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Laura Gervasoni (Patek Philippe): La fiducia richiede tempo

E mai tempo fu tanto prezioso quanto quello scandito dagli orologi del prestigioso marchio ginevrino, che li realizza da 178 anni. Il racconto del rapporto che sono stati in grado di creare con gli appassionati di ogni continente nelle parole del direttore generale della divisione italiana

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Era il lontano 1° maggio del 1839, quando Antoine Norbert de Patek e Adrien Philippe davano vita e forma in quel di Ginevra a un marchio – Patek Philippe – che avrebbe fatto la storia (e che storia!) dell’alta orologeria svizzera. Rimanendo nel solco della tradizione senza mai tradire l’ispirazione innovativa di fondo che ha contraddistinto fin dalle origini questa antica manifattura, la maison ha avuto in 178 anni la fortuna – e il privilegio – di mantenere intatta la propria indipendenza. Anche dopo il 1932 quando passò nelle “amorevoli” mani della famiglia Stern, continuando a rappresentare un punto di riferimento per l’immaginario di conoscitori e collezionisti di tutto il mondo. Come dire: sfoggiare un PP non presuppone solo il fatto di godere di un livello di benessere fuori dal comune, ma soprattutto di saper apprezzare la maestria racchiusa in segnatempo tanto belli quanto sofisticati. Non a caso PP fa parte a pieno titolo di quella ristrettissima aristocrazia del tempo che regna nei cantoni svizzeri, essendo riuscita a trasformare il savoir-faire in un’arte vera e propria. Con un antefatto così, che tipo di manager pensate rappresenti la maison in Italia? Ebbene, lasciate stare, sicuramente sbagliereste… Prima di tutto è una donna (l’unica a capo di una filiale di PP a livello globale), un’italiana, solare e assai poco teutonica, direttore generale dal 2006 ma da 17 anni in azienda. Il suo nome è Laura Gervasoni, una milanese di razza, che sembra aver fatto della discrezione – quella autentica, e non di maniera – la cifra stilistica della sua leadership.

Le devo chiedere innanzitutto di svelarci un “segreto” che tutte le donne in carriera le invidiano, come si diventa da segretaria di un’azienda petrolifera e poi dipendente di una concessionaria di pubblicità, direttore generale di un marchio super esclusivo come Patek Philippe? A dire la verità non ho “segreti” (ride) da condividere, anche perché personalmente non sono mai stata mossa dall’ambizione di “farmi una carriera”… Le dirò di più, io pensavo piuttosto a ritagliarmi un impiego tranquillo.

E invece… Invece, quando lavoravo per l’allora concessionaria di pubblicità de L’Espresso, Patek Philippe era un brand mio cliente, perciò conoscevo la responsabile della comunicazione nonché alcuni membri della famiglia Stern. Poi da cosa nasce cosa, e quando hanno deciso di aprire la filiale italiana, hanno pensato a me come responsabile delle relazioni esterne. L’aspetto particolare, però, che la dice lunga sul tipo di azienda in cui ho la fortuna e il privilegio di lavorare, è la motivazione che è stata seguita nello scegliermi. Infatti, il mio curriculum non era perfettamente in linea, ma la mia responsabile di allora mi disse: «Laura, noi non cerchiamo un profilo specifico legato al ruolo, vogliamo una persona. E quella persona sei tu, il resto lo imparerai». In seguito, ho compreso che si tratta di una filosofia che ispira tutti gli aspetti delle attività di PP.

IN UNA SOCIETÀ come la nostra

non ci si può fermare in superficie,

bisogna essere convinti

DI VOLER FARE BENE

Pensando a questa filosofia, le viene da dire che in base alla sua esperienza di manager, per un’azienda sia più importante attrarre o formare i propri talenti? Sono portata a dire che sia più importante formarli, ma a condizione che dall’altra parte ci sia una sincera disponibilità a imparare. In una società come la nostra, per esempio, con una storia lunga 178 anni e un prodotto così complesso da proporre, non ci si può fermare in superficie, ma bisogna essere convinti di voler fare bene. Il primo investimento che bisogna fare è su se stessi, sulla propria formazione.

