Connettiti con noi

People

Giocare è da grandi

Maschi adulti, di ceto medio alto. Ma anche donne, manager e professionisti. Il variegato identikit degli appassionati italiani svela che il mondo dei videogame è molto diverso da come viene dipinto nell’immaginario comune. A raccontare il lato nascosto di un’industria creativa, innovativa ed estremamente vitale è Maurizio Finocchiaro, Country Manager di Electronic Arts

architecture-alternativo

Della vita militare non mi piacevano gli schemi, ma amavo le relazioni interpersonali: mi dicono che ho la capacità di riconoscere le persone “di pancia”. Quell’esperienza mi è servita dopo, perché è stato lì che ho imparato ad approcciare le questioni con disciplina e passione». Sembra paradossale che Maurizio Finocchiaro, l’uomo a capo di quella Electronics Arts che con i suoi software fa videogiocare gli italiani, sia figlio di un ufficiale di Marina catanese e abbia passato lui stesso gli anni della sua formazione tra i rigori assai poco “ludici” di un’Accademia navale. Per questo è pronto ad ammettere che nella vita di un’azienda è certamente importante il prodotto, ma lo è anche il conto economico e la messa a punto delle strategie, mentre il divertimento preferisce riservarlo ai fedelissimi dei titoli EA, dallo storico FIFA al recentissimo Battlefield 1. Il messaggio che sembra trapelare è che ormai quella dei videogame non sia più solo un’industria dell’intrattenimento in positiva espansione, ma che abbia anche una valenza culturale, per gli input creativi, tecnologici ed esperienziali che è capace di sollecitare e di generare sul fronte sportivo e della comunicazione così come della socializzazione. Perché, come ha spiegato il manager nella sua chiacchierata con Business People, altro che “giochini”, i videogame sono ormai terreno di conquista di un’ampia platea di giovani adulti, prevalentemente uomini, ma con una crescente componente femminile, a cui piace confrontarsi mettendo alla prova le proprie capacità prima con se stessi e poi – grazie alla costante evoluzione delle versioni online – con il mondo intero.

Mi spiega come si fa a partire dall’Accademia navale per approdare ai videogame? Lo so, sembra un percorso strano, ma ha una sua logica. Perché in mezzo ci sono stati un distributore nazionale (Claitron) di microprocessori, stampanti (Star) e Pc (Compaq), fino all’era pioneristica dei cellulari con Mitsubishi e al lancio di Windows 95 in Microsoft. A unire tutte queste esperienze sono stati passione, dedizione, empatia e l’intuito che costituiscono le basi di un qualsiasi lavoro commerciale, dove saper comprendere al volo i propri interlocutori e le situazioni è fondamentale. Nel business mi è tornata utile la lezione che a 18 anni avevo rifiutato, quando decisi che la vita militare non sarebbe stata il mio futuro, ovvero i vantaggi del darsi un’impostazione gerarchica, che ho trasformato in una prerogativa: secondo me, le aziende non possono essere guidate dal basso, non metterei mai ai voti una proposta (ride). Ciò non vuol dire che non sia aperto ai suggerimenti dei miei collaboratori e a riconsiderare quindi una mia opinione.

LE AZIENDE NON POSSONO

ESSERE GUIDATE DAL BASSO

VANNO BENE I SUGGERIMENTI,

MA POI SI DECIDE DA SOLI

Perché dare indicazioni precise è un’assunzione diretta di responsabilità da parte di un General Manager? Perché ci si espone a rischi! Perché, considerando i miei trascorsi, sono cresciuto di più e meglio quando ho avuto a che fare con manager più esigenti, e non necessariamente più popolari. Mio padre sosteneva che esistessero due categorie di comandanti: quelli d’acqua dolce, buoni per le correnti calme di fiumi e laghi, e quelli da mare grosso, per gli oceani. Essendo un ufficiale di Marina, sapevo bene a cosa si riferiva.

