Connettiti con noi

Attualità

Insieme a te non ci sto più

Non solo Fiat: sono anche molte pmi e alcune multinazionali a non credere più in una delle più grandi e (fino a poco tempo fa) più autorevoli associazioni industriali a livello mondiale. Ecco perché: la crisi di rappresentatività in Confindustria vista dagli imprenditori italiani

architecture-alternativo

Fino al 2009 Enrico Bracalente, presidente di Nero Giardini, gruppo calzaturiero marchigiano con un giro d’affari di circa 230 milioni di euro nel 2011, era un attivista di Confindustria molto impegnato nella sezione territoriale della sua zona, la provincia di Fermo. Ma, negli ultimi due anni e mezzo, qualcosa è cambiato: dopo averci pensato a lungo, nell’ottobre scorso ha deciso di uscire dalla massima organizzazione rappresentativa degli imprenditori italiani. E lo ha fatto sbattendo la porta, «perché», dice, «Confindustria non rappresenta più in maniera adeguata le nostre istanze e i nostri interessi». Bracalente è uno che non le manda a dire e negli ultimi mesi non ha lesinato critiche al vetriolo nei confronti dei vertici dell’associazione di viale dell’Astronomia, compresa l’attuale presidente Emma Marcegaglia che, a detta sua, «si occupa troppo spesso di politica e ben poco dei problemi reali delle aziende, soprattutto di quelle di piccola e media dimensione».

Defezioni a catena. Il fondatore di Nero Giardini non rappresenta una voce isolata. Il caso di Sergio Marchionne, che ha deciso di portare fuori da Confindustria il gruppo Fiat, contestando le basi della contrattazione collettiva italiana, ha riempito le pagine dei giornali. Ma, a ben guardare, dalle Alpi alla Sicilia, le aziende che negli ultimi mesi hanno abbandonato (o sono arrivate sul punto di abbandonare) l’associazione sono davvero tante. In Lombardia, ad esempio, sono uscite le Cartiere Pigna, guidate dal deputato del Pdl Giorgio Jannone, seguite a stretto giro dal gruppo siderurgico bergamasco Bodega. In Toscana, si sono mosse nella stessa direzione aziende pratesi del tessile come la Santo Stefano di Renato Cecchi, la Fidias di Marino Gramigni e la Eurotintoria di Carlo Mencaroni. In Veneto c’è stata la defezione di Alessandro Riello, che negli anni ‘90 è stato presidente dei giovani industriali e oggi guida il Gruppo Aermec, noto produttore di condizionatori d’aria. Persino in Puglia si registrano delle fuoriuscite, con l’abbandono di Assobalneari Salento, organizzazione rappresentativa di decine di imprenditori turistici della provincia di Lecce.

Piccole contro grandi. L’esercito dei fuoriusciti da Confindustria annovera molte pmi, che rivolgono all’associazione soprattutto l’accusa di essere troppo concentrata sugli interessi dei grandi gruppi a scapito delle società di dimensioni minori. La pensa così, ad esempio, Luca Monaldi presidente di una delle più importanti realtà industriali delle Marche, la Fratelli Monaldi di Fermo, attiva nel settore agrolimentare, che fattura circa 100 milioni di euro all’anno, ha oltre 700 dipendenti e possiede alcuni stabilimenti produttivi anche nell’Est Europa. «Confindustria ha perso progressivamente i suoi connotati originari», dice Monadi (che ha abbandonato l’associazione nell’ottobre scorso), «e si è ormai trasformata in un’istituzione gestita da pochi soggetti, nell’interesse di una ristretta cerchia di aziende».

Multinazionali a disagio. Trovare una mediazione tra gli interessi dei grandi gruppi nazionali (o multinazionali) e le istanze delle pmi sembra essere proprio la maggiore difficoltà che attanaglia i vertici di viale dell’Astronomia, e che ha causato una progressiva perdita di rappresentanza dell’associazione. Negli ultimi anni anche alcune multinazionali straniere hanno mostrato qualche disagio, seppur per motivi opposti rispetto a quelli delle piccole aziende. È il caso del colosso informatico statunitense Ibm, che nel 2010 ha abbandonato Assinform, associazione federata a Confindustria e rappresentativa delle società del comparto Ict. «Siamo usciti da questa organizzazione senza alcuna polemica nei confronti dei vertici nazionali», precisa però Nicola Ciniero, ad di Ibm Italia. Pur avendo lasciato Assinform, il gruppo statunitense ha infatti promosso la nascita di Confindustria Digitale: nuova federazione che, oltre a Ibm, vede tra i propri iscritti anche grandi aziende delle telecomunicazioni, dell’elettronica di consumo o del mondo di Internet. «Dentro a questa nuova realtà ci sentiamo più a nostro agio», aggiunge Ciniero, «perché Assinform era diventata ormai un coacervo di interessi eterogenei, spesso inconciliabili tra di loro e incompatibili con quelli di una multinazionale». A una grande corporation come Ibm, le iniziative di Assinform cominciavano ad andare strette: i programmi per la promozione del made in Italy all’estero o per facilitare l’accesso al credito delle imprese interessavano ben poco a Ciniero, visto che la sua azienda è già presente in tutti i continenti e gestisce le proprie risorse finanziarie su scala globale. A detta dell’a.d. di Ibm Italia, un’associazione di categoria dovrebbe fare altro, ad esempio avviare un dialogo con le istituzioni, per diffondere su scala nazionale le tecnologie digitali, come è già avvenuto in altri Paesi.

