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Talenti di famiglia

Luigi Campiglio va controcorrente: i grandi geni emergono nel rapporto con i genitori. «Mozart, Einstein, Sampras e Valentino Rossi non ci sarebbero mai stati senza i loro padri». E la mobilità sociale? «Deve partire dalle università». Di chi è la colpa della società a caste? Risponde il prorettore della Cattolica

Mi manda papà, era il titolo di un articolo pubblicato qualche settimana fa dal sito lavoce.info, Bibbia del pensiero economico classico che ha i suoi campioni in personalità come Francesco Giavazzi (editorialista principe del Corriere della Sera) e Tito Boeri (fratello dell’architetto che si è candidato, senza fortuna, alle primarie del Pd per il ruolo di sindaco di Milano). Il saggio sosteneva che la mobilità sociale in Italia è una delle più basse in Europa. Letteralmente: «I risultati ottenuti dai figli tendono a riflettere quelli ottenuti dai loro padri, che si guardi al reddito, al livello di istruzione, o addirittura al tipo di lavoro svolto. Il Italia il 44% degli architetti ha un figlio laureato in architettura, il 42% dei laureati in giurisprudenza ha un figlio con il medesimo titolo di studio. Dati simili si riscontrano per i farmacisti (41%), per gli ingegneri e i medici (39%), per i laureati in economia (28%)». Insomma, in Italia si fa tutto in famiglia: chi ha la fortuna di avere il padre (o la madre) giusto, ha l’avvenire quasi assicurato; chi non ce l’ha è in situazione di assoluto svantaggio. E questo dà vita a una società chiusa, che tende a perpetuare se stessa, a cooptare, a non selezionare in base al merito. La mancanza di mobilità è un handicap per l’Italia.È davvero, in assoluto, così? Business People ne ha parlato con Luigi Campiglio, prorettore dell’Università Cattolica di Milano, ordinario di politica economica, con alle spalle una lunga esperienza vissuta proprio nel modello anglosassone (patria teorica della mobilità sociale) essendo stato visiting fellow nel campus di Stanford, California, uno dei luoghi di eccellenza del sistema universitario americano.

Ma davvero la situazione della mobilità sociale in Italia (o della immobilità) è così diversa da quella degli altri Paesi con i quali ci confrontiamo?È diversa, ma non agli antipodi. Anzi. Gli studi più recenti dimostrano che per esempio negli Stati Uniti la situazione è molto vicina a quella italiana. Chi nasce in una famiglia ad alto reddito ha grandi probabilità di rimanere su quei livelli, a meno che si dimostri un incapace. Poi se ha anche delle qualità personali, allora potrà migliorare. In America, però, c’è un sistema educativo e finanziario che dà anche a chi proviene da famiglie modeste la possibilità di affermarsi, purché abbia un’idea e la tenacia per sostenerla.

Ecco, invece da noi queste possibilità non ci sono, queste finestre non si aprono. Tutto sembra legato a papà. Non è un elemento negativo? Un fatto che ingessa, immobilizza la società?L’economista inglese Alfred Marshall diceva che i figli, crescendo, respirano l’aria che c’è intorno a loro. Assorbono come spugne, soprattutto nella prima infanzia e fino ai dieci anni. Si nutrono delle capacità dei genitori, della loro cultura, delle loro qualità. Insomma, la famiglia trasmette i suoi valori da una generazione all’altra.

Quindi non è sempre, necessariamente, un male essere figli di papà?Ma no. La storia è piena di esempi virtuosi in materia. Il padre di Wolfgang Amadeus Mozart, Leopoldo, era un compositore e un violinista. Ha messo suo figlio a studiare musica in età giovanissima e lo ha tiranneggiato. Ecco l’esempio di un padre che ha trasmesso al figlio la sua cultura, la sua passione. E il risultato è stato Mozart, uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi. Vuole un altro esempio?

Prego. Chi ha in mente?Valentino Rossi. È diventato un campione sulle due ruote, il numero uno di tutti i tempi (credo), perché era un pilota anche suo padre Graziano. Da piccolissimo Rossi ha vissuto, con lui, l’amore per la velocità, la passione per la gara. La famiglia Rossi, il padre, ha saputo trasmettere al figlio il suo tratto, il suo marchio, le sue capacità, le sue motivazioni. C’è un periodo, una finestra temporale, nel quale i bambini assorbono davvero tutto e quello che viene appreso in quegli anni dura per tutta la vita.

Anche se, come nel caso di Mozart, vengono tiranneggiati?Gli esempi sono tantissimi. Mi viene in mente il tennista americano Pete Sampras: il padre, tennista anche lui, lo obbligava a stare ore sul campo a imparare a rispondere ai servizi. E ha imparato così bene che in tutta la sua carriera pochissimi sono riusciti a piazzargli un ace.

Si però non tutti hanno genitori musicisti, piloti, tennisti.D’accordo. La fortuna che fa nascere una persona nella famiglia giusta è un elemento decisivo, non ci sono dubbi. Però non conta soltanto la famiglia. Un bambino può essere colpito da persone che incontra o che vede e che suscitano in lui ammirazione, che diventano ai suoi occhi un modello da imitare. Nelle università, per esempio qui alla Cattolica, quando devo fare delle selezioni, chiedo sempre ai giovani: «Qual è la persona che ti ha indirizzato nella vita?»

