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Lavoro

Libertà di licenziare, libertà di assumere

Cambia il governo, ma il dibattito sulla flessibilità nel mondo del lavoro non si placa. Ha fatto scalpore la proposta di Giuseppe Parenti di innalzare per le piccole aziende la soglia di licenziabilità per motivi economici da 15 a 30 dipendenti. Eppure ci sono molti osservatori che la vedono come un’opportunità di crescita anche in piena crisi

Il tema dei cosiddetti licenziamenti facili, che ha tenuto banco negli ultimi giorni del governo Berlusconi, sembra essere passato in secondo piano, travolto dalle vicende politiche e finanziarie che hanno portato al cambio di esecutivo. Rischia però di tornare alla ribalta e di trasformarsi nel primo grosso scoglio del neonato Governo Monti, se è vero che il Pdl, per dare l’appoggio al nuovo premier, ha posto come assoluta pregiudiziale il rispetto della lettera d’intenti presentata a Bruxelles poche settimane fa che poneva, fra i cardini del rilancio, la revisione dell’articolo 18. La “patata bollente” passa così dalle mani del ministro del Lavoro uscente Maurizio Sacconi a Elsa Fornero, nominata ministro del Welfare da Mario Monti. A lei il compito di affrontare un tema tabù per le forze sindacali e per gran parte della sinistra e raccogliere un consenso bipartisan senza mettere a rischio il nuovo esecutivo. Nella lettera presentata all’Ue si annunciava entro maggio 2012 una riforma del mondo del lavoro «funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell’impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato». «Licenziamenti facili è un titolo che serve solo a spaventare una società già insicura», aveva dichiarato Sacconi. «L’obiettivo dell’impegno preso nella lettera d’intenti è chiaro: incoraggiare le imprese a crescere e assumere a tempo indeterminato! Senza il timore che, ove le cose vadano male per l’azienda, rispetto a un rapporto di lavoro si producano grandi difficoltà nel fare un passo indietro». A confortare la tesi di Sacconi il fatto che già oggi, il 54% dei lavoratori dipendenti sta in aziende al di sotto dei 15 dipendenti, dove l’articolo 18 dello statuto dei Lavoratori non è vincolante e si può licenziare indennizzando il lavoratore. Ad onor di cronaca, prima della lettera d’intenti era arrivato, nelle scorse settimane, un segnale chiaro sulla direzione che il governo avrebbe preso a Bruxelles. Era infatti approdata in Parlamento la cosiddetta proposta di legge Parenti per l’innalzamento, da 15 a 30 dipendenti, della soglia di licenziabilità per le piccole e medie imprese, promossa dal presidente della Camera di commercio di Piacenza, Giuseppe Parenti, e presentata dal deputato radicale Marco Beltrandi. Quanto basta per scatenare un dibattito molto acceso, anche se le posizioni non sono così nette come si potrebbe pensare, ed economisti di entrambe le parti convergono su una revisione dell’articolo 18. Una maggior flessibilità delle norme su assunzioni e licenziamenti è all’ordine del giorno della discussione interna sia al centrodestra che al centrosinistra, anche perché la tematica tocca milioni di lavoratori. Le imprese al di sotto dei 15 dipendenti sono, infatti, nel nostro Paese, 4 milioni e 356 mila per un totale di 9 milioni 549 mila occupati. Quelle a cui la flessibilità dovrebbe essere estesa, al di sopra quindi dei 15 dipendenti, sono solo 114 mila, ma per un totale di 7 milioni 951 mila dipendenti (fonte: Istat). «Sia la legge Parenti che la revisione dell’articolo hanno una loro ragion d’essere», fa notare Tiziano Treu, vicepresidente della Commissione lavoro al Senato in forza al Pd ed ex ministro del Lavoro del governo Prodi, che nel 1997 introdusse per la prima volta in Italia la figura del lavoratore atipico. «Si tratta», dice, «di sospendere l’articolo 18 per i licenziamenti economici ed è questa una strada indicata dall’Europa. Ho però un unico grande dubbio: di fronte a una liberalizzazione di tal genere è importante che vi sia un sistema di ammortizzatori sociali più solidi, cosa che al momento non esiste. La flessibilità deve andare di pari passo con la sicurezza. Da anni in Europa si sta affrontando la disoccupazione giovanile lavorando su diversi fronti. In Italia siamo fermi».

