fine del raggiungimento degli obiettivi aziendali. La capacità di gestire un team a distanza che richiede forti doti manageriali e la capacità di motivare un gruppo non avendo la possibilità di farlo in maniera diretta e quotidianamente. La flessibilità, la competenza tecnologica e la conoscenza delle lingue straniere completano il profilo del candidato ideale per una posizione di questo tipo».

IL RUOLO E’ DESTINATO A PERDERE

ULTERIORMENTE PESO NEL TEMPO.

RESTARE AL COMANDO DIPENDERA’

DALL’IMPORTANZA DEL MERCATO

DI RIFERIMENTO

LA PIATTAFORMA DEL MEDITERRANEO. I consumi domestici sono al palo. Secondo l’Istat la crisi economica ha portato le lancette dell’orologio alla fine degli anni ‘70. È evidente che l’Italia, per molte tipologie di prodotto, non è più centrale come lo era nel passato. E quindi i radar delle multinazionali si accendono per le nuove gradi economie come Cina, India e Brasile o si consolidano nei mercati maturi che però continuano a crescere, come Usa, Germania e Uk.

Eppure l’Italia resta un Paese chiave per molte società. Non tanto, o non solo in termini di consumi, ma come fabbrica di prodotti unici da esportare in tutto il mondo. Per questa ragione la società di spedizioni Ups, pur gestendo gli affari europei dalla sede di Bruxelles, ha mantenuto una struttura operativa e decisionale nel nostro Paese.

Secondo Iulia Nartea, Country Manager di Ups in Italia, che gestisce 1.200 addetti assumendo la responsabilità dell’operatività, la strategia, lo sviluppo delle attività e le funzioni di supporto nel nostro Paese, «in alcuni casi, ha senso consolidare certe funzioni manageriali, finanziarie e amministrative per più Paesi, e uno dei vantaggi è che le best practice e le competenze di un manager possono essere applicate in molteplici aree geografiche».

Ups è un’azienda globale che opera più in 130 Paesi. Ma «non consideriamo nessun mercato più importante dell’altro, poiché il nostro obiettivo è quello di crescere in tutto il continente. È comunque vero che l’Italia è uno dei Paesi chiave in Europa, ed è particolarmente forte nelle esportazioni, per il fatto che la produzione italiana è contraddistinta da una qualità riconosciuta a livello globale. Nei primi nove mesi del 2014 il volume delle esportazioni italiane è cresciuto di più del 10% rispetto allo stesso periodo del 2013».

SULLE ALI DEL BUSINESS. Altro capitolo dello sviluppo aziendale è quello dedicato alla riorganizzazione post-fusione. È il caso delle nozze tra Lan Airlines e Tam Airlines, che oggi rappresentano la prima compagnia aerea del Sudamerica, con 150 destinazioni in 22 Paesi.

Nell’ambito del nuovo organigramma bisogna decidere su quali paesi puntare. E l’Italia, malgrado l’incertezza generata sul duopolio degli hub Malpensa e Fiumicino, è stata scelta come rampa di lancio della crescita del gruppo.

A dirigere le operazioni c’è João Múrias che è stato nominato General Manager di Latam Airlines Group per l’Italia, Israele e il Medio Oriente. «In Europa abbiamo puntato su Madrid, Londra, Parigi, Francoforte e Milano. Per noi l’Italia è strategica nel senso che è una zona molto ricca di imprese che colleghiamo con San Paolo, altra zona molto orientata al mondo degli affari. Il nostro traffico passeggeri infatti è per il 50% business. E così contiamo di replicare questi numeri anche sulla nuova rotta Milano-Santiago de Chile».

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