E lei in quale categoria si inserirebbe? Diciamo che ho viaggiato molto con mio padre, e mai in acqua dolce… Abbiamo completato il giro del mondo, rimanendo a volte anche per oltre due mesi in mare aperto senza fare mai scalo, con condizione di mare estreme. Navigando ho capito perché si chiama Capo di Buona Speranza…

Tuffiamoci nel mondo dei videogame, ma prima una curiosità. Lei ha idea del perché, stando anche ai numeri che macina il settore, ci giochino così tante persone (25 milioni i gamer italiani nel 2015), tra cui anche molti manager e professionisti, ma poi all’esterno non si abbia la percezione di un fenomeno così diffuso?Forse è un po’ come per Donald Trump o Silvio Berlusconi: vincono le elezioni senza che nessuno ammetta mai pubblicamente di averli votati.

Eppure i videogame sono stati “sdoganati” anche da Frank Underwood, il presidente degli Stati Uniti, in House of CardsGià (ride), pensi che il personaggio interpretato da Kevin Spacey potrebbe coincidere col nostro target di riferimento, ovvero l’uomo adulto. Altro che ragazzini e adolescenti, come si semplifica di solito. Il 56% dei videogiocatori sono uomini e il 25% sono compresi nella fascia di età 35/54 anni, con una formazione medio alta e una buona capacità di spesa.

Pare che anche il pubblico femminile si stia sempre più convertendo a questa forma di intrattenimento. È vero, anche le donne videogiocano, il 44% del totale: noi proponiamo un titolo molto amato dal target femminile, The Sims, un simulatore di vita reale che è il titolo per Pc più venduto in Italia. Credo che questo accada perché ormai la nostra modalità di racconto è stata imitata anche dal cinema. Di recente, pure mia moglie, che considera i videogame con una certa cautela, guardando il film Code name: Geronimo ha esclamato: «Caspita, sembra Battlefield». Mentre le mie due figlie di 16 e 12 anni sono cresciute in pieno periodo Nintento DS, il piccolino di casa invece, che ha sette anni, ama tutto ciò che è tecnologia e poco importa la piattaforma di fruizione, console, mobile, tablet o Pc.

Le donne giocano pure a FIFA, in assoluto il vostro titolo di punta? Ci giocano senz’altro, da sole o insieme ai loro compagni, e non mi stupisco visto quante donne, giustamente, frequentano gli stadi. Va detto, però, che stiamo parlando di un titolo limite, che a ogni uscita fa storia a parte rispetto al mercato. Con oltre un milione di copie, fisiche e digitali, vendute nel nostro Paese, FIFA 17 non può essere considerato un “semplice” videogioco. Si rivolge a un pubblico di appassionati ed esigenti estimatori che pretendono realismo ed adrenalina in-game. Da qui la nostra sfida di migliorare anno dopo anno un prodotto che ha raggiunto la perfezione. L’ultima edizione ha un nuovo motore grafico che rende l’esperienza calcio davvero unica e realistica. Riconoscere parti di gioco da una vera partita di calcio in Tv, diventa sempre più impresa ardua, anche a occhi allenati, come quelli di noi addetti ai lavori.

Sono queste le ragioni del fenomeno FIFA? In parte sì. Da anni, al giocatore va stretto il suo divano. FIFA 17, come mai prima d’ora, offre ai suoi fan la possibilità di entrare in un vero e proprio network di appassionati sempre pronti a giocare un’ultima partita ancora, grazie a molte modalità che rendono varia la sfida. Tra queste, la più famosa è sicuramente FIFA Ultimate Team, su cui i calciatori virtuali di tutto il mondo disputano più di tre milioni di partite al giorno. FUT, questo il suo nome tra gli appassionati, introduce anche il gaming competitivo online e lo porta a un nuovo, affascinante livello grazie alla modalità chiamata FUT Champions, in cui chiunque può provare a dire la sua qualificandosi prima ai tornei settimanali e poi via via a competizioni di livello superiore, fino a raggiungere la finalissima di Londra, che si svolgerà entro il 2017.