Se, come nel suo caso, non è stata l’ambizione a farla arrivare al vertice, allora cos’è più importante della pianificazione per il successo di un manager? Soprattutto se donna. Ha ragione, noi donne siamo sottoposte a maggiori valutazioni rispetto ai colleghi maschi. E anche se sono l’unica donna a capo di una filiale, devo dire di non aver mai percepito questo atteggiamento in PP, ma l’ho certamente colto in precedenti occupazioni. Ed è un atteggiamento che attribuisco soprattutto al carattere della famiglia Stern, ginevrina e calvinista che si contraddistingue per il suo low profile, sobrietà e discrezione, ma che ha scelto di stringere un rapporto diretto con le persone che lavorano per loro. Da noi non ci sono filtri tra tutta la dirigenza e la proprietà: incontriamo Thierry Stern più volte l’anno, o meglio ogni qualvolta siamo in casa madre. Per quanto riguarda invece il resto, una donna deve saper fare tesoro di cosa sa già fare naturalmente: essere attenta anche ai dettagli, essere equilibrata, seguire più cose contemporaneamente, credere nel proprio intuito, saper ascoltare.

Ho letto che quando entrò in PP le regalarono una bussola, dicendole una frase che non comprese subito: «L’importante è non perdere mai la rotta». Cos’ha capito, strada facendo? È vero (sorride), a regalarmi quella bussola – che ho ancora – è stato il precedente responsabile pr, Angelo Pennella, un signore di grande esperienza e saggezza ormai scomparso. Credo che allora abbia voluto dirmi: «Non ti rendi ancora conto del mondo in cui stai entrando, ossia quello del lusso e un po’, quindi, anche dell’ostentazione. L’importante per te sarà non perdere di vista i tuoi obiettivi, e come sei». Ammetto di aver fatto tesoro di quelle parole: sono consapevole di lavorare in una prestigiosa società, che mi permette di avere accesso a luoghi, oggetti e contesti tra i più esclusivi al mondo, ma alla fine so perfettamente che si tratta di lavoro, che io sono altro. E questo essere rimasta con i piedi ben piantati a terra lo devo essenzialmente all’educazione che mi ha impartito mia madre.

Lei lavora nel mondo del lusso. Anzi no, mi correggo: le aziende che operano nell’alto (anzi altissimo nel vostro caso) di gamma aborrono il termine “lusso”… Lei stessa ha definito PP “oltre il lusso”, ma è tutto il mondo dell’alta orologeria a nutrire una sorta di idiosincrasia per questo termine. Mi spiega perché? Probabilmente perché negli ultimi decenni se ne è un po’ abusato, al punto da confondere il prezzo con il lusso, mentre invece andrebbe collegato piuttosto alla qualità. Nel concetto superficiale che si ha oggi del lusso, fanno parte cose che non sono tali in quanto possono anche costare tanto ma non rispondono a quel canone di ricercatezza, cura, prestigio ed esclusività in cui rientra, per esempio, un nostro segnatempo. Come dire, oggi ci si definisce troppo spesso di lusso senza averne alcun titolo e merito.

È un approccio che fa il paio con la vostra storica campagna di comunicazione, il cui claim recita che «un Patek Philippe non si possiede mai completamente. Semplicemente, si custodisce. E si tramanda». Ma l’orologio è ancora un oggetto di famiglia? Non è più un accessorio da indossare o collezionare? Dipende. In alcune regioni d’Italia sopravvive ancora la tradizione di regalare un orologio al compimento della maggiore età, piuttosto che per la laurea o il matrimonio. Se ci pensa è una bellissima usanza, quasi simbolica, perché è come se ci si regalasse “il tempo”. Purtroppo, con il calare del potere d’acquisto, questo tipo di regali si sono indirizzati su altri oggetti, ma io stessa ho ancora l’orologio che fu di mio padre, anche se non è un PP, e credo sia un oggetto-ricordo molto importante, perché oltre alle foto, cos’altro puoi conservare? Inoltre, è una precisa scelta dell’azienda quella di non voler identificare la propria immagine con quella di un testimonial piuttosto che proporla in seno a grandi eventi sportivi, seppur di alto livello. Vogliamo che quello di un nostro orologio non sia un acquisto temporaneo, bensì una scelta ispirata dalla fiducia, un investimento nel vero senso del termine, anche dal punto di vista emozionale.

