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Immaginare è crescere, intervista ad Alberto Contri

Esiste una via per un consumo sano e felice: è quella che racconta la campagna sostenibilità, sobrietà, solidarietà, promossa da Pubblicità Progresso: «Perché il problema è lo spreco. Cambiare i comportamenti delle persone è difficile, ma basterebbe un po’ di ironia per mandare messaggi più efficaci»

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Quando si parla di immaginazione al potere, si parla di Alberto Contri. Partendo dal ruolo di creativo, ha scalato i vertici del mondo della pubblicità italiana finché nel 1999 si è messo al servizio della comunicazione sociale, assumendo la presidenza della Fondazione Pubblicità Progresso. Un ente unico al mondo che raccoglie tutti i soggetti del panorama tricolore (da Rai e Mediaset a Google, l’Upa e pure l’Associazione dei ricercatori sociali). Periodicamente, mettendo da parte l’innata vocazione commerciale del settore, questi protagonisti si riuniscono per capire come poter incidere sulla società attraverso i loro messaggi. Per il biennio 2016-2017, il mondo della comunicazione della Penisola ha voluto lanciare la campagna Sostenibilità, Sobrietà, Solidarietà.

Il mondo della pubblicità che parla di sobrietà? Sembra un paradosso e un ritorno agli stilemi dell’era del governo Monti. Come è nata allora l’ispirazione di questa campagna?Nel corso di Expo abbiamo tenuto una riunione con i 90 docenti amici di Pubblicità Progresso: sono gli esperti di marketing e comunicazione, economia, sociologia, scienze umane e statistica riuniti nel network Athena. Dovevamo decidere la prossima campagna dopo quella sulla parità di genere e ci siamo trovati a riflettere sulle criticità della comunicazione relativa all’Esposizione universale, che è stata raccontata come una grande abbuffata più che un evento per “nutrire il pianeta”. Da lì abbiamo stabilito di concentrarci su questo tema nel contesto attuale, tra fame nel mondo, cambiamenti climatici e risorse decrescenti. Ci siamo divisi in due partiti: uno parteggiava per la teoria della “decrescita felice” di Latouche, che sostiene la necessità improrogabile di contrarre i consumi. L’altro puntava invece sulla “crescita felice” di Francesco Morace, sociologo torinese che fa parte del nostro network. Noi rimaniamo pubblicitari nell’anima e siamo per il consumo, quindi è stata naturale la scelta di quest’ultimo approccio: il segreto per perseguire la crescita in un momento storico come questo è proprio la sobrietà, cioè evitare gli sprechi attuando comportamenti positivi – riciclo dei rifiuti, riduzione del consumo di energia e acqua ecc. – che ci consentano di vivere bene con le risorse disponibili.

NON C’È TEMPO NEMMENO PER VEDERE LA TV,

PER QUESTO MOTIVO I RAGAZZI VIVONO SUL WEB

E SI INFORMANO SOLO ATTRAVERSO FACEBOOK

Esiste dunque un ben vivere anche in tempi di crisi. Come lo racconta Ci riesco?Siamo stufi di sentire ripetere la parola sostenibilità, inascoltabile ormai come “innovazione” e “storytelling”. Il centro dell’iniziativa è lo spot ideato da Key Adv, con un bambino che cresce di due-tre anni a ogni buona azione compiuta. Fa capire che la maturazione delle persone è fatta di piccole azioni civiche. Non puntiamo mai, però, solo a sensibilizzare – altrimenti faremmo campagne su tutti i mali del mondo – ma vogliamo portare risultati concreti. Per questo abbiamo individuato dieci categorie (cibo, salute, traffico,…) e, facendo una ricognizione dei migliori strumenti in giro sul web, abbiamo creato sul sito www.ciriesco.it le classiche “10 regole per”, gesti semplici ma utili per evitare di dissipare le risorse naturali. E li abbiamo accompagnati con riferimenti concreti: “Se lavi sempre i panni con acqua fredda a fine anno risparmi 140 euro”. È un dato molto più efficace di uno spot per fare presa nella testa delle persone.