Anche i consumatori, dunque, si sono evoluti. Certo. Non basta più misurarsi con se stessi, se ci si può scontrare in un’arena globale. Si tratta di un fenomeno destinato a crescere.

UN MONDO VELOCE

RENDE INDISPENSABILE

LA CAPACITÀ DI ADATTAMENTO

AI CAMBIAMENTI

Abbiamo parlato di 40enni, donne, professionisti, bambini. Sbaglia chi pensa che un altro vostro importante target di riferimento siano i Millennials? Non sbaglia, perché quella che cita è la generazione più importante in termini numerici degli ultimi anni. Si tratta di un pubblico strategico, sia per i consumi attuali che per quelli dell’immediato futuro. E sono i videogiocatori che per primi hanno imparato a utilizzare la console anche per fruire di intrattenimento di altro genere. Molti di loro, soprattutto nei mercati asiatici, fruiscono dei videogame soprattutto in versione mobile.

Il 2015 si era chiuso per tutto il settore italiano con ricavi per 952 milioni di euro, in crescita per il secondo anno consecutivo. Quali sono le stime di chiusura 2016 e le previsioni per il 2017? Indicano che a livello mondo il mercato è in crescita: il fatturato 2016 dovrebbe aggirarsi intorno ai 100 miliardi di dollari, 120 miliardi previsti nel 2019. In Italia abbiamo a fine novembre un mercato flat, con l’hardware in crescita e il software ancora in leggero affanno, ma dicembre rappresenta un mese chiave per la nostra industria (l’intervista è del 20 dicembre, ndr), mi aspetto una ripresa anche del software. In compenso Electronic Arts è cresciuta del 10% rispetto al 2015, guadagnando 3 punti di quota di mercato: siamo al 25%, consolidando il nostro ruolo di publisher numero uno. FIFA 17 e Battlefield 1 sono i driver di questo successo. FIFA 17 ha totalizzato vendite per oltre il 27% in più rispetto all’edizione passata, raggiungendo la quota di mercato record del 92%, ben oltre cinque punti in più rispetto allo scorso anno. Ma c’è da dire che in Italia, e in generale nel Sud Europa, il settore è sottodimensionato.

Per quale ragione? Sono più di una. La prima è di natura geografica e climatica: non è un caso se i mercati più maturi per quanto riguarda l’intrattenimento in generale siano i Paesi del Nord Europa, dove le stagioni e le temperature obbligano a passare più tempo in casa. Consideri che in UK si spende in videogame lo 0,7% del reddito procapite, e che il 48% della popolazione videogioca acquistando anche molti contenuti addizionali. Se riuscissimo a importare in Italia e nel resto d’Europa questi dati di consumo, il fatturato del settore potrebbe crescere del 70%. La seconda è decisamente culturale. In una certa fascia di popolazione sopravvive la convinzione, sbagliata, che i videogame facciano male ai bambini. Il che, se portato agli eccessi, potrebbe anche essere vero. Ma quale cosa, tecnologica e non, se se ne fa un abuso, non crea conseguenze nocive? La stessa Tv può risultare dannosa. Bisogna solo farsi guidare dal buon senso: lo schermo, qualsiasi contenuto trasmetta, non deve mai e poi mai diventare una babysitter. Avendo tre figli, lo so bene.

LE PASSIONI DI MAURIZIO FINOCCHIARO

Non sarà tutta colpa delle generalizzazioni dei media.No, certo, ma di chi per comodità o “benaltrismo” cerca di demonizzare un tipo di intrattenimento che vale né più né meno dei film d’azione o di altri contenuti più spinti. Bisognerebbe conoscere meglio che cosa c’è dentro quest’industria. Dall’aprile 2003 il PEGI (Pan European Game Information) classifica i videogame su tutto il territorio europeo in base ai loro contenuti per fascia di età, ovvero dai 3 ai 18 anni. Conoscere aiuta ad avere opinioni più equilibrate e consumi consapevoli. Mi è capitato di seguire anche tanti dibattiti sulla nocività o meno dei social, come se si potessero in qualche modo arrestare processi così globali e avanzati, mentre l’unica cosa che possiamo fare è conoscere, adattarci al cambiamento, assecondarlo con equilibrio per non esserne schiacciati e riuscendo a sfruttarne tutti gli innumerevoli vantaggi, sia dal punto di vista dello sviluppo del business che della vita quotidiana.

