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Benvenuti al Sud!

Per l’a.d. di Silvian Heach quello che veramente importa è la bravura, non la collocazione geografica anche se proporre un buon prodotto non basta: per emergere bisogna farsi notare e continuare a evolvere

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Sulla carta avrebbe più di un elemento a remarle contro, è una donna per di più del Sud che pretende di operare a livello globale in un ambito, quello del fashion, che negli ultimi anni ha visto sorgere colossi planetari da far tremare i polsi a chiunque. Ma lei, Mena Marano, amministratore delegato del gruppo Arav, fondato insieme al marito Giuseppe Ammaturo (attuale presidente) 14 anni fa con quartier generale in quel di Nola (Napoli), non sembra impensierirsene più di tanto. «L’appartenenza a un sesso piuttosto che a un altro non conta, è più importante la bravura. E poi devo ammettere che, personalmente, sono un po’ allergica a certi concetti cari alla retorica femminista», dice scherzando mentre confessa a Business People una delle tante idee che ha in testa: «Sogno, però, di realizzare un giorno una campagna con tante donne in carriera, capaci di trasmettere autorevolezza e stimoli alle consumatrici più giovani. Personaggi forti e in grado di dare un messaggio di prospettiva, perché il successo dipende solo dalla passione e dai principi che si incarnano nella vita di ogni giorno». E neanche fare impresa al Sud, va considerato per lei un minus: «Può essere un po’ più complicato, ma non impossibile. L’importante però è non solo fare un buon prodotto, perché l’obiettivo fondamentale per emergere in un mondo competitivo come quello della moda è farsi notare»; il che vuol dire comunicare attraverso campagne marketing mai scontate, e una strategia di distribuzione che questa giovane e minuta imprenditrice dai tratti mediterranei e dal piglio teutonico equipara a tutti gli effetti a una… scienza. C’è questo e molto di più dietro alle collezioni donna dei due brand di punta del gruppo, lo storico Silvian Heach e il più giovane Sh, nonché dietro alle linee di occhiali e a quella kids, per la quale si appresta ad annunciare – con una punta di orgoglio nella voce – un nuovo accordo proprio in occasione del prossimo Pitti Bimbo di Firenze, durante il quale ufficializzerà un’importante partnership internazionale.

Prima di tutto mi tolga una curiosità, chi è Silvian Heach? Che donna è? Sembra il nome di una persona, ma non lo è… E infatti è un marchio di fantasia, a cui abbiamo però voluto dare una precisa personalità. L’identikit di Silvian Heach coincide con quello delle donne per le quali sono pensati i suoi capi. Perché ho sempre sognato di realizzare abiti per ragazze aggressive, ma determinate. Le nostre collezioni si adattano all’80% della vita quotidiana di ogni donna, dai capi più adatti per andare all’università a quelli da indossare in ufficio, a spasso con le amiche o in famiglia. Perché bisogna sentirsi belle e sicure di sé quando si indossa un vestito, avendo cura di non passare mai inosservate. Per questo, come accennavo prima, una campagna incentrata su donne che possano dire «io ce l’ho fatta», sarebbe perfetta per comunicare la forza e la filosofia del nostro brand. Al momento è solo un’idea, ma ritengo sarebbe importante per chi, come noi, vuole parlare alle trentenni dinamiche, attente alle tendenze e alla ricerca di un abbigliamento pratico.

POTEVAMO PRENDERE STRADE

PIÙ SEMPLICI, MA ABBIAMO CREATO

UN NUOVO BRAND

PENSANDO AI NOSTRI FIGLI

Proprio per inseguire questi obiettivi, avete da sempre finalizzato gran parte del vostro impegno sulla comunicazione. Qual è la consapevolezza che ha spinto ad adottare tale approccio? Per una realtà giovane come la nostra, il primo obiettivo era creare un percorso innovativo per distinguerci dagli altri competitor. Volevamo trasmettere alla potenziale clientela quale fosse la nostra novità, individuando il percorso più adatto per parlare al nostro target. Quando abbiamo iniziato, io e mio marito eravamo molto giovani: avevamo trent’anni, venivamo da un’esperienza imprenditoriale nel tessile legata a una precedente attività della sua famiglia. Non è stata una sfida facile: siamo sposati da quando avevo 19 anni e lavoravamo insieme da molto tempo, dato che io avevo iniziato a dargli una mano sulla parte commerciale.

