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Ripartire in bellezza

Può farlo un’azienda dopo una crisi profonda, vedi Unopiù, così come può riuscirci l’Italia che a livello internazionale impartisce lezioni su cosa significhino termini come qualità, creatività e buon gusto. A tracciare il percorso è il neo-a.d. del brand leader in Europa nel mercato outdoor living

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Avete presente quella scena de La grande bellezza di Paolo Sorrentino in cui Jep Gambardella – un magistrale Toni Servillo, plastica incarnazione dell’indolenza italica – è steso su un’iconica amaca, posta strategicamente su una terrazza romana che si staglia contro un tramonto da favola? Ebbene, quell’amaca da Oscar ha un nome e un cognome, si chiama Amanda ed è di Unopiù. L’azienda laziale (è a Soriano nel Cimino, in provincia di Viterbo), specializzata in arredi e strutture di outdoor living alto di gamma, fondata nel 1978 per offrire la sua produzione attraverso un apposito catalogo di vendita diretta e poi mediante una propria rete distributiva, è passata nel 2015, dopo una grave crisi, sotto il controllo del fondo Splendor Investiment Holdings, i cui soci (un mix di italiani, inglesi e arabi) hanno deciso di affidarne le sorti a Maurizio Motta, manager milanese con un passato industriale (Apple, Ibm, Compaq) e, più recentemente, nel retail (MediaWorld, dove ha lavorato per un ventennio, e Grancasa). La mission sarebbe quella di intervenire proprio a partire dai 26 negozi monomarca, per ridefinire tipologie di produzione, target, brand, comunicazione nonché fonti di ricavi. Un interessante esercizio di stile imprenditoriale e manageriale che in questa fase economica del nostro Paese sta accomunando la vita di molte aziende, prostrate dalla recessione e che provano a ripartire riappropriandosi di un’identità, in tutto o in parte, smarrita.

Motta, la sua avventura in Unopiù è iniziata da pochissimo: dallo scorso 1° febbraio. Come va l’ambientamento?Per me è una continua scoperta, anche se conoscevo già questo marchio da cliente grazie ad alcuni arredi ereditati dai miei genitori e che mi godo sui terrazzi della mia casa milanese. Persino spostarmi nella sede di Soriano nel Cimino, in provincia di Viterbo, non è stata una novità assoluta: venivo spesso qui in vacanza da ragazzo, a casa di un amico d’infanzia originario di un paese vicino, Bomarzo. È una bellissima zona dal punto di vista del paesaggio, ci si mangia bene ed è ideale per chi come me ama andare in moto (vedi box sulle passioni, ndr). Unopiù non è però solo Soriano, anzi è una azienda internazionale: abbiamo un ufficio a Milano e controllate in Francia, Spagna e Germania.

Non è facile arrivare, peraltro senza un background legato al design, in una realtà che esce da un concordato preventivo. Come è stato accolto? C’è curiosità da entrambe le parti. È vero, non conosco questo settore e loro hanno bisogno di capire le ragioni del mio arrivo, ma mi hanno accolto con simpatia e disponibilità. Ho trovato maestranze legate all’azienda e orgogliose della sua storia, che sono state un po’ bistrattate e hanno voglia di rivincita. A me tocca dimostrare che tutti noi, nuovi arrivati, ci crediamo quanto loro.

Infatti, è cambiato in gran parte il gruppo dirigente: è più complesso o più semplice ripartire da zero? È cambiato il management, che è di grande esperienza, ma credo che i punti di forza per la ripartenza siano, in realtà, quelli che abbiamo trovato già in azienda: ricerca& sviluppo, marketing, produzione, logistica. C’è qualche deficit, per esempio nel sistema It, ma Unopiù in quanto tale può rivelarsi una miniera d’oro. Basta togliere un po’ di patina a un marchio che, per vastità, qualità e profondità di gamma, non ha concorrenti, e che nell’arco di due-tre anni, con pochi aggiustamenti, può crescere del 25-30%: da lì partirà la vera sfida.

