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Welfare aziendale: dimenticate Adriano Olivetti

Non esiste più il modello del grande imprenditore che distribuisce benefit da buon padre di famiglia. Oggi anche le pmi devono trovare una strada per offrire ai dipendenti quel benessere necessario al successo dell’azienda. L’esperto Luca Pesenti spiega perché

È possibile raccogliere l’eredità umana e imprenditoriale di Adriano Olivetti e al contempo “dimenticare” la figura dell’Ingegnere? Secondo Luca Pesenti, sì. Quarantotto anni, docente di Sistemi di welfare comparati e Soggetti, strumenti e regole del welfare all’Università Cattolica di Milano, il sociologo Pesenti ricorre a un espediente retorico volutamente forzato per accendere i riflettori su un argomento ancora troppo sconosciuto alla maggioranza delle pmi italiane: il welfare aziendale. «L’Ingegnere ci era arrivato molto prima di tutti gli altri: il benessere dei lavoratori non è un accessorio per la vita dell’impresa, ma elemento imprescindibile per tenere in buona forma il clima aziendale. Così i lavoratori sono più contenti e l’azienda produce meglio e di più». Sono le parole con cui il docente inizia il suo ultimo libro Il welfare in azienda. Imprese smart e benessere dei lavoratori (ed. Vita e Pensiero), considerazioni che lo spingono a chiedersi: «Ma allora perché dobbiamo dimenticare Olivetti?».

Professore, ce lo dica lei: perché dobbiamo dimenticarlo? L’invito è un gancio comunicativo per veicolare un messaggio. Non dobbiamo dimenticare Olivetti per quello che ha fatto, la sua memoria storica è fondamentale: come imprenditore è stato un avanguardista facendo della sua azienda un luogo dove i dipendenti fossero trattati come persone e non come numeri. Dobbiamo però dimenticare il “metodo Olivetti”, perché le evidenze empiriche dimostrano che oggi non esiste quasi più il modello del grande imprenditore illuminato, che distribuisce benefici ai lavoratori come un buon padre di famiglia. Oggi siamo in una fase nuova, nella quale il welfare aziendale serve alle strategie manageriali delle risorse umane, perché migliora il clima, le relazioni tra dipendenti e con i sindacati, aumenta l’attrattività del posto di lavoro e la produttività. Un buon piano di welfare è un elemento aggiuntivo alla retribuzione mensile, che può fare la differenza nella comparazione con altri posti.

Di che tipo di benefit stiamo parlando? Storicamente, anche grazie a una normativa fiscale favorevole, dei servizi legati alla prima infanzia, come l’asilo aziendale; più in generale, di quelli legati all’education, come i rimborsi spese per i libri di testo. Negli ultimi due anni però le Leggi di Stabilità hanno allargato il perimetro, per cui oggi si possono ottenere benefici fiscali anche per servizi legati alla conciliazione famiglia-lavoro (rimborso spese baby sitter, badante, maggiordomo aziendale…), senza dimenticare l’ambito delle assicurazioni sanitarie e pensionistiche integrative. I piani di welfare aziendale si stanno spostando verso il benessere ampiamente inteso, comprendendo anche convenzioni con palestre, agenzie di viaggio, shopping e altro ancora.

Parliamo del suo libro. Perché c’era bisogno di un testo del genere? Perché la cultura del welfare aziendale in Italia è ancora molto scarsa. Nelle pmi spesso non si conosce nemmeno questa possibilità, oppure non se ne intravedono i benefici. Il problema non riguarda solo gli imprenditori ma anche i lavoratori, che fanno fatica a fidarsi del fatto che sia conveniente trasformare una parte del proprio reddito in benefit. Inoltre, non è ancora abbastanza chiaro come il welfare rappresenti una grande opportunità per i soggetti del Terzo Settore, che hanno bisogno di nuove fonti di finanziamento alternative a quelle degli enti pubblici, sempre più risicate. Insomma, siamo di fronte a una grande sfida di sistema.

Quali sono le sue proposte? Ne ho formulate tre. La prima riguarda le pmi che, non avendo strutture e risorse adeguate per avviare propri piani di welfare, si possono rivolgere alle piattaforme di beni e servizi oggi a disposizione, a partire da quelle delle organizzazioni datoriali. In secondo luogo, credo che le imprese abbiano uno strumento chiave da sfruttare, il contratto di rete, grazie al quale possono avviare progetti di welfare insieme ad altri partner più grandi. Casi come la Rete Giunca di Tradate (Va) oppure la bresciana Welstep dimostrano come sia possibile unire piccole e grandi imprese nei piani di welfare. Infine, per quelle aziende che non hanno rappresentanza sindacale, da luglio 2016 è possibile usufruire dell’accordo dei sindacati con Confindustria per accedere a un contratto aziendale territoriale nel quale trasformare il premio di risultato in benefit.

Alcuni lavoratori però sono restii a rinunciare ai soldi in busta. Certamente. Per questo occorre essere trasparenti, mostrare i benefici ma anche le proposte per bilanciare quel che i lavoratori perdono, perché, ad esempio, l’azienda sulla quota di premio di produttività o stipendio “welfarizzata” non versa i contributi previdenziali e non accantona il Tfr. Va fatta un’operazione di informazione capillare e, in alcuni casi – penso a Edison – l’azienda può provare a convincere i lavoratori mettendo sul piatto risorse aggiuntive. Anche su questo il ruolo dei sindacati può essere importante, ma devono decidere di scommettere su questi strumenti abbandonando le reticenze che ancora caratterizzano alcuni settori.

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«Io penso la fabbrica per l'uomo, non l'uomo per la fabbrica» è una delle citazioni più famose di Adriano Olivetti, qui ritratto in mezzo ai suoi dipendenti