VOGLIAMO che l’acquisto

di un nostro orologio

sia un investimento,

anche dal punto di vista EMOZIONALE

Di PP ha anche detto che è “oltre le mode e le tendenze”. Però, a giudicare dalle innovazioni che apportate ai prodotti, non vi si può definire neanche un settore classico. Dice bene, a livello tecnologico investiamo tantissimo in R&S, sperimentiamo in continuazione proposte innovative per incuriosire i nostri clienti e garantire longevità e precisione ai nostri modelli. Il che non è cosa semplice se considera che alla fine si tratta di proporre in varie declinazioni un unico tema, ovvero l’orologio meccanico. Basti pensare che vantiamo oltre 100 brevetti!

Declinazioni che, come accennavamo prima, sono alquanto esclusive. Tra le maggiori al mondo. Abbiamo una produzione annuale di soli 58 mila orologi per circa 200 referenze in catalogo, 200 modelli declinati in più varianti, con prezzi che vanno – per il polso maschile – da 17 mila a oltre un milione di euro. Il tutto è ripartito – in quantitativi piuttosto contingentati – tra 440 punti vendita a livello globale, più le nostre tre boutique di proprietà a Ginevra, Parigi e Londra.

In compenso, alcuni esemplari di PP, seppur non particolarmente datati, si sono rivalutati anche del 200%. Certo, può accadere, parliamo di oggetti piuttosto rari, con delle caratteristiche particolari. E ciò dipende dal fatto che siamo sempre stati molto attenti a privilegiare la qualità non producendo troppo della stessa referenza. Ciò detto, rispetto ad altri marchi, un PP conserva il suo valore col tempo – soprattutto sentimentale – visto che i nostri centri di assistenza sono in grado di riparare qualsiasi modello, anche se vecchio di un secolo. E questo, mi creda, è una prerogativa più unica che rara, che aggiunge valore all’oggetto in sé e incoraggia a un acquisto più consapevole. Qualsiasi nostro modello è riparabile vita natural durante: di generazione in generazione, appunto. E per poter offrire tale plus PP investe risorse importanti, interamente destinate a formare manualità e a mettere a punto macchinari in grado di intervenire sempre e su qualsiasi segnatempo.

Producete poco in tempi lunghi: per mettere a punto un orologio occorrono anni di progettazione e una lavorazione alquanto ponderata. Non è un andare controtendenza in un’era in cui l’efficienza imporrebbe di produrre di più in meno tempo? La velocità non è uno degli obiettivi principe che ci vengono chiesti dalla casa madre! (ride). Non solo a livello di progettazione, ma anche per quanto riguarda la distribuzione. Consideri che per un semplice segnatempo occorre quasi un anno dalla messa in produzione alla sua commercializzazione. E, salendo di “complicazioni”, il periodo si allunga. Ormai siamo in grado di sposare la tecnologia più avanzata, con macchinari a comando numerico che producono i singoli componenti del movimento dell’orologio, all’artigianalità dei tecnici altamente specializzati, che li rifiniscono per poi affidarli nelle mani sapienti dei mastri orologiai, che alla fine li assemblano. Solo così siamo riusciti ad assicurare su tutti i pezzi un’altissima qualità e una precisione omogenee.