Flessibilità di pari passo con sicurezza. È quanto sostiene anche il giuslavorista Pietro Ichino, del Pd. Ichino ricorda come già negli anni ’80 Gino Giugni, considerato uno dei padri dello Statuto dei Lavoratori del 1970, sostenne che occorreva aumentare la soglia per l’applicazione dell’articolo 18 da 16 a 80 o addirittura a 100 dipendenti. «Il problema, però, è che in questo modo si conserva il dualismo di disciplina fra imprese grandi e piccole. Per superarlo occorre un progetto organico che, almeno per i licenziamenti determinati da motivi economici o organizzativi, sostituisca alla tecnica protettiva della reintegrazione una tecnica nuova, suscettibile di essere applicata anche ai lavoratori delle imprese più piccole. L’ideale è un sistema che coniughi il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive (la quale comporta, certo, anche la possibilità di licenziamento per motivi economico-organizzativi) con il massimo possibile di sicurezza del lavoratore nel mercato del lavoro. Il riferimento è ai migliori modelli di flexsecurity che ci sono offerti dai Paesi del Nord Europa». E il modello di Ichino sembrerebbe quello che meglio risponde all’idea che Mario Monti, in occasione della presentazione del suo governo, ha manifestato di avere rispetto alle riforme da attuare. Fondamentale è per Monti superare il dualismo delle regole del mercato del lavoro, che favorisce gli anziani a scapito dei giovani. «Non è mai sana una economia che costringe un datore di lavoro a complesse considerazioni prima di assumere stabilmente un dipendente», aggiunge l’economista Giuliano Cazzola, parlamentare del Pdl. Per Cazzola, la soglia tabù dei 15 dipendenti è la ragione del nanismo delle imprese italiane. «I rapporti flessibili non sono stati il frutto della cattiveria e dell’egoismo dei padroni, ma sono stati pensati in tutta Europa per sbloccare il mercato del lavoro. Le conseguenze sono state ben otto anni di crescita ininterrotta della occupazione, prima della crisi. Quanto alla cosiddetta facilità di licenziare, la lettera d’intenti del governo Berlusconi si riferisce alla sola fattispecie del licenziamento per motivi economici, prevedendo come sanzione solo il risarcimento del danno. Resterebbero invariate, con tanto di reintegra, le regole per quanto riguarda il licenziamento disciplinare e quello discriminatorio». La poca flessibilità in uscita, secondo Cazzola, opinione condivisa in modo bipartisan, spinge sempre più spesso i datori di lavoro a ricorrere alle forme contrattuali deboli, ai contratti a termine, al lavoro interinale. «Nella lettera d’intenti», chiosa Cazzola, «la questione dell’articolo 18 è stata affrontata in misura molto soft, se non addirittura marginale. Del resto, il licenziamento economico si colloca al confine con il licenziamento collettivo che prevede una procedura solo di carattere giudiziale». Cazzola si chiede poi se il nuovo governo riuscirà a passare questo scoglio. «Riuscirà Monti a rispettare la lettera d’intenti nonostante i dissensi già manifestati da alcuni gruppi che lo appoggeranno? Veti sono stati posti dai due maggiori partiti che, dopo essersi combattuti per tre anni e mezzo finiranno, un po’ per celia, un po’ per non morir, per appoggiare il “governo del presidente”».