Come sono stati gli inizi? In quel momento storico, mio marito, che si occupava del prodotto, aveva capito che era necessario far fronte al posizionamento cercando mercati di approvvigionamento adeguati per avere una redditività sufficiente a competere con i marchi che si stavano affermando in quel periodo, come Zara e gli altri grandi nomi del fast fashion. Su questa considerazione di base abbiamo fondato la nostra nuova avventura: mai fermarsi, mantenendo in continua allerta ogni ambito del proprio business al fine di farlo evolvere tempestivamente. Forti delle competenze di mio marito e dell’esperienza che aveva accumulato nel retail e nel marketing, abbiamo girato pagina. E ha funzionato: ancora oggi io mi occupo in maniera trasversale di Silvian Heach e della distribuzione e marketing di Sh, mentre lui è focalizzato sui prodotti Silvian Heach e sugli aspetti societari. All’epoca, però, il dubbio era se creare un progetto nuovo, un brand, o aprire una società di trading con meno rischi e implicazioni. Sarebbe stato più facile, ma abbiamo voluto pensare anche ai nostri figli e siamo ripartiti da zero con tutte le difficoltà del caso.

Mi sembra che la famiglia sia centrale nella storia della vostra azienda. È vero. Non a caso il nome del gruppo Arav è l’acronimo delle iniziali dei nostri figli, Rossana e Vittorio. La primogenita ha 25 anni e collabora già con noi occupandosi della distribuzione online. Insieme a lei c’è un manager perché deve imparare, non basta il sangue per saper fare tutto. Mentre il minore ha 20 anni ed è al momento in job rotation nei vari dipartimenti aziendali per capire tutti i meccanismi interni e decidere al meglio l’area alla quale si sente più affine. Da quando avevano 14 anni abbiamo voluto che studiassero entrambi all’estero per consentire loro di costruirsi una formazione e un bagaglio di relazioni internazionali. Perché da genitori siamo convinti che se un patrimonio può per un motivo o per l’altro esaurirsi, la preparazione, la cultura e le conoscenza delle persone e del mondo non può essere dispersa.

Giovanissima era anche la designer a cui vi siete affidati fin dall’inizio… Già, e ancora oggi è il nostro direttore creativo, ma allora aveva da poco terminato gli studi all’Istituto Marangoni. Al resto abbiamo pensato noi, concentrandoci sul servizio e il retail: dai primi quattro negozi è cominciato un lavoro fatto di piccola distribuzione, di agenzia, di fiere ecc. Un altro passaggio fondamentale è stata la decisione di avvalerci di fotografi famosi come Terry Richardson o Giampaolo Sgura per farci conoscere definitivamente da quel pubblico cool e alto-spendente che può essere attratto da un capo a prescindere dalla notorietà del brand che porta. Ora quel momento è passato e nelle ultime collezioni abbiamo cambiato rotta, perché quando sfrutti un grande nome della comunicazione corri il rischio di far passare il prodotto in secondo piano. Nella nostra evoluzione continua, ora puntiamo a offrire collezioni diverse, riposizionandole su un maggiore livello qualitativo per poter reggere anche sui mercati internazionali.

Internazionalizzazione, certo, ma anche diversificazione attraverso il brand Sh. Quanto è complesso gestire due brand per un’azienda ancora giovane? Abbiamo deciso subito di puntare su una direzione creativa diversa, con una progettualità separata sotto ogni punto di vista: a partire dall’ideazione della collezione fino ad arrivare alle strategie distributive e a quelle marketing. Possiamo dire che si tratta quasi di due aziende differenti, due anime separate che si riflettono all’interno dell’azienda con due team che seguono tutti i dettagli fino alla parte social. Sh, in particolare, è un brand che vive sui social network, che nasce dall’idea di coinvolgere dei giovani designer o persone dalla forte creatività in progetti di collaborazione. La collezione nasce, infatti, in collaborazione con due ragazze croate famose instagrammer che vivono in Italia da molto tempo: Sijjana e Maja Dirljevic sono diventate sin da subito direttori creativi del progetto. Hanno costruito uno storytelling dietro il marchio, quest’anno è quello di una ragazza di 18 anni di origine cubana che fa la fotografa in giro per il mondo. Il primo servizio fotografico estivo è stato realizzato proprio a Cuba, al Paeso Prado 68 dove ha recentemente sfilato anche Chanel. Da febbraio pure le due piattaforme online si divideranno perché vorrei orientare il sito Sh sulla falsariga di Asos.