La sfida sarà improntata su un nuovo modello di business da luxury goods. Se tanto mi dà tanto, data la sua expertise prima industriale e poi nel retail, tutto passa attraverso un riposizionamento della distribuzione o sbaglio? Non sbaglia. La nostra azienda è nata con i cataloghi e si è sviluppata con i negozi, che erano un riferimento necessario per i clienti che volevano vedere e toccare i nostri arredi. Un modello che poi ha preso il sopravvento. Abbiamo 26 monomarca e ne stiamo aprendo degli altri: il 21 aprile inaugureremo quello di Genova e poco dopo quello di Roma, nella centralissima via Barberini, dove abbiamo rilevato le undici vetrine dello storico negozio Brioni. Questo nuovo store sostituisce l’altro che avevamo nel centro della capitale, ma che non era adeguato al nostro standard. A Roma abbiamo anche uno spazio a Parco Leonardo, verso Fiumicino, su due piani. Una presenza capillare nelle vie dello shopping è essenziale per vendere prodotti di lusso che, anche la persona più digitalmente avanzata, fatica a comprare solo online. Ciò non toglie che una fetta non trascurabile del nostro fatturato arriva dall’ecommerce: il sito di Unopiù è declinato in cinque lingue e permette di comprare da ogni parte del mondo. E poi c’è la fondamentale sfida del canale indiretto su cui punteremo moltissimo nei prossimi anni. Siamo strutturati per offrire ai partner spazi Unopiù di varie dimensioni, coerenti con la nostra immagine e il nostro mondo, dallo shop in shop al franchising: da qui la sfida del Salone del Mobile, a cui partecipiamo per dare un forte impulso al trade e al contract. Dimenticavo il nostro bel negozio di via Pontaccio a Milano, nel cuore di Brera: sarà la nostra vetrina, il quartier generale per il Fuorisalone.

Qual è l’obiettivo di fondo? Essere presenti nelle vie di maggior prestigio, ma con metrature non enormi, all’interno delle quali trovare personale competente, architetti in grado di aiutare il cliente e di illustrargli il catalogo. Ci siamo allontanati da questo modello durante la corsa alle periferie, ma “grande è bello” non è il modello adatto a noi. Non si comprano articoli come i nostri in zone di passaggio: abbiamo prodotti talmente particolari, studiati ad hoc e tailor made, che le persone hanno bisogno di entrare nel nostro mondo per apprezzarli. Per fare un esempio, la nostra pergola mobile con ruote Shibuya, la prima al mondo e nostro unico marchio registrato, è un articolo geniale, ma come si fa a comunicarne il valore a distanza? Il cliente va aiutato a comprendere la nostra filosofia.

LE PERSONE DEVONO COMPRENDERE

LA FILOSOFIA AZIENDALE

PER APPREZZARE L’UNICITÀ

DEI NOSTRI PRODOTTI

In breve, state in qualche modo applicando la lezione francese nel retail relativamente ai brand del fashion e del lusso… Bilanciare la rete diretta, fondamentale, e quella indiretta, altrettanto strategica, permette di coprire tutte le aree del mercato. E ciò è possibile perché in questo settore i margini sono ancora interessanti e la percezione qualitativa del prodotto è integra. E io so bene cosa significa, provenendo da un mercato, come l’elettronica di consumo, che ha buttato via un grande patrimonio in valore.

Dovete fare anche i conti con la concorrenza. Ormai marchi del design come Driade, B&B Italia piuttosto che Minotti si stanno cimentando nell’outdoor. I negozi potrebbero non essere sufficienti. E non lo sono, ma mi permetta anche di dire che noi siamo specialisti, con oltre 2 mila referenze in catalogo, che coniugano stili molto differenti tra loro, mentre gli altri si limitano a poche decine di articoli. Oltre alla distribuzione, intendiamo intervenire sulle linee di prodotto, andando a intercettare una clientela diversa, proponendo soluzioni di arredo pensate per i nuovi contesti abitativi, dove si registra – per nostra fortuna – una grande contaminazione tra outdoor e indoor. In più, ci stiamo già muovendo sul fronte della comunicazione, per rilanciare il brand sui quei canali – penso soprattutto al digitale – dove siamo stati quasi del tutto assenti. Abbiamo iniziato quest’anno col Salone del Mobile. Si tratta di continuare e insistere, in particolare sul fronte social.

La strada obbligata per i brand di alta gamma è l’internazionalizzazione. Lo sarà anche per voi? Lo è già: il mercato italiano pesa solo per il 35% nei nostri conti e l’estero dovrà crescere fortemente. Potenzieremo le nazioni dove siamo già presenti come Francia, Germania e Spagna e andremo in Paesi ancora inesplorati. Il primo obiettivo per il 2017 è Londra: il clima non aiuta, ma i britannici hanno una passione storica per i giardini e i nostri prodotti resistenti alle intemperie possono essere molto apprezzati. Sfrutteremo anche i contatti dei nostri azionisti per sbarcare nel Regno Unito, negli Stati Uniti – probabilmente a New York, di sicuro a Miami e poi in altre città – e negli Emirati Arabi Uniti. Dovremo aumentare i franchising e i distributori nei territori dove non siamo presenti, con angoli dedicati nei negozi e una comunicazione precisa. In particolare mi riferisco ai territori dove poter sfruttare la complementarietà della stagione, visto che i nostri prodotti si vendono soprattutto in estate: vedi gli Emirati, l’Australia, il Sudamerica e tutto l’emisfero Sud. Il rapporto 90-10 odierno, entro il 2020, deve diventare 50% di vendite dalla rete diretta, 40% dall’indiretta e 10% dall’ecommerce, che già oggi funziona bene con circa un milione di ricavi e verrà potenziato. Senza dimenticare i contract con luxury hotel e resort.