Quanto è importante la capacità di adattamento? Fondamentale, se si vuole competere. Noi lanciamo prodotti, con un timing preciso, spesso concentrati nel tempo e con un ciclo di vita breve. Il nostro è un settore estremamente affascinante, che va oltre l’intrattenimento perché permette di entrare in contatto con altri modelli di business: FIFA ci ha aperto a collaborazioni con il calcio reale o con aziende e brand che ruotano attorno a esso. Altri titoli come Battlefield o Need for Speed a partnership per il product placement, dalla moda al food. La nostra è un’industria veloce, complessa, ma allo stesso tempo affascinante e che ti obbliga a uscire dalla tua comfort zone. E dire che c’è ancora qualcuno che continua a definirli “giochini”…

Di questi “giochini”, continuate a vendere ancora più versioni fisiche che online? Sì, ma le seconde continuano a crescere. Il rapporto attuale è, grosso modo, 70% fisico e il rimanente digital. È un fenomeno connaturato al nostro mercato, dove la connessione internet è ancora lenta in molte aree del Paese e permane una certa diffidenza nell’uso della carta di credito. Quando devo spiegare la mentalità della Penisola ai miei colleghi all’estero, mostro le immagini delle lunghissime code ai caselli autostradali ad agosto mentre le corsie Telepass e ViaCard sono libere. Personalmente però confido molto nello sviluppo dell’Agenda Digitale del nostro Governo e nelle donne, saranno loro con l’apertura mentale e l’approccio verso le novità che le contraddistingue a cambiare queste abitudini. Basti vedere quanto siete più “evolute” relativamente agli acquisti online e all’uso delle carte di credito (ride).

L’ESPERIENZA AIUTA

A GESTIRE LE DIFFICOLTÀ:

È UN VALORE

CHE NON SI DEVE SMARRIRE

Ha accennato alla realtà virtuale. Nelle previsioni il 2016 doveva essere l’anno decisivo, sono state confermate? La realtà virtuale è sicuramente uno degli argomenti che promette un orizzonte di crescita, perché incuriosisce e potrebbe servire a ingaggiare altri player, ma è ancora in una fase iniziale. La guardiamo con attenzione e sono previsti investimenti a partire da un titolo come Star Wars, ma è troppo presto per poter dire se si consoliderà o rimarrà una moda come alcune novità speculative degli anni passati, vedi la musica piuttosto che il casual gaming. Tra le nuove tendenze trovo maggiore potenziale negli eSport.

La pensa allo stesso modo sulle altre linee di sviluppo del mondo videogame che vengono indicate, oltre alla Vr, vedi il cloud gaming, il riconoscimento vocale del movimento, lo streaming, il gioco multiscreen, il gioco multiplayer, l’interazione sociale? Sono aspetti, come dire, più esoterici (ride). Mi riesce difficile stabilire a priori che genere di applicazione industriale potranno avere, di sicuro sono la dimostrazione che il nostro è un mondo estremamente creativo, aperto e ricettivo verso sperimentazioni, novità, start up.

Realtà più concreta invece è la gamification, lo sviluppo dei videogiochi per aiutare a superare traumi e prevenire malattie soprattutto in campo psicologico, piuttosto che per agevolare la formazione. In effetti, su questo fronte le applicazioni rappresentano già delle realtà significative. Ho avuto alcuni contatti diretti con alcuni ospedali in cui si fa ricerca e mi è capitato di incontrare medici che vedono nel videogioco un’opportunità per stimolare bambini o adulti su alcune funzioni, riflessi, manualità, e allo stesso tempo anche per aiutare dal punto di vista emotivo-psicologico i minori costretti a degenze lunghe. Sono molto sensibile a questo tema e sempre aperto a collaborazioni.