Staremo a vedere. Una cosa che sembra sicura è che, almeno su questo tema, si ricostituirà l’unità sindacale, minata dalle vicende degli ultimi due anni, non ultimo il caso Pomigliano. Ce lo conferma Giorgio Santini, segretario generale aggiunto della Cisl. «Siamo contrari sia al decreto Parenti, sia alla lettera d’intenti del governo uscente. Pensiamo che il problema della non crescita dell’azienda non sia l’articolo 18, già usato molto poco nelle controversie di lavoro. Le aziende sanno che quando hanno davvero necessità di licenziare esistono strumenti come la legge 223 sulle riduzione del personale. Riteniamo che in piena emergenza occupazionale il primo dei problemi non sia l’articolo 18, ma che il governo lo intenda usare solo per rassicurare l’Ue che ha chiesto più flessibilità. Sul mercato del lavoro “in entrata” si tratta di incentivare forme di lavoro stabili che vengano incontro alle aziende ed evitino la precarietà. Cito la riforma dell’apprendistato, che in questi mesi abbiamo messo a punto, la formazione-lavoro stabilizzata che costi poco alle aziende, oppure un buon contratto che possa sostitutire la pletora dei contratti a termine esistenti, particolari e scivolosi. Bisogna favorire il part time, per esempio nel settore dei servizi alla persona. Inoltre vi è il credito d’imposta, usando fondi europei, che permette alle aziende che assumono di portare in detrazione le assunzioni. Per il mercato del lavoro “in uscita” bisogna concentrarsi sulle politiche attive per la reintegrazione delle persone. Ad ogni riduzione, vi deve essere un piano di outplacement, aiutato da ammortizzatori, oltre che un piano di riqualificazione che crei un tragitto per un nuovo lavoro». Dalle aziende si solleva un plauso generale all’iniziativa, che avrebbe un impatto notevole sulla psicologia dell’imprenditore che pensa ampliare il proprio organico.

In sostanza, una normativa più liberale non avrebbe alcun effetto sul dato di disoccupazione (il licenziamento per motivo economico già esiste) e toglierebbe ogni dubbio a chi pensa di ampliare il proprio business, ma non vuole osare. Cominciamo da Nordest. «In linea generale», ci dice Giorgio Xoccato, a.d. della vicentina Xacus e consigliere per le Relazioni industriali di Confindustria Vicenza, «ritengo che, per le caratteristiche proprie della struttura industriale italiana, una maggiore flessibilizzazione della normativa sarebbe certamente utile e potrebbe comportare una significativa crescita nell’occupazione complessiva del sistema. Infatti, una legislazione del diritto del lavoro e della contrattazione collettiva fatta per soglie di organico aziendale e che, quindi, aggancia l’applicazione di certi istituti o di determinati adempimenti alla consistenza dell’organico, è una peculiarità italiana che di fatto ha favorito un nanismo aziendale. Nanismo che, se una volta poteva anche rispondere a certe logiche e convenienze di prima industrializzazione, oggi è uno dei fattori che penalizzano la competitività e quindi la crescita delle nostre imprese sul mercato globale». Particolarmente sensibili al tema sono le aziende del settore edilizio. Secondo Stefano Frangerini, vicepresidente dell’Ance di Livorno e a.d. della Frangerini Impresa, fondata nel 1907 e che conta 15 dipendenti, nel mondo delle costruzioni è fondamentale la flessibilità per poter affrontare gli alti e bassi delle commesse. «La vecchia legge Biagi», dice, «voleva creare flessibilità sulle assunzioni, ma il fatto di aver generato una serie di paletti “dissuasori” nelle aziende sopra i 15 dipendenti, ha di fatto inchiodato le assunzioni. In un’azienda come la nostra serve la manodopera quando ve n’è la necessità, per ridurre il ricorso in subappalto ed anche per sviluppare un sistema meritocratico». Dalla Toscana all’Umbria anche Annamaria Baldoni Franceschini, a.d. della Umbria Gas Spa e presidente del Comitato Piccola impresa della Confindustria perugina, auspica una maggior liberalizzazione del mercato del lavoro. «La mia azienda che distribuisce energia e fattura 22 milioni di euro l’anno conta quaranta dipendenti. Non nego che la volontà di assumere c’è. Ho sempre creduto nei giovani e potremmo assumerne tre o quattro ancora. Ma è altrettanto vero che le attuali norme frenano ogni passo in questo senso».