Un plus e un minus dell’azienda? Riparto dalla nostra storia, e quindi dal nostro catalogo che, in fondo, è un antesignano del commercio elettronico. Al suo apice quest’azienda distribuiva sei milioni di cataloghi, con un relativo database di indirizzi, mentre oggi è a un milione: non essere riusciti a intuire il passaggio all’ecommerce, perdendo questo prezioso patrimonio di contatti, è stato un errore marchiano. Un plus invece è senz’altro lo straordinario rapporto con i designer che ha saputo instaurare e mantenere. La nostra ricerca&sviluppo interna si occupa delle architetture più complesse e dell’allestimento dei negozi. Abbiamo poi rapporti continuativi con designer di fama internazionale come Paola Navone, Ferruccio Laviani, Marco Acerbis, Matteo Thun, Meneghello & Paolelli, Andreucci & Hoisl ecc… Ma vogliamo alzare ancora di più l’asticella, mettendoci alla prova per anticipare quello che saremo nei prossimi dieci anni. Lo faremo attraverso collaborazioni con enti e università. Qualche anno fa abbiamo chiesto ai ragazzi di quattro grandi scuole di design a livello internazionale di immaginare la casa e l’outdoor del futuro: fu molto interessante e riapriremo il discorso. Inoltre, abbiamo appena stretto un accordo con la Sapienza di Roma per supportarla in una ricerca per il recupero delle posidonie di Favignana, da riciclare come coperture e imbottiture di arredi da esterni. Un’altra idea è quella di creare partnership con aziende extra settore, per esempio tecnologiche per pensare prodotti innovativi o integrare quelli già esistenti. Come i distributori di essenza gestiti via smartphone, da installare sulle pergole.

Con un catalogo così ampio immagino abbiate dei best seller… Certamente e sono soprattutto quelli che non puntano sull’innovazione più spinta, ma si adattano alla tipologia di ambiente da arredare. Abbiamo diversi prodotti iconici, forse il più celebre è l’amaca Amanda, creata 28 anni fa, le cui vendite sono ulteriormente cresciute dopo essere apparsa in una scena cult de La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Ma ce ne sono molti altri come la pergola Solaire in ferro zincato, che richiama la tradizione provenzale, il classico lettino Leandro, da anni un riferimento per arredare le piscine in stile tradizionale, e le grandi linee contemporanee come Synthesis, una gamma che è stata la prima a contaminare con gusto materiali diversi come teak e fibra sintetica. Infine, il divano Les Arcs, realizzato dallo studio Meneghello-Paolelli, che ha ricevuto una menzione speciale del German Design Award nel 2013 e la novità Treble del 2015, che è candidata agli Edida 2016 (gli Oscar del design che si assegnano durante il Salone). I nostri prodotti, avendo un’eleganza molto scenografica, sono “co-protagonisti” di diverse produzioni. Saranno anche nella serie The Young Pope, sempre di Sorrentino, e nel prossimo film di Virzì. Siamo apparsi a nostra insaputa in molte altre pellicole, anche perché va considerato che siamo presenti in tantissimi alberghi di lusso. Tra gli ultimi arredati: il Bulgari Hotel di Londra, il nuovo Mandarin di Milano, il Gran Mélia di Roma, Le Meridien di Tahiti, il Bora Bora Pearl Beach ecc..

LE PASSIONI DI MAURIZIO MOTTA

Si è detto orgoglioso di Expo, orgoglioso di essere italiano e milanese. Mentre per lei il Salone del Mobile è il luogo dove l’Italia insegna qualità, creatività e buon gusto. Cosa impedisce al Paese di mostrare sempre il suo lato migliore? Expo è stato un successo al di là di ogni polemica, perché ha portato un mucchio di persone a Milano e ha ridato all’Italia un’immagine di prestigio. Non bisogna fermarsi, ma continuare a organizzare manifestazioni, difendere il Belpaese in ogni occasione, salvaguardare le nostre aziende investendo nei settori forti, come il design appunto. Il Salone del Mobile è fondamentale per noi, per Milano e per l’Italia e mi auguro che il Fuorisalone lavori altrettanto bene. Noi saremo presenti per la seconda volta dopo l’esordio nel 2012, e vi porteremo i nostri best seller più alcune interessanti novità. Prima forse eravamo presuntuosi, credevamo nella nostra forza e non pensavamo di aver bisogno del canale di vendita indiretto. La partecipazione di quest’anno va nell’ottica di tornare a farci vedere, allacciare contatti con rivenditori e rappresentamti in tutto il mondo grazie all’internazionalità dell’evento.