E ottiene risposte interessanti?Si, soprattutto dalle ragazze: le più brave, le migliori dei corsi, immancabilmente rispondono che sono state influenzate dall’esempio del padre. Nel senso che vogliono essere all’altezza delle aspettative che – a loro avviso – i genitori si sono creati.

Ahi! Ci risiamo: riecco il paparino.Ma guardi che è un fatto naturale. I cosiddetti figli d’arte, soprattutto nel campo delle professioni, esistono da sempre e ovunque. Il nucleo centrale della nostra società è rappresentato dalla famiglia. E questo è un bene, è un patrimonio. Noi dobbiamo garantire la continuità nella trasmissione della cultura e dei valori fra generazioni. Vuole un altro esempio ancora?

Naturalmente. Di chi parla questa volta?Di Albert Einstein. Suo padre non era uno scienziato, ma un semplice impiegato. Quindi Einstein non si è avvantaggiato dell’aria che respirava a casa sua dal punto di vista culturale. Però Einstein senior, un Natale, ha regalato al figlio che aveva quattro-cinque anni, una bussola. E il bambino è rimasto affascinato da quell’oggetto così strano, con un ago che puntava sempre verso Nord. Lo portava a letto con sé, lo metteva sotto il cuscino. Ecco, io credo che la teoria della relatività sia dovuta in parte anche a quel dono natalizio, a quella bussola. Se il regalo fosse stato, che so, una pistola, non avrebbe stimolato quella curiosità quell’interesse, quel fascino. Quindi il padre, in questo caso, non ha trasmesso un know how specifico che non possedeva, ma un atteggiamento, un comportamento, un valore. E il giovane Einstein lo ha assorbito.

Dunque non è essenziale per un architetto nascere in una famiglia di architetti, eccetera. Einstein è diventato Einstein pur provenendo dalla famiglia di un impiegato, in fondo modesta.Esatto. La famiglia, come dicevo, è essenziale per tramandare la cultura, il sapere. Ma è importante che un padre e una madre trasmettano ai figli anche altri valori come la sicurezza di sè, la tenacia. Che sono due qualità straordinarie per qualsiasi tipo di professione si voglia intraprendere. Se, per esempio, un operaio ha queste doti e con il suo comportamento quotidiano riesce a trasmetterle al figlio, allora questo giovane potrà comunque fare carriera, avere successo nelle professioni se le circostanze lo favoriranno. Perché non illudiamoci mai: la vita, in gran parte, dipende dalle occasioni, dal caso, dalla fortuna.

D’accordo: la famiglia, il patrimonio culturale che si trasmette di generazione in generazione e poi il caso, la fortuna. Ma la mobilità sociale dovrebbe essere garantita anche da qualcosa di diverso, accessibile a tutti. Penso, ovviamente, alla scuola. Non è così?Sicuramente. La scuola ha un ruolo decisivo per favorire la mobilità sociale.

Ma in Italia non sembra assolvere in pieno questo suo ruolo. Oggettivamente mi sembra che negli Stati Uniti, per esempio, la situazione sia molto diversa sotto questo punto di vista.Sicuramente stiamo parlando di due situazioni lontanissime fra loro. Io conosco soprattutto Palo Alto, Stanford, il mondo universitario californiano. Non c’è dubbio che lì si respiri un’aria che invoglia all’innovazione continua. Basti pensare che proprio lì, nel raggio di pochi chilometri, sono nati e hanno la loro sede Facebook, Google e Apple. I fondatori di queste società che hanno trasformato e stanno trasformando il mondo, il nostro modo di vivere, non venivano da famiglie importanti; i loro padri non erano avvocati, imprenditori, professori: erano tutti membri della cosiddetta middle class, alcuni anche di recente immigrazione.

Quindi lì il “mi manda papà” non c’è stato. Mark Zuckerberg (Facebook), Larry Page e Sergey Brin (Google), e Steve Jobs (Apple) hanno fatto tutto da soli. O no?Hanno fatto tutto da soli, ma fino a un certo punto. Hanno avuto due aiuti decisivi. Il primo: l’aria che hanno respirato nel territorio dove vivevano, dove sono cresciuti. Immagini che cosa può essere, per un giovane, vivere in un ambiente popolato da talenti come loro, respirare quell’aria intrisa di voglia di fare, di innovare, di provare se stessi, di rischiare. L’altro aiuto lo hanno avuto dal sistema economico-finanziario americano. In Usa la finanza concede credito ai giovani che hanno un’idea e dimostrano di possedere anche le doti caratteriali e personali per riuscire a trasformarla, a farla diventare un’azienda. E non stiamo parlando di milioni di dollari. Se uno si va a leggere le loro biografie, scopre che i fenomeni Google o Facebook sono partiti con investimenti minimi, attorno alle centinaia di migliaia di dollari.

Quindi in Italia abbiamo le famiglie, con le loro tradizioni culturali e di valori, che dobbiamo tenerci care…Assolutamente: sono parte del nostro patrimonio storico. E non sono un impedimento alla mobilità sociale.

Allo stesso tempo, però, siamo senza quegli ambienti universitari, quei distretti di eccellenza che sono come degli incubatori di idee originali, vincenti. È così?Se si vuole sintetizzare è così. Dobbiamo tenerci caro quello che abbiamo. Ma dovremmo fare qualche sforzo anche per avere un po’ di quell’altro elemento di cui abbiamo parlato.

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Luigi Campiglio è prorettore dell’Università Cattolica di Milano