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Lifestyle

Dove va il golf?

Al termine di una stagione che non ha avuto un vero vincitore, il settore si interroga sulle soluzioni per frenare la fuga delle grandi aziende e il calo di interesse da parte del pubblico, seguito al declino di Tiger Woods. Ecco alcune delle proposte più innovative, anche se al limite dell’eresia rispetto alle tradizioni consolidate

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Il 2016 è stato un anno particolare per il golf professionistico, con quattro “first time winner” nei Major (Danny Willet, Dustin Johnson, Henrik Stenson, Jimmy Walker) e molti nuovi e diversi vincitori sia nel tour europeo che su quello americano. Si tratta di un dato, tra i molti, che evidenzia – se ce ne fosse ancora bisogno – l’andamento incerto che il golf sta avendo. Si potrebbe anche azzardare dicendo che questo sport stia cambiando pelle, anche se molti lo considerano ciecamente ancorato alle sue tradizioni. Dopo anni di campioni che hanno caratterizzato la scena globale, si fatica a trovare un nuovo dominatore. Non mancano nuovi personaggi dalla grande vitalità, eppure è innegabile che i volti nuovi siano piuttosto leggeri in termini di carisma e rimangono incapaci di incidere sui destini del movimento. Ma come mai si fatica a trovare nuovi idoli? Per alcuni, i motivi di questa situazione sono da ricercare nell’attrezzatura che avrebbe livellato le differenze di “talento”, inteso come quel mix di capacità e fantasia nel trovare colpi e soluzioni anche nelle situazioni più complicate. Un’abilità quasi innata che, unita alla potenza di cui solo alcuni disponevano, dagli anni ’50 ha consentito di primeggiare consentiva di primeggiare solo ai giocatori più dotati: Ben Hogan, Gary Player, Arnold Palmer, Jack Nicklaus, Johnny Miller, Tony Jacklyn, Severiano Ballesteros, Nick Price, Greg Norman, Lee Trevino, Nick Faldo e altri che, con il loro gioco e la loro personalità, hanno segnato i decenni che li hanno visti protagonisti. E con una intensità che, ancora oggi, li vede citati e richiamati come esempi. Secondo altri, la colpa è tutta di Tiger Woods. È stato, infatti, il suo avvento sulla scena golfistica, caratterizzato dall’atletismo e da un’attitudine professionista assoluta, a far da spartiacque tra le due epoche: quella prima di Tiger e quella dopo. Il campione californiano ha sì estremizzato la componente fisico-atletica dello swing, ma ha raggiunto i suoi incredibili traguardi anche e soprattutto grazie a un immenso talento, unito a una determinazione agonistica e a una forza mentale – e forse è questa la sua vera unicità – in termini di intensità riversata in campo , mai viste sui green prima d’allora.

SUDORE E TALENTOCon il dominio di Woods sul tour mondiale, è stato evidente che il “solo talento” non poteva essere più sufficiente anche solo per avvicinarsi ai valori da lui espressi. Lo sottolineava il ranking mondiale quando lo vedeva distanziare tutti gli altri di decine di punti, mentre oggi tra le posizioni di vertice le differenze sono minime. Da qui, la crescente attenzione alla componente atletica del golf che, se da un lato lo ha accreditato come uno sport a tutti gli effetti, nel contempo ha favorito una compensazione che può essere tradotta come “swing atletico batte swing talentuoso” (anche se le eccezioni ci sono ancora). Il dopo-Woods è così segnato da giocatori molto forti dal punto di vista fisico, ma un po’ troppo standardizzati dal punto di vista del gioco. Sia per quanto riguarda il puro gesto tecnico – cioè dotati di uno swing poco incline ad adattarsi a eventuali situazioni impreviste – che per quanto riguarda le scelte da effettuare e affrontare sul campo. Il risultato è che le competizioni risultano a volte noiose, facendo scemare in fretta le attese di appassionati e commentatori.