Che Unopiù le piacerebbe portare al Salone 2017? Vorrei fosse un’azienda più bilanciata in termini di presenza sul mercato, ma soprattutto più visibile e pronta a sfornare prodotti interessanti per clienti più giovani. Per dirla con una sola parola, vorrei che fossimo più “moderni” in senso generale: come infrastrutture, distribuzione, posizionamento e prodotti.

VOGLIAMO PROPORRE SOLUZIONI DI ARREDO

PER I NUOVI CONTESTI ABITATIVI

DOVE C’È CONTAMINAZIONE

TRA OUTDOOR E INDOOR

Le occorrerà un grande gioco di squadra. Ho visto che ha postato online una foto con alcuni suoi ex colleghi di MediaWorld e una frase di José Mourinho: «Non siamo i migliori al mondo, ma penso che nessuno sia migliore di noi». Quanto conta, per lei, la squadra e fare in modo che creda in ciò che fate? Quello scatto risale al 2011, al Ces di Las Vegas. Dato che eravamo tutti interisti – a parte uno – avevamo scelto questa frase come nostro slogan (ride). Il gioco di squadra è tutto e lo si crea solo credendo in quello che si fa. In Unopiù ho provato a far passare questo concetto attraverso spezzoni di film come Ogni maledetta domenica o Americani. Perché un buon a.d. deve saper trasmettere entusiasmo, deve tirare fuori il meglio dalle persone come lo Special One. La sua citazione che preferisco è: «La mia squadra è la migliore del mondo, ma anche la squadra che allenavo cinque anni fa era la migliore del mondo». Il lavoro dell’a.d. è far sì che l’obiettivo di ognuno sia l’obiettivo dell’azienda.

A proposito di a.d., ho visto che ha commentato divertito un tweet di un manager di lungo corso come Franco Moscetti, in cui sostiene che «l’azionista deve saper scegliere tra amministratore delegato, indossatore delegato e amministratore dileguato». Mi spiega cosa intendeva dire? Nel primo caso, quello dell’a.d. (ride), l’azionista mette i suoi soldi in un’azienda pensando di poter avere un ritorno economico, perciò sceglie la persona che ritiene più adatta a cui affidare il suo investimento, dandogli un arco di tempo per raggiungere degli obiettivi. Capita a volte invece che l’azionista, scegliendo un “indossatore delegato”, punti su un manager di facciata, un nome, che lo aiuti solo a influenzare il mondo finanziario. Mentre l’“amministratore dileguato” è il manager fantasma nella migliore delle ipotesi, nella peggiore è l’a.d. che gestisce l’azienda pro domo sua. Queste due ultime figure sono ruoli che non mi appartengono e che trovo eticamente esecrabili, ma che purtroppo circolano in gran quantità anche ai vertici di società molto importanti (ride).

Sempre online ho notato che posta aforismi di personalità celebri come Eleanor Roosevelt o Alda Merini, ma anche Morpheus di Matrix. Tra i tanti, anche uno di Pietro Ingrao: «Se parliamo di fare il possibile, sono capaci tutti. Il compito della politica è pensare l’impossibile. Solo se pensi l’impossibile, hai la misura di quello che puoi cambiare». Cosa le piace di quella frase? Innanzitutto a me piace Ingrao come persona e come pensatore, ho letto diversi suoi libri e ne apprezzo la coerenza: per me quella frase è il manifesto, l’essenza del fare politica con la P maiuscola. Peraltro ho sempre seguito la politica, anche internazionale, è una mia passione e questo lo devo alla mia famiglia.

Quello di cercare l’impossibile, o quantomeno di immaginarlo, non è o non dovrebbe anche essere un esercizio dell’imprenditore e del manager? Assolutamente sì, la politica è vicinissima al lavoro del manager. La ricerca dell’impossibile è alla base del ruolo dell’amministratore delegato, che deve fondamentalmente far capire e far intravedere agli altri non quello che c’è, ma quello che non c’è ancora, ma che ci potrà essere nell’immediato futuro solo se… È proprio questo che stiamo cercando di fare in Unopiù.

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Maurizio Motta, 58 anni, è entrato in carica come a.d. di Unopiù il 1° febbraio scorso. Milanese, laureato in Ingegneria al Politecnico, in precedenza è stato ai vertici di MediaWorld (per 20 anni) e Grancasa, dopo le esperienze in Apple, Compaq e Ibm