I giganti del “para-stato”. La divergenza di vedute tra grandi e piccole imprese non è però l’unico tallone di Achille di Confindustria. Molti problemi di rappresentatività sono legati anche all’assetto proprietario delle associate: tra gli iscritti, ci sono nomi considerati ormai un po’ troppo ingombranti. Si tratta dei “giganti del para-stato”, cioè le aziende ancora controllate o partecipate dal Tesoro, come Enel, Eni, Finmeccanica o Poste Italiane: tutte realtà industriali di prim’ordine, che hanno in buona parte assorbito le logiche del mercato e della concorrenza ma che, a detta di molti imprenditori, sono portatrici di interessi incompatibili con quelli di molti altri associati. La pensa così Franco Moscetti, ad del gruppo Amplifon, leader mondiale nella produzione di apparecchi acustici presente in 14 paesi, con circa 9 mila dipendenti. Moscetti ha portato la sua azienda fuori da Confindustria nel 2009, anticipando le critiche attuali. «Ce ne siamo andati senza polemiche», dice in tono pacato, «ma convinti di aver fatto la scelta giusta». Moscetti ha maturato la sua decisione dopo la nomina alla guida di Assolombarda (l’Associazione degli industriali della Lombardia) di Alberto Meomartini, allora presidente di Snam Rete Gas e oggi ai vertici di Saipem. «È una persona che stimo molto», dice Moscetti, che sottolinea però una particolarità di questa elezione: il numero uno degli industriali lombardi ha come azionista di riferimento della propria azienda il governo italiano. E allora, per l’ad di Amplifon, sorge spontaneo chiedersi: in che modo gli imprenditori possono portare avanti alcune battaglie politiche, come quella per la riduzione o l’abolizione dell’Irap, quando a rappresentarli c’è un manager che dipende professionalmente da un soggetto pubblico? È inevitabile qualche imbarazzo, che pone non pochi problemi di rappresentanza per Confindustria. La fuoriuscita di Moscetti è però maturata anche per altri motivi, simili a quelli di Ibm. Amplifon si è infatti accorta che l’iscrizione non le portava valore aggiunto, poiché l’associazione era ormai polarizzata su due fronti. Da una parte, le pmi, che hanno bisogno di servizi per crescere ed espandersi sui mercati esteri, dall’altra i grandi gruppi, che concentrano le proprie attenzioni su temi e strategie di politica economica nazionale. In questo coacervo di interessi, le istanze delle medie aziende come Amplifon finiscono per non essere adeguatamente rappresentate.

I professionisti dell’associazionismo. C’è poi un’altra accusa, forse la più grave, che molti imprenditori rivolgono a Confindustria: quella di essere diventata una struttura burocratica e quasi elefantiaca, con le sue 100 organizzazioni territoriali sparse su tutta la Penisola e con altrettante federazioni rappresentative di singoli settori. In questo contesto, a detta di molti imprenditori, si è creata una classe di professionisti dell’associazionismo, ben lontani dai problemi reali delle aziende. «Confindustria è diventata autoreferenziale», denuncia Monaldi. «La presidente Marcegaglia ha detto più volte che oltre l’85% degli associati all’organizzazione è rappresentato da imprese con meno di 50 addetti», aggiunge Bracalente, «e allora mi chiedo: quanto contano realmente queste piccole imprese negli organi direttivi nazionali di Confindustria?». La risposta, per il fondatore di Nero Giardini, è pressoché scontata: «poco o niente».

TRA SOCI MOROSI E FANTASMA

Chiunque succederà a Emma Marcegaglia alla guida di Confindustria non potrà non affrontare le esigenze di rinnovamento di un’associazione che, oltre alle defezioni, mostra altri sintomi tali da indurre a parlare di emergenza, come ha fatto anche L’Espresso in ottobre (articolo Poteri deboli di S. Livadiotti), quando ha messo in luce come centinaia di piccoli e medi imprenditori abbiano smesso di pagare i contributi, indispensabili per una struttura che costa più di 580 milioni l’anno. Tanto per dare un’idea, risulterebbe che il tasso di morosità sfiori il 45% in un’associazione territoriale tra le 15 più importanti del sistema e che in un’altra, ancor più rilevante in termini di voti, lo stock del credito verso gli associati abbia toccato il 70% del bilancio annuale. Per non parlare della quota iscritti, ufficialmente 148.952, ma, secondo fonti interne, ben più contenuta, visto che le aziende aderenti sia ad un’associazione territoriale sia a una di categoria vengono conteggiate due volte e che molte di quelle ormai fallite non sarebbero state cancellate: significherebbe 25 mila imprese in meno sul primo fronte e un altro -10% sul secondo. Non importa chi sarà il prossimo presidente, meno politica e più servizi è la richiesta con cui dovrà fare i conti. (c.l.)

Credits Images:

Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria