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Lifestyle

Ai piedi dei campioni

Amate dai più grandi nomi del calcio (e del ciclismo) fino agli anni ‘90, le scarpe del brand marchigiano si propongono oggi come ottime compagne di strada anche per il tempo libero. Ce lo racconta l’a.d. Kim Williams

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Emidio Lazzarini, John Charles e Kim Williams. Il destino della Pantofola d’Oro, con i suoi 128 anni di storia uno dei marchi più longevi della tradizione calzaturiera italiana, ruota in gran parte intorno a questi tre nomi. Tra gli anni ‘40 e ‘50 fu proprio Emidio Lazzarini a proiettare nell’empireo del calcio la bottega da calzolaio fondata dal nonno ad Ascoli nel 1886. Per circa 30 anni i suoi scarpini conquistano i più bei nomi del calcio – tra gli altri, Garrincha, Sivori, Mazzola, Rivera, Altafini, Riva, Capello, Falcao, Conti, Zoff e Bettega – ma anche del ciclismo, visto che Moser e Chiappucci figurano tra i suoi clienti. Nel 1959 è un big del calcio, il giocatore della Juventus John Charles che, proclamando «questa non è una scarpa, è una pantofola d’oro», convince la famiglia Lazzarini a cambiare nome all’azienda. Tutto prosegue per il meglio fino a quando, siamo ormai negli anni ‘90, colossi come Nike e Adidas rivoluzionano il mondo delle calzature da calcio. Comincia un periodo di difficoltà che neppure la decisione dei Lazzarini di vendere a degli italo-venezuelani, nel 1995, riesce ad arrestare. Si arriva così al 2000, quando Kim Williams, con un socio, decide di rilevare il marchio. Oggi l’azienda fa capo a una proprietà che, oltre allo stesso Williams (che ne è l’ad), vede la presenza del costruttore Massimo Ubaldi (l’attuale presidente), e del fondo di base americana Mercurio Capital.

Kim Williams, a.d. della Pantofola D’Oro

Come ha lavorato al rilancio della Pantofola d’Oro? Abbiamo ereditato un’azienda con una spiccata vocazione alla ricerca sui materiali e all’innovazione e abbiamo proseguito su questa strada. Inoltre, è stato subito chiaro che la sola produzione di scarpe da calcio non avrebbe garantito i necessari volumi di fatturato. La nostra fortuna è stata aver rilevato un marchio con un archivio ricchissimo, che abbiamo valorizzato reinterpretando i modelli inizialmente pensati per il calcio, il ciclismo o il golf perché divenissero calzature per il tempo libero.

Oggi a che punto siete arrivati? Commercializziamo tre linee di prodotto. La 1886, che fattura circa 6 milioni di euro e viene distribuita nei multimarca di fascia alta di tutto il mondo, ottenendo i maggiori riscontri in Giappone e negli Usa; la Tre Stelle, che ha un fatturato di circa 10 milioni di euro; e la linea Calcio, la più storica, che ha un giro di affari pari a circa 1,5 milioni di euro e viene venduta al 90% all’estero, con netta prevalenza dell’Inghilterra. Siamo una struttura molto snella che conta 15 dipendenti, tra amministrativi, commerciali e uomini di prodotto, e che per la produzione si affida a fabbriche marchigiane alle quali è legata da accordi in esclusiva. Fa eccezione la Tre Stelle, che viene prodotta per lo più nelle fabbriche portoghesi del nostro partner olandese.

Sembrerebbe che i ricavi provenienti dal mondo del calcio siano diventati ormai marginali… Da quando lavoriamo con l’inglese Pro Direct Sport Limited, leader mondiale nella vendita on line di scarpe da calcio, la situazione è radicalmente cambiata. In soli tre anni, il nostro fatturato è balzato a 1,5 milioni di euro. La Pro Direct ha siglato con noi un accordo di esclusiva per Paesi come la Germania, l’Inghilterra o gli Usa e questo ci sta garantendo ottimi risultati.

Quando e dove ha più appeal il concetto di made in Italy? C’è una nicchia di consumatori che apprezza la nostra scarpa da calcio proprio perché è l’unica al mondo a potersi fregiare di questo marchio. Notiamo che nelle collezioni per il tempo libero, il made in Italy è un fattore distintivo in Paesi, come il Giappone, che già sono molto sensibili allo stile italiano. Quando quest’attenzione manca, diventa più difficile valorizzare i plus di un prodotto realizzato nella Penisola.

Quali sfide si pone per il breve e il medio periodo? L’evoluzione dei canali distributivi sta costringendo le aziende come la nostra a valutare l’opportunità di aprire dei monomarca nelle città più importanti. Stiamo valutando alcune location in centro a Milano e contiamo di inaugurare il nostro primo flagshipstore già entro la fine del 2014. Abbiamo scelto il capoluogo lombardo non tanto per l’imminenza di Expo 2015, quanto per il fatto che, soprattutto per i nostri partner asiatici, un brand del lusso non può non avere un proprio showroom nella città simbolo del design italiano. Successivamente apriremo un monomarca a Tokyo e negli Stati Uniti. Stiamo ancora decidendo se a New York o a Los Angeles, ma l’idea è di riuscire a concludere l’operazione entro l’estate 2015.