LE PASSIONI DI LAURA GERVASONI

Il comparto dell’alta orologeria nel 2016 avrebbe perso il 5%, pur continuando ad assorbire il 22% delle spese nei beni di lusso personali. A voi com’è andata? È stato un anno complesso e ricco di sfide, durante il quale si è registrato un rallentamento delle vendite ai concessionari, che sono scese leggermente. I mercati asiatici non hanno più fornito la spinta degli anni precedenti, e anche l’Europa ha perso terreno. Per quanto concerne l’Italia, non si può certo dire che manchi la passione per il prodotto, quanto piuttosto la propensione all’acquisto. Certamente si è fatta sentire l’assenza, com’era capitato invece nel 2015, di grandi eventi come l’Expo, così come il minor flusso di clientela asiatica. PP, grazie alla sua forza, è comunque stata coinvolta meno di altri marchi e più tardi. Inoltre, come accaduto in passato nei momenti di crisi, il nostro brand è stato sempre il primo a ripartire, pertanto siamo molto fiduciosi. Tuttavia, in PP è certo importante quanto si vende, ma lo è di più come si vende.

In che senso?Nel senso che la nostra rete distributiva non viene valutata sulla base di quanti orologi commercializza ogni anno, ma come li vende. Valutiamo la qualità del servizio, la presentazione del marchio, la formazione del personale di vendita come pure la penetrazione del concessionario nel tessuto locale. Se sa servire l’appassionato e fidelizzarlo, piuttosto che vendere al cliente sporadico od occasionale.

E come riuscite a verificare la corrispondenza a questi parametri?La nostra rete viene visitata regolarmente dalla sottoscritta, organizziamo incontri e seminari, il nostro presidente viaggia moltissimo per conoscere meglio le varie realtà locali. Inoltre, attraverso il cliente misterioso, un nostro incaricato che si finge cliente e va a valutare sul campo l’efficacia delle modalità di vendita dei nostri segnatempo. Tutto viene organizzato dalla casa madre, neanche le divisioni nazionali sono a conoscenza delle verifiche. Solo questo può darle un’idea di quanto PP consideri strategica la distribuzione. Poi, comunque, abbiamo la fortuna di mantenere un contatto personale e di fiducia con i nostri 38 concessionari in Italia.

NEGLI ULTIMI ANNI

si tende a confondere il lusso

con il prezzo, mentre questo concetto

andrebbe legato ALLA QUALITÀ

C’è chi nell’alta orologeria, per riprendersi dalla crisi ha spostato il proprio focus dall’uomo alla donna, altri hanno abbracciato il segmento degli orologi sportivi, alcuni hanno spinto all’estremo la ricerca sui materiali piuttosto che rimodulato i listini (abbassando gli entry price, oppure creando dei pezzi unici). Voi cosa avete fatto? Nulla di tutto questo, abbiamo continuato sulla nostra strada (ride). Ci siamo limitati a rivisitare la nostra collezione e la nostra produzione è stata abbassata. Che è quanto facciamo da quando sono arrivata in azienda: modulare le nostre azioni per assecondare l’andamento del mercato. Non serve forzare le vendite, anche perché abbiamo una situazione finanziaria stabile e solida, che ci permette di far fronte con serenità ai momenti di crisi.

Le tensioni internazionali che agitano le cronache – la Brexit, le spine protezionistiche di Trump, il timore di attentati – influiscono in qualche modo sull’andamento di un settore come il vostro? Certamente, soprattutto nella misura in cui determinano l’instabilità delle valute, vedi l’andamento della sterlina o del franco svizzero piuttosto che di dollaro, euro e yen, che rendono di volta in volta più conveniente procedere agli acquisti in Paesi diversi. Il che, per una clientela internazionale come la nostra, abituata a frequenti viaggi, può fare la differenza. Fortunatamente però c’è poi l’aspetto relativo al fatto che in tempi di insicurezza e instabilità, l’acquisto di un orologio PP viene considerato come una diversificazione dei propri investimenti piuttosto che, soprattutto in alcuni casi, un bene rifugio.