PUOI CRESCERE COMPRANDO

DEI BRAND O INTRAPRENDENDO

UN PERCORSO

DI SVILUPPO GLOBALE

Com’è nata invece la linea Kids? Nel 2008 abbiamo colto un’occasione dopo un primo periodo di crescita esponenziale. Nella nostra esperienza famigliare c’era un’expertise relativa al mondo dei bambini, così ci è venuta voglia di recuperare questo background. Qual era la rottura? Andare a costruire una collezione che unisse la quotidianità del bambino, la qualità del prodotto e l’accessibilità. Ci siamo posizionati così come entry level nei negozi di alto livello per le mamme che non volevano accontentarsi di Zara e cercavano un’alternativa da boutique. In questo è stata fondamentale la capacità di industrializzare il progetto grazie ai nostri uffici esteri, e un’organizzazione internazionale che ci permettono di semplificare i passaggi relativi alla produzione.

Avete persino una linea di occhiali. A quando l’uomo, allora? Gli uomini, al momento, non ci piacciono (ride). Diciamo che ci riserviamo questa possibilità per il futuro…

Parlava dei vostri uffici in Cina. Siete a tutti gli effetti una piccola multinazionale. Come è organizzato l’universo Arav? Produciamo in Cina, Bangladesh, Turchia, Portogallo e Italia. Un po’ ovunque, in effetti. Nella nostra sede invece abbiamo tutta la divisione ideazione, progettazione e ricerca con un centinaio di persone. Siamo un’azienda dal Dna giovane e questa è una scelta, perché abbiamo sempre cercato di intercettare ragazzi motivati, portatori sani di passione e voglia di fare.

Bratislava, Ankara, Kiev, Mosca e poi Doha nel Qatar, Kosice in Slovacchia, Vladivostock nella Federazionie russa, Minsk in Bielorussia, e poi Changsa, Guangzhou e Sanya in Cina, non sono le tappe di un esotico giro intorno al mondo ma le località delle ultime inaugurazioni di vostri punti vendita. Da Nola al mondo, insomma… Già… Pensi che un nostro agente mi ha raccontato una volta di essere arrivato da Shanghai a Rotterdam in treno: una sorta di giro del mondo… Abbiamo fatto una cosa simile anche noi (ride). Era inevitabile affacciarsi oltre i confini nazionali: dopo 14 anni sul mercato un’azienda comprende qual è il suo potenziale retail e deve dargli sfogo. Come dimostra l’apertura del negozio di Milano in via Dante, che ci ha dato grande visibilità, l’obiettivo è sempre stato quello di consolidare la presenza in Italia per puntare poi sui mercati esteri. Un passo da fare con attenzione, perché alcuni Paesi sono ricettivi al retail diretto, altri hanno una maggiore propensione al wholesale. È un’evoluzione obbligatoria per chi vuole crescere: lo puoi fare acquisendo nuovi marchi o attraverso un processo di globalizzazione, anche se è più difficile. Per farlo devi avere un’organizzazione interna di supporto ai partner che sia efficiente in ogni momento. È questo che ci permette di avere oggi 60 negozi, 65 corner e 1.500 rivenditori per Silvian Heach. I mercati che ci stanno regalando i migliori riscontri sono il Medio Oriente, la Russia e la Cina. Poi bisogna sempre essere prudenti: aprire, in fondo, è facile, il problema è garantire continuità.

L’italianità di un prodotto è considerata un plus a livello internazionale. Voi siete vissuti come tali nonostante il nome dal sapore straniero e l’organizzazione globale? Abbiamo sempre avuto creatività e parte della produzione in Italia, e questa è la nostra base. Su ciò, però, si innesta l’opportunità di sfruttare l’imprinting di un’azienda che sembra slegata da un luogo fisico. Se fossimo stati “troppo italiani” forse saremmo rimasti un’azienda famigliare, mentre noi abbiamo sempre avuto l’obiettivo di evolverci portando al nostro interno risorse qualificate con un know how di alto livello. Nonostante un aggravio di costi, abbiamo creato una collaborazione con un partner logistico esterno che ci garantisse un servizio efficiente. Non si può pensare solo al ritorno immediato, ma bisogna guardare al domani. In questo senso, un modello per noi è quanto fanno Esprit in Germania – con una piattaforma logistica da 40 mila metri quadri – e Disegual in Spagna, che ha creato un impero da un miliardo grazie a driver semplici, come la piattaforma di gestione che controlla milioni di capi servendosi di appena 25 persone. Temo che a volte per un brand cullarsi solo nella sua italianità possa diventare un limite.

