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Lavoro

Imperfetti è meglio

Precisione ed efficienza sono indispensabili per raggiungere gli obiettivi ma, come sempre, il troppo stroppia. Pretese esagerate, nei propri confronti o, ancora peggio, dai propri sottoposti, si possono rivelare disastrose per il business. Soprattutto se non si accompagnano a un talento eccezionale

Quando ne incon­trate uno al lavo­ro, lo riconosce­te subito: pettinatu­ra alla Clark Kent, scrivania in perfet­to ordine, icone del computer tutte alli­neate e quando nessuno trova più quel­la vecchia presentazione, lui ce l’ha. È il classico perfettino. Poco male se si trat­ta di un collega, anzi: rigore e zelo sono proprio quello che ci vuole per arginare la vostra tendenza all’approssimazione e insieme fate davvero una buona squa­dra. Ma se a essere pignolo fino all’in­verosimile fosse il capo? Qui comincia­no le grane. L’ansia da prestazione di un manager, infatti, è negativa per tutti. E fa male al business. Ecco il paradosso: in un ambiente competitivo nel quale con­tano risultati e obiettivi, sarebbe molto meglio non chiedere troppo a noi stes­si. Perché se da un lato il perfezionista è sempre molto determinato nel raggiun­gere gli obiettivi, spesso è anche stressa­to e questo fa crollare tutto il castello. Lo sostengono diversi studi, l’ultimo condotto in Canada da una equipe di psico­logi della Trinity Western University, che sono arrivati a una conclusione: il perfe­zionismo fa male. Un capo che preten­de troppo da sé, infatti, di solito è iper­critico anche con gli altri e questo non fa bene allo spirito di gruppo. Così come il rifiuto di delegare, tipico dei manager precisini e convinti che loro non sba­gliano mai, mentre gli altri sì: ma senza delega non c’è teamwork e questo com­promette il buon esito di qualunque pro­getto. PERFEZIONISTI VIPC’è di più. Come sottolinea la psi­coterapeuta americana Naomi Shragai, un capo perfezionista riesce a ottenere meno risultati di uno, per così dire, nor­male perché, ossessionato dal dettaglio, non riesce ad avere una visione com­plessiva del progetto, si perde nei parti­colari, torna ripetutamente sul lavoro fat­to per migliorarlo ma, così facendo, ri­manda le scadenze e buca la deadline. Un disastro. Intendiamoci: qui stiamo parlando di pignoleria patologica, per­ché fino a una certa soglia, invece, l’ac­curatezza e la diligenza sono ingredien­ti fondamentali del successo. «Dare il meglio di sé al lavoro, svolgendo con responsabilità i propri compiti, metten­doci passione e affrontando con deter­minazione le sfide è un tratto di perso­nalità che può essere utilizzato come una risorsa», spiega la psicologa e psi­coterapeuta Anna Cavaliere, «per que­sto l’aspirazione a essere perfetti può far emergere del talento. Come in ogni aspetto della vita il confine con la pato­logia sta nell’intensità e nelle sfumature: se l’attenzione per il dettaglio è mania­cale, se sono ossessionato dal control­lare in ogni minimo particolare le attivi­tà dei collaboratori, se divento dispotico e intralcio il regolare svolgimento del lavoro, questo dovrebbe essere un campa­nello d’allarme. Anche perché il perfe­zionismo», continua Cavaliere, «si riflet­te nelle relazioni creando continuamen­te attriti e dissapori a causa dell’inflessi­bilità e delle aspettative irrealistiche tipi­che del perfezionista». La perfezione fa male quando…Ecco il punto: il perfezionismo non è ne­cessariamente antagonista del talen­to. A patto che vi sia talento: il perfe­zionismo di Steve Jobs è ormai leggen­da, non c’è un solo pezzo del Mac che lui non abbia approvato personalmen­te, comprese le viti. E anche i suoi col­laboratori non sono da meno: Jonathan Ive, uno dei designer di punta dell’azien­da, pare abbia impiegato sei mesi solo per decidere come far pulsare la luce di stand-by dell’iMac. «È un pignolo anche il grande Enzo Mari», racconta un al­tro architetto e designer, il 48enne mila­nese Giulio Ceppi, «e ricordo che Pier­luigi Cerri impiegò mesi solo per deci­dere il punto di rosso del logo Prada, in modo che fosse diverso da tutti gli altri rossi sul mercato, Ferrari compresa. Cre­do però che in tempo di scarsità, veloci­tà e complessità il perfezionismo sia un grosso limite», continua Ceppi, che ha lavorato per grandi aziende come Auto­grill, Coop, Ikea o Nike e adesso studia il rebranding della Pepsi&Co. «Direi più un freno che non un aiuto. Nel nostro la­voro di progettisti e innovatori non conta tanto la perfezione, ma semmai la reatti­vità, la relazionalità, la sensibilità. Tutto il contrario della perfezione, direi. E se do­vessi citare un fattore fondamentale oggi direi la resilienza».

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A difesa di precisione, accuratezza e scrupolo, invece, si erge Ciro Mongillo, numero uno di TE Wind, società quota­ta a Piazza Affari e leader nel settore del mini eolico. «Chi gestisce team, aziende e progetti deve avere in mente due prin­cipi: focus sui risultati e attenta pianifi­cazione. Ed è qui che bisogna diventare perfezionisti», spiega Mongillo, che per anni si è occupato di leasing , project e factoring per poi entrare nel mondo del­la finanza con Fysis Fund Sicav, «perché l’intuito va bene, poi però bisogna fer­marsi a ragionare sui dettagli, mettendo­li in fila così da raggiungere l’obiettivo, senza accontentarsi mai, correggendo continuamente la rotta, fino addirittura a cambiare obiettivo se necessario, ma a ragion veduta». Insomma, come sempre accade, la vir­tù sta nel mezzo: se da un lato il perfe­zionismo ci rende propositivi e determi­nati, l’eccessivo zelo può diventare una vera malattia. E allora meglio essere feli­cemente imperfetti.

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