Il problema, insomma, è lo spreco. Quindi anche il consumismo. Ma non eravate voi pubblicitari i responsabili della costruzione della società dei bisogni indotti e superflui?L’economia deve girare e le aziende che comunicano sono quelle che prosperano. Allo stesso tempo, però, buttare via le risorse è ingiusto perché non solo inesauribili. In questo ci siamo ispirati all’enclica Laudato si’ di papa Francesco: se invece di andare sempre al supermercato si mangia quello che si ha in frigo, si evita far finire il cibo nella spazzatura. Lo hanno capito anche le catene della grande distribuzione che, sulla scia del Banco Alimentare, stanno attivando molte iniziative in questo senso. Cito una stupenda iniziativa della catena francese Intermarché, Inglorious Fruits and Vegetable: hanno deciso di comprare i prodotti “brutti” e quindi invendibili – patate malformate, melanzane bitorzolute ecc. – e di utilizzarli per una linea di zuppe. Perché cosa importa se la verdura che finisce nel minestrone era brutta? Hanno aiutato i produttori acquistando merce che sarebbe andata buttata, hanno evitato lo spreco e hanno realizzato un enorme successo, vendendo i prodotti al 30% in meno della concorrenza.

In quali campi è più difficile cambiare i comportamenti delle persone?Credo siano i trasporti: spingere la gente a rinunciare all’auto anche per 100 metri è complicato. Un atteggiamento diffusissimo che vedo è poi quello che riguarda l’acqua: in palestra vedo giovani che fanno docce eterne. Cerco di spiegargli che bastano due minuti per sciacquarsi, mentre loro stanno consumando centinaia di litri d’acqua. Mi rispondono: “E allora?”. Le risorse idriche sembrano eterne, ma non lo sono.

Dall’altra parte, le aziende sono ricettive verso questi messaggi?Molte aziende fanno della beneficenza, un po’ di green washing restaurando qualche monumento e magari pubblicano il bilancio sociale come una tassa da pagare, ma continuano ad attuare comportamenti sbagliati nei loro processi produttivi. La corporate social responsibility autentica, invece, rimane quella di Adriano Olivetti: attenzione ai prodotti, ai lavoratori, ai consumatori e all’ambiente. Purtroppo nell’80% dei casi, la Csr è intesa ancora come una sovrastruttura, uno zucchero a velo da mettere su una torta nemmeno tanto buona. Per trovare cinque soci sostenitori che ci aiutassero a pagare tutto il lavoro sui social network – perché oggi non basta più mandare la cassetta dello spot come si faceva prima, e questo lavoro costa tanto – ho dovuto vagliare 50 proposte. Chi capisce il senso di queste iniziative poi partecipa attivamente: al nostro fianco ci sono oggi MM Metropolitana milanese, che gestisce servizi fondamentali trasporti, acqua e case popolari: i consorzi del riciclo Corepla, Ciai e Ricrea; e Roche, che vuole parlare della sostenibilità delle cure salvavita. Con altri due soggetti potremmo pagare tutte le spese.

Si sta facendo breccia dunque nel mondo delle aziende e le case history di successo raccolte sul vostro sito ne raccontano alcune veramente interessanti. Quali l’hanno colpita di più?Coca Cola ha realizzato un video stupendo contro l’abuso del telefonino: si vedono alcune persone sedute a tavola, ma concentrare solo sui loro device. Il brand, che da sempre promuove la socialità tra i suoi valori, fa “intervenire” un suo finto lavoratore – il Social Guard – che mette attorno al collo dei protagonisti dei coni di plastica, come quelli che si usano per evitare che i cani si lecchino le ferite. Se ne parla persino il più grande investitore del mondo, vuol dire che il tema dell’abuso dei dispositivi elettronici è rilevante nella nostra società.

Spesso in questo tipo di comunicazione i social network rivestono un ruolo fondamentale. È più facile parlare ai giovani delle tematiche sociali?Faccio un esempio per spiegare l’importanza del nostro network universitario e, quindi, del comportamento dei ragazzi. Quattro anni fa abbiamo lanciato la campagna per la donazione degli organi: è un tema delicato perché fa pensare le persone alla loro morte, non sapevamo quale impatto avrebbe avuto. Alla fine abbiamo ottenuto un clamoroso risultato di 52 mila donatori in più. Come mai? Perché grazie al concorso universitario On The Move, che teniamo da undici anni – e che ora è stato trasformato in un contest tra dieci atenei per l’ideazione di eventi di marketing non convenzionale –, abbiamo ricevuto 250 progetti. Non hanno vinto tutti, ovviamente, ma ciascun ragazzo l’ha postato ai suoi quasi mille amici su Facebook, che è considerato uno strumento di cazzeggio e invece è una straordinaria piattaforma di comunicazione. Su 200 mila persone potenzialmente coinvolte dal tema, vuol dire che un quarto è stato persuaso ad aderire alla campagna.