POCHE EMOZIONICi sono personaggi che si staccano da questa situazione, per valore assoluto, ranking e modi di essere campione, come Jason Day, Jordan Spieth, Rory McIlroy, Henrik Stenson, Dustin Johnson, Bubba Watson, Ricky Fowler e, in anni appena meno recenti, fenomeni quali Ernie Els e Jim Furik. Ma, scorrendo le classifiche dei tornei, l’impressione è che qualche cosa manchi. Di positivo c’è che questa evoluzione atletica fa del golf uno sport da aggiungere serenamente alla lista di discipline adatte alla crescita fisica e personale di ragazzi e ragazze, mentre maestri e coach, al di là delle eventuali prospettive agonistiche dei futuri campioni, nei prossimi anni dovranno mantenere grande focus sulle componenti di fantasia e inventiva che i golfisti in erba possono esprimere. E, quindi, provare a sviluppare il talento. Se non altro, questo potrà essere garanzia di divertimento che nel golf (e non solo) non deve mai mancare. Last but non least, bisogna citare le donne che, per statuto, sono ancora escluse dalla possibilità di “membership” (associazione) in alcuni circoli. Il primo a intervenire su questo assurdo e anacronistico retaggio del passato è stato, già alcuni anni fa, l’Augusta National, sede del Masters, che dopo molte resistenze fece cadere questa barriera. Successivamente il vero monumento del golf, ovvero il Royal and Ancient Golf Club di Saint Andrews, casa dell’Old Course, in modo ancora più significativo (per la storia di cui è intriso) con scelta diretta dei soci ha varato analogo provvedimento di modifica. Altri ne sono seguiti e, auspicabilmente, ne seguiranno. Ma con una eccezione non da poco, per il club che ne è protagonista. Muirfield, infatti, contrariamente alle attese e con voto contrastato dei soci, non ha seguito l’esempio. Con conseguenze non da poco: nonostante sia stato teatro di alcuni memorabili Open Championship, il club è stato escluso dalla lista delle prossime edizioni dell’evento golfistico di maggiore tradizione e fascino.

Dalla tecnologia alla sostenibilità, le ultime frontiere del green

RIVOLUZIONI IN VISTADa un’altra prospettiva, con una Nike che ha deciso di abbandonare il settore tecnico del golf interrompendo il proprio impegno nella produzione di attrezzatura (e non sono pochi coloro che associano a questa scelta la parabola discendente di Tiger Woods) e altre aziende che stanno valutando analoghe mosse, i dati indicano che le difficoltà del settore non sembrano ter minate né in Europa né negli Usa. E anche il trend alla voce campi aperti/ chiusi non è positivo. Appare, quindi, sempre più necessario aggiungere o inventare qualcosa di nuovo e stimolante all’interno della tradizione del golf mondiale. Il problema, se così si può dire (almeno per i puristi), è che tra le idee ve ne sono alcune che puntano dirette alle radici di questo sport, fino a stravolgerne alcuni dei principi e degli elementi caratterizzanti. I temi in gioco sono più di uno e guardano sia al golf spettacolare dei grandi eventi professionistici sia a quello amatoriale che, d’altro canto, è il vero motore del golf come business. Da un lato, infatti, venendo meno la presenza stabile di Tiger Woods che da solo determinava audience stellari, l’attenzione del pubblico – e quindi la valenza pubblicitaria – degli eventi (forse fatta salva la Ryder Cup) ha iniziato a soffrire qualche calo. Dall’altro lato, con frequenza crescente si ascoltano valutazioni che individuano nel tempo che il golf richiede e nella sua difficoltà tecnica due deterrenti che frenerebbero la pratica di appassionati e neofiti. Le decisioni che ne conseguono portano così a pensare formule di gioco più spettacolari per le esigenze televisive e a immaginare soluzioni per rendere più veloce e accessibile il golf dilettantistico. Alcuni esempi? Allargare le buche (fino a 40 cm), organizzare gare su sei, nove o 12 buche con campi disegnati in modo apposito per facilitare il disimpegno dal percorso. Altri pensano anche di intervenire sulle regole vere e proprie, come poter piazzare sempre la pallina o avere dei colpi di bonus in caso di situazioni particolari quali ostacoli o bunker. Come si può facilmente intuire, la discussione è aperta e in Usa in particolare, dove la preoccupazione per il business è più evidente per la dimensione e l’unicità del mercato, vi sono anche siti dove si raccolgono spunti, idee e qualche provocazione per capire in quale direzione evolvere. Forse la soluzione potrebbe essere quella di parlare, da un lato, di golf e dall’altro di nuove varianti, lasciando agli appassionati la versione “originale”, così come è e ci si aspetta che sia, e proponendo una pratica meno impegnativa per tutti gli altri.

FANTASIA AL POTERE

European e Australiasian Tour hanno condiviso un’idea e si proiettano verso una possibile evoluzione, almeno parziale, degli eventi golfistici professionistici. Con un approccio che, in un certo senso, potrebbe ricordare il basket e i suoi playoff, il progetto sarebbe quello di una gara, in programma a febbraio in Australia, con una formula innovativa, che sicuramente manterrà vivo l’interesse fino alla sua conclusione. Dopo 54 buche stroke play (con taglio dopo 36), infatti, nel quarto giorno i 24 migliori si confronteranno in uno shoot-out match play su sei buche con ogni match pari deciso su un contest giocato su una buca par 3 di 90 metri. In caso di ulteriore parità il vincitore sarà deciso con un nearest to the pin sulla stessa buca. Se non altro, nella “anomalia” di questa novità, tutto avviene all’interno di regole, situazioni e formule proprie del golf.

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Sembra l’Asia la terra promessa del golf: qui, la cinese Shanshan Feng impegnata sul percorso del Sime Darby a Kuala Lumpur (Malesia) © by Stanley Chou/Getty Images