Oggi si fa un gran parlare di storytelling nella promozione dei brand, ma in qualche modo il vostro settore è stato un antesignano in tale pratica, perché per primi avete avuto la necessità di raccontare quanto c’è dentro e dietro i vostri orologi: la storia e la manifattura. Chiara Pisa (concessionaria PP di Milano, ndr) durante un’intervista mi ha detto che bisogna essere bravi a raccontare “l’invisibile del visibile”. Quanto è difficile comunicare al pubblico tutto questo? Più che difficile è complesso. Ma si è in qualche modo agevolati dal fatto che si va a raccontare la qualità reale di un prodotto, che è articolata e a tratti entusiasmante, in un universo più generale di consumi dove la tecnologia ha appiattito ogni aspetto. Nel nostro caso invece c’è un processo di lavorazione accurato, lento, che richiede tanti passaggi e la sapienza manuale e creativa di tanti mestieri. Noi dobbiamo semplicemente raccontare tutto questo, sia a chi non se ne rende conto, sia a chi – e per fortuna abbiamo una platea di appassionati molto curiosa e attenta, che si informa e ci segue negli anni – invece è un esperto della materia. Inoltre, organizziamo molte visite presso la nostra manifattura in Svizzera, mentre nel 2009 la famiglia Stern ha fortemente voluto l’apertura del Museo Patek Philippe a Ginevra, dove è possibile ammirare non solo i modelli storici della casa, ma anche altri che fanno parte della storia stessa dell’arte orologiaia.

L’azienda è nata nel lontano 1839, mentre è di proprietà della famiglia Stern dal 1932, che in Svizzera appartiene a una sorta di aristocrazia del tempo, e che ha dato prova di saper superare le fosse caudine dei passaggi generazionali che spesso si rivelano problematici anche per i brand più prestigiosi. Cos’ha messo, secondo lei, in sicurezza PP? Probabilmente il fatto che ogni nuova generazione alla guida della società abbia perseguito gli stessi ideali della precedente (“produrre gli orologi più belli del mondo”), le stesse strategie a lungo termine, la stessa politica commerciale. L’attuale presidente è Thierry Stern, mentre suo padre Philippe ne è presidente onorario. Sandrine Stern, moglie di Thierry è a capo della divisione creativa, ruolo che rivestiva già prima delle nozze.

Un chiarimento: quando si parla con appassionati oppure operatori del vostro settore, torna spesso il termine fiducia; lei stessa l’ha utilizzato più volte nella nostra chiacchierata. Come mai questo refrain? Probabilmente perché nell’alta orologeria si instaurano tutta una serie di relazioni, legami, che durano nel tempo, non occasionali o sporadici. Occorre fiducia nel rapporto con i concessionari, ma anche con gli stessi clienti. Lo stesso principio vale internamente: dei 2.200 dipendenti di PP nel mondo, di cui 13 in Italia, hanno tutti un’anzianità di servizio piuttosto lunga, fiduciaria appunto. Io ci lavoro da ben 17 anni, e non sono neanche la più storica tra i miei collaboratori. Pensi che gli Stern hanno espresso indicazioni specifiche affinché anche i rapporti tra i loro dipendenti siano improntati alla correttezza, alla disponibilità e al rispetto delle reciproche culture nazionali. Non voglio sembrarle retorica, ma la fiducia in una attività come la nostra è un elemento indispensabile, una conditio sine qua non.

Per chiudere, una curiosità che mi frulla per la mente dall’inizio della nostra chiacchierata: chissà quanti begli orologi PP ha potuto permettersi in questi 17 anni… So che il primo l’ha comprato col primo stipendio. Scherza (ride)! Non guadagnavo così tanto… Il primo risale in effetti al ’99, è un Twenty-4: erano tempi in cui la Borsa andava bene e per acquistarlo dovetti vendere anche delle azioni Tiscali (ride). Adesso, ne ho qualcuno, non tanti, ma il giusto…

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UNA MANAGER AL VERTICE. In azienda dal 1999, quando in Italia Patek Philippe aveva solo un centro assistenza e l’ufficio stampa, Laura Gervasoni è divenuta direttore generale della filiale tricolore nel 2006