Come cambierà il futuro della pubblicità, commerciale o sociale che sia, di fronte alla progressiva scomparsa degli spazi Adv, la diffusione dell’ad blocking e proposte “spot free” come Netflix? «Finora c’è sempre stato un terzo che pagava per farti vedere i contenuti, anche quelli su YouTube», ricorda Alberto Contri, presidente della Fondazione Pubblicità Progresso, «Con Netflix le cose cambiano, e allora la pubblicità dove andrà a finire? Il nostro futuro sarà probabilmente nel branded entertainment. Ci sono casi fantastici all’estero, dai flash mob di T-Mobile a Easy to Assemble, una Web serie di 350 puntate dove l’Ikea si prende in giro. Il nostro Paese è indietro in questo campo, nonostante abbia inventato la commedia all’italiana. Non riusciamo a entrare in questo nuovo linguaggio che prevede formati brevi, inquadrature diverse, ironia immediata. Non siamo spiritosi perché siamo ancora prigionieri dell’Auditel, che spinge a ripetere in Tv palinsesti vecchi di 15 anni».

Nel 1995, da presidente dei pubblicitari, promosse il convegno Tempo della fretta – Vivere o sopravvivere nella società dell’urgenza?. A vent’anni di distanza com’è cambiata la qualità della nostra vita rispetto a quell’iniziativa “premonitrice”?Mi ero accorto che tra una ricerca di mercato e la messa in onda finale di uno spot a volte passava anche un anno, un lasso di tempo troppo ampio perché nel frattempo il modo di sentire era cambiato. Così chiedemmo all’Eurisko di indagare come le persone vivessero questa accelerazione dei ritmi di vita: si scoprì che persino la casalinga di Voghera sentiva di “non avere più tempo”. E, tanto per fare un esempio, quelli di Quattro salti in padella decisero di dimezzare il tempo di cottura dei prodotti proprio per venire incontro a questa richiesta di velocità. Da allora le cose sono peggiorate: non c’è più tempo di fare niente, nemmeno di guardare la Tv e per questo i giovani stanno su internet tanto che Facebook è diventato anche il primo luogo di informazione. Ho fatto un piccolo test: su cento miei studenti, nessuno legge un quotidiano, uno consulta un giornale online e per tutti le uniche informazioni sono le breaking news offerte via sms dalle compagnie telefoniche. La voglia di approfondire scatta solo se un amico condivide un articolo sulla propria pagina.

Alla luce di questi cambiamenti, come si è trasformata la missione di Pubblicità Progresso in questi anni?Guardando i progetti messi in piedi da onlus e istituzioni, che osservo anche da professore universitario da 15 anni, abbiamo deciso di trasformare la fondazione in un centro permanente di formazione alla comunicazione sociale. La prima attività è stata la costruzione della mediateca online che raccoglie le 2.700 campagne più belle del mondo, selezionate e suddivise per argomenti. Immergendovisi, si scopre che anche in Paesi come la Russia o in Sud America si realizzano campagne che noi ci sogniamo. In Italia siamo fermi ai messaggi penosi, come il bimbo come gli occhi cisposi e le mosche sul naso, oppure al sangue che cola sull’asfalto dopo un incidente stradale. Nel resto del mondo si riesce a usare l’ironia – lo strumento più potente per sollevare la guardia delle persone – anche su temi come l’Aids o la violenza sulle donne.

Guardando avanti, qual è il futuro del sistema dei media?Sto scrivendo un saggio, McLuhan non abita più qui (Bollati Bolinghieri). Il titolo vuol rappresentare il passaggio che è avvenuto: il medium non è più il messaggio, le persone sono il messaggio. Oggi non si comunica più broadcasting, ma a cluster più piccoli di pubblico che poi fanno da cassa da risonanza. Il problema è che in questa comunicazione tutti-a-tutti diventa virale solo quello che è divertente, “fuori di testa”. E come fai a comunicare dei brand value aziendali in un video folle? Nel testo cito dieci case history: c’è chi ha speso tanti soldi, chi ha fatto tutto a costo zero, ma la linea comune è quella di aver prodotto contenuti molto chiari. Anche se rigirati, contaminati, restano chiari e non possono essere distorti. Bisogna tornare alle basi, a una comunicazione dai concetti molto forti perché una buona esecuzione non basta più. Il futuro è segnato dall’entropia: bisognerà inserire molta più energia nel sistema sapendo che gran parte verrà dissipata.

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Classe 1944, Alberto Contri lavora nel mondo della comunicazione e della pubblicità da 40 anni. Dal 1999 presidente di Pubblicità Progresso, il manager è stato appena rieletto al vertice della Fondazione per i prossimi cinque anni