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Lavoro

Lavoro, contrattiamo la ripresa

Mentre la Germania ha conservato occupazione e produttività grazie alla flessibilità dei patti locali e aziendali, in Italia sindacati e associazioni di categoria non vogliono rinunciare al dogma degli accordi collettivi nazionali. Ma ora che Sergio Marchionne ha rotto il tabù, molti chiedono la possibilità di seguirlo

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Il 22 maggio scorso, parlando a un importante meeting nella città portoghese di Sintra, Mario Draghi ha lanciato un appello che non è passato certo inascoltato: «Rafforziamo la contrattazione di lavoro aziendale, per tutelare meglio l’occupazione», ha detto in sostanza il presidente della Banca Centrale Europea (Bce) rivolgendosi ai Paesi dell’Eurozona, che oggi intravedono finalmente un barlume di ripresa economica. Nel suo discorso, Draghi ha fatto riferimento a uno studio sul mercato del lavoro del Vecchio Continente, redatto da alcuni economisti della Bce. In Europa, secondo gli esperti, ci sono infatti alcuni Paesi che sono riusciti a contenere meglio l’emorragia di posti di lavoro, nonostante la recessione iniziata nel 2008. Questi Stati sono proprio quelli che hanno puntato negli anni passati sui contratti di lavoro siglati nelle singole imprese, sacrificando invece gli accordi collettivi nazionali, firmati dai maggiori sindacati e dalle più importanti associazioni di categoria.

MODELLO TEDESCOTra le nazioni europee particolarmente virtuose sul fronte della flessibilità contrattuale, c’è ovviamente la Germania, che oggi ha un tasso di disoccupazione attorno al 6,4%, inchiodato ai livelli minimi dell’ultimo ventennio e pari a circa la metà di quello italiano. Lo sa bene anche un gruppo di economisti tedeschi (Christian Dustmann, Bernd Fitzenberger, Uta Schonberg e Alexandra Spitz-Oener) che nel 2014, come i loro colleghi della Bce, hanno dedicato alla ritrovata competitività della Germania un intero studio, le cui conclusioni vengono riportate (tradotte in italiano) nel sito de LaVoce.info. Secondo questo “quartetto” di economisti, il segreto della produttività tedesca sta proprio nel processo di indebolimento della contrattazione collettiva nazionale di lavoro e nel progressivo rafforzamento di quella decentrata, che avviene a livello aziendale e territoriale. Grazie a questo processo, le imprese locali hanno potuto contare su una flessibilità impensabile in altri Paesi e sono riuscite ad adattare i salari, l’organizzazione del lavoro, i turni, le ferie e gli orari alle mutate esigenze createsi con l’arrivo della crisi, senza rimanere imbrigliate nelle maglie troppo strette del contratto collettivo nazionale. In cambio di riduzioni dello stipendio o dei minimi salariali, si è riusciti a evitare licenziamenti e delocalizzazioni. Con una maggiore flessibilità degli orari, invece, molte imprese tedesche hanno recuperato produttività, derogando appunto alle norme contenute nel contratto nazionale e chiedendo qualche sacrificio ai propri dipendenti.

IMPASSE ITALIANAPerché non applichiamo questo modello anche in Italia, dove purtroppo la disoccupazione è attorno al 12% e dove la produttività del lavoro, secondo Eurostat, è ferma da un decennio? Facile a dirsi. Purtroppo, però, nella Penisola la riforma della contrattazione è sempre stata una materia assai ostica, che ha portato spesso a conflitti tra le parti sociali o alla firma di accordi rimasti poi sulla carta. Tra il 2009 e il 2013, per esempio, sono state siglate ben tre diverse intese tra Confindustria e i sindacati in materia di contrattazione decentrata. Inoltre, il governo Berlusconi approvò anche una normativa ad hoc su questo tema: il tanto discusso articolo 8 del decreto legge n. 138 del 2011, che ha introdotto i cosiddetti contratti di prossimità. Si tratta di una nuova forma di accordi collettivi di lavoro con cui i sindacati e gli imprenditori, in uno specifico territorio o in una singola impresa, possono concordare delle regole di lavoro diverse rispetto a quelle previste dai contratti nazionali o addirittura dalle leggi dello Stato. All’inizio, sembrava una rivoluzione ma, a distanza di quattro anni, i cambiamenti portati in dote da queste norme sono ben pochi. Per quale motivo? Innanzitutto perché i contratti di prossimità hanno sempre avuto un’applicazione limitata, almeno sinora, a causa dell’ostilità di alcuni sindacati (in primis la Cgil), strenui difensori degli accordi collettivi nazionali. Inoltre, anche l’introduzione dell’articolo 8 e di questi nuovi accordi collettivi decentrati non ha scalfito il ruolo-cardine dei contratti nazionali di lavoro, la cui importanza è stata ribadita nero su bianco anche nelle intese siglate negli ultimi anni. Spetta ancora ai contratti nazionali il compito di definire i minimi salariali, senza possibilità di deroga.

