Lavoratori con licenza di imprecare. Secondo le ultime ricerche e tendenze in campo sociologico, infatti, ricorrere al turpiloquio di tanto in tanto può far bene, nel mondo del lavoro e nella politica. L’ultimo a confermarlo è stato il Financial Times, a sua volta riprendendo alcune ricerche (americane e britanniche) secondo le quali chi talvolta si concede una parolaccia viene percepito come più onesto, convincente e credibile. Uno di noi, insomma.
D’altro canto, esempi importanti ce ne sono: dal f**k business del neo Primo Ministro Uk Boris Johnson, a proposito della Brexit (un esempio tra i tanti del suo atteggiamento, diciamo, ruspante), alla stupid shit di Jamie Dimon di JP Morgan Chase. Sembra inoltre che tra i Millennial lasciarsi andare a espressioni colorite sul posto di lavoro sia una tendenza in crescendo.
Attenzione, però, c’è parolaccia e parolaccia, circostanza e circostanza. Nel mondo anglosassone, un vocabolo come damn può essere ormai considerata come parola comune, l’equivalente, in qualche modo, del nostro “cavolo!”. Su altri termini è il caso di riflettere, perché non tutti potrebbero apprezzare. Come dimostrano anche le varie casistiche della Cassazione, che vanno da impiegati licenziati o multati per essersi lasciati andare ad altri in cui un linguaggio poco elegante è stato considerato stimolante per il dibattito.
Un conto, poi, è prendersela con il computer o con la macchinetta del caffè, un’altra con il proprio collega, se non il capo. Soprattutto in un momento in cui l’hate speech ha assunto livelli preoccupanti. Insomma, se dire una parolaccia può essere un aiuto alla carriera, perché ci rende più veri e appassionati, “collegare la lingua al cervello”, come si diceva una volta, è doveroso. E fa sempre curriculum.
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