IL RETAIL È CAMBIATO

MA QUESTA EPOCA

È RICCA DI OPPORTUNITÀ

PER CHI SAPRÀ USARE

I CANALI PIÙ EFFICACI

Ho letto che lei considera il retail una “scienza”. Quali sono gli elementi fondamentali della materia? È vero, lo è. Ha bisogno di competenza e professionalità, perché sono i professionisti a fare la differenza: un’azienda può realizzare il miglior prodotto possibile, ma poi necessita di persone preparate per distribuirlo con successo. Ciò è di vitale importanza. Noi abbiamo ingaggiato un retail manager di origine italiana ex Zara, gruppo per il quale ha lavorato per molti anni a Londra e in Spagna. Ma non basta, viste le dimensioni del nostro business. Così stiamo avviando una collaborazione con un operatore esperto di Medio Oriente, che già lavora per Mango e molti altri gruppi dall’orientamento prevalentemente retail. Fare sale è facile: compri, vendi e stop. Mentre c’è invece un’evoluzione a monte della distribuzione che non può essere ignorata.

Lo insegnano i francesi, che sono diventati grandi perché hanno uno storico know how nella distribuzione nazionale e internazionale. Mentre noi italiani spesso ci limitiamo alla creatività… Esatto, ma molto spesso non sappiamo sfruttare bene neanche quella… Una collezione bellissima non serve a niente se non ci si è strutturati per promuoverla al meglio, declinandola a seconda dei gusti locali. Sembra facile dire: vado a vendere in Cina. Ma quello è un mercato sì dal potenziale enorme, ma con caratteristiche e complessità diverse. Internazionalizzare vuol dire, innanzitutto, investire per capire quali sono le esigenze del mercato a livello globale. Per non parlare del mondo dell’online che sta stravolgendo la distribuzione a scapito dei classici negozi wholesale.

LE PASSIONI DI MENA MARANO

Qual è il futuro del retail allora? Il wholesale di una volta oggi è un player online. Il retail tradizionale ha senso solo nelle location primarie, altrimenti non funziona. E poi ci sono tanti altri canali da tenere sotto controllo, pensiamo per esempio al travel retail: dalla Stazione Centrale di Milano passano ogni 180 milioni di passeggeri, bisogna andare incontro a questi clienti potenziali. Clienti che magari prima hai contattato online, perché se oggi siamo sempre in viaggio vuol dire che siamo anche costantemente connessi. Viviamo, insomma, in una grande era di cambiamento dal punto di vista dell’approvvigionamento, della produzione e della distribuzione. Se vuoi fare impresa e competere con i colossi internazionali, bisogna avere le idee chiare sul tuo progetto. Ma questo vuol dire che viviamo in un’era di grandissime opportunità per chi saprà evolversi per intercettare i target potenziali attraverso i canali più efficaci: ormai puoi vendere qualunque cosa grazie al digitale. Vince chi non si ferma: non esiste la crisi, esiste il cambiamento. Secondo me, questa è la chiave di volta del futuro delle aziende.

Com’è andato il 2016? Non siete forse cresciuti come previsto, ma sembra che abbiate fronteggiato la crisi meglio di altri. Più o meno uguale al 2015, quando realizzammo 77,6 milioni di euro. In quattro stagioni, forse anche meno, puntiamo a far salire la quota di fatturato estero al 50% e porteremo avanti il nostro piano di investimenti internazionali in collaborazione con partner territoriali. Per quanto riguarda il retail, l’idea è quella di continuare con gli accordi che abbiamo in essere, mentre potenzieremo l’online con investimenti pubblicitari. Abbiamo subito pesantemente la svalutazione del dollaro, ma ora raccogliamo i benefici di quanto investito negli anni scorsi: chi puntava solo sulla comunicazione sta pagando, noi abbiamo affiancato al marketing un costante miglioramento della qualità dei prodotti.

Quanto è difficile fare impresa al Sud Italia? Fare impresa non è una questione geografica, così come il merito non è legato mai solo al sesso. Nel nostro territorio ci sono tante realtà imprenditoriali che stanno emergendo, come Alcott e Piazza Italia, entrambe campane. Penso che se sei bravo, hai idee chiare, ti impegni, ci metti l’anima e dai tutto te stesso, puoi avere successo in qualunque posto. Anzi, a volte la voglia di emergere e di farcela malgrado tutto può costituire una marcia in più. Certo, magari puoi avere dei costi in più in termini di infrastrutture – noi abbiamo dovuto portare l’elettricità nel nostro stabilimento – o per motivare dei collaboratori validi a spostarsi, ma non costituisce un ostacolo insormontabile.

Mi dica la verità, ma è vero che si ispira ad Anna Wintour? Come fa con il suo spirito napoletano ad avere qualcosa da spartire con l’algida direttrice di Vogue Usa? Non è vero (ride), forse lo dicono perché qualcuno mi considera un po’ troppo… esigente.