Ho visto che EA ha studios in decine di Paesi, ma non nel nostro. Come mai? La tanto decantata creatività italiana non si adatta all’immaginario videoludico? Direi piuttosto che non ci sono le condizioni. Lo so, è una formula già sentita, ma l’ideale sarebbe avere un’organizzazione alla tedesca con una creatività italiana. Invece da noi fare impresa è difficile, quasi impossibile, le ragioni sono storiche e anche di sistema: la tassazione è imbarazzante così come la burocrazia. Eppure anche qui ci sono delle eccellenze e crescono molti cervelli, che fuggono all’estero senza fare più ritorno col loro bagaglio di esperienze e competenze. Non c’è nulla che invogli le multinazionali a investire.

Forse perché la nostra economia è più predisposta verso le piccole e medie imprese, anche se poi sono le multinazionali ad assicurare maggiore efficienza economica. Già, si sottovaluta che le tanto decantate pmi all’estero sono considerate microimprese. Che vanno benissimo se si parla di eccellenza, l’Italia si regge su pmi ed eccellenza, la quale però necessita di una scala diversa. Le multinazionali invece sono un altro discorso e a noi forse manca anche la cultura del lavoro per accoglierle. Negli Usa, nel Nord Europa, esiste una mobilità superiore, da noi le cose stanno cambiando forse solo perché c’è una generazione di 40enni costretta a vivere senza il posso fisso. Le altre generazioni sono “perdute”, perché la professionalità e la seniority sono considerate dei costi più che delle risorse.

Il problema è che nella selezione l’esperienza non viene più considerata un valore aggiunto.Diciamo che spesso all’esperienza o alla capacità di guidare uomini, meglio nota con l’abusato termine di leadership, non viene dato il giusto valore strategico. Spesso le aziende sono guidate dal cost saving anche in queste scelte vitali. L’esperienza mi ha insegnato che prima o poi arriva il tempo delle scelte difficili o delle decisioni impopolari, in fondo tutti deciderebbero meglio del capo (ride), ma in entrambi i casi l’esperienza gioca un ruolo primario insieme alla disciplina d’impostazione militare cui accennavo all’inizio. Spesso sono “spietato” con i miei collaboratori più stretti, per me contano solo fatti concreti e numeri. In questi anni mi è spesso capitato di dover gestire momenti complicati tenendo la barra dritta verso obiettivi chiari e condivisi, portando comunque e sempre in porto la filiale italiana di Electronic Arts. Quale occasione migliore per celebrare poi i successi, insieme? Per tornare al punto, mai considerare l’esperienza un costo, bensì un valore aggiunto inestimabile.

Questa rincorsa giovanilistica non è un po’ figlia anche del mito che si è creato intorno ai mega start upper del digital alla Mark Zuckerberg? È vero, tutto d’un tratto sembra che esista solo il digital, ma allo stesso tempo si cercano manager di esperienza per un futuro ancora da scrivere. E allora che senso ha liberarsi delle risorse che si hanno in azienda? Credo che sarebbe meglio investire per aiutare le persone a formarsi per assecondare il cambiamento, facendo tesoro dell’esperienza che hanno già maturato. Chi non gioca questa partita è inevitabilmente fuori!

A proposito di futuro, anche del suo. Il patron di Netflix, Reed Hastings, ha sostenuto che nei prossimi decenni l’intrattenimento consisterà in delle pillole che ingoieremo come in Matrix. La preoccupa questa potenziale concorrenza? Affatto, perché – per quanto questa ipotesi mi lasci perplesso – nel frattempo mi sarò già ritirato, magari a Taormina, a godermi il mare della mia Sicilia, gustando un’ottima granita alle mandorle, macchiata al caffè.