NEL SOLCO DI MARCHIONNEE così, oggi in Italia i contratti aziendali sono relegati a un ruolo di comprimari: pur essendo largamente utilizzati, possono svolgere soltanto una funzione integrativa nelle politiche salariali, rispetto a quanto previsto dagli accordi nazionali. Per rendersene conto, basta leggere le analisi svolte dall’Adapt, associazione di studi fondata da Marco Biagi, il giuslavorista dell’Università di Modena ucciso nel 2013 dalle Brigate Rosse. Negli ultimi anni, i ricercatori dell’Adapt hanno passato al setaccio diversi accordi di lavoro aziendali (descritti su Farecontrattazione.it) evidenziando molte buone pratiche. Zara, Benetton, Findomestic, Birra Peroni o Brembo: ecco i nomi di alcune aziende che hanno siglato delle intese con le rappresentanze sindacali per aumentare la produttività e migliorare le condizioni di lavoro. Si tratta però di casi virtuosi riguardanti per lo più imprese in salute, che hanno deciso di dare nuovi benefit o aumenti di stipendio ai lavoratori, rispetto al trattamento economico “di base” previsto dai contratti nazionali.

Impariamo da Berlino, negoziamo a livello territoriale

Le colpe di sindacati e Confindustria

Sono assai rari, invece, i casi di aziende che hanno usato il contratto aziendale come in Germania, cioè per prevenire una crisi o evitare una delocalizzazione. A dire il vero, un’azienda che ha deciso di mettere in soffitta il contratto nazionale esiste anche in Italia ed è il gruppo Fiat-Chrysler (Fca), guidato da Sergio Marchionne. Alla fine del 2011, Marchionne ha deciso di rompere gli indugi: è uscito da Confindustria per sbarazzarsi dell’accordo dei metalmeccanici e ne ha proposto uno nuovo ai propri lavoratori, che lo hanno approvato con un referendum, senza aspettare l’imprimatur delle segreterie sindacali. Forte della sua vittoria, Marchionne va da tempo dicendo che il contratto aziendale della Fiat (rinnovato fino al 2018) dovrebbe diventare un modello per l’Italia intera, visto che si basa su una politica retributiva orientata ai risultati e alla produttività. Se il desiderio di Marchionne si avverasse, c’è il rischio di dover suonare le campane a morto per le grandi associazioni imprenditoriali come Confindustria, che perderebbero così il loro ruolo chiave nel mondo delle relazioni industriali italiane. Non a caso, proprio di recente, c’è stata una dura presa di posizione di Giorgio Squinzi, che ha invitato i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil a sforzarsi molto di più per rinnovare i contratti collettivi nazionali di lavoro, in modo da renderli adeguati ai tempi. «Incontrerò i sindacati e li metterò con le spalle al muro», ha detto mr. Mapei, accusando le sue controparti di essere ancorate a vecchie logiche. Con il suo appello, il leader degli industriali ha smosso le acque per dare più forza ai contratti aziendali e per legare maggiormente i salari alla produttività.Tra i suoi obiettivi, già manifestati durante l’ultima assemblea di Confindustria, c’è quello di rendere alternativi tra loro i contratti nazionali e quelli firmati nelle singole imprese. In pratica, gli accordi collettivi nazionali avrebbero soltanto una funzione di cornice, fissando le retribuzioni e gli aumenti salariali in quelle realtà dove non esiste uno specifico contratto aziendale. Di fronte a questa proposta, i sindacati si sono mossi in ordine sparso: mentre i leader Cisl e Uil si sono detti disponibili a discutere, la Cgil sembra già pronta a rispondere picche. Qualunque sia l’esito del confronto, una cosa è certa: oggi non sono poche le aziende italiane che hanno la tentazione di muoversi nel solco di Marchionne.

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