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Attualità

Quel che resta di Expo

All’indomani dell’Esposizione universale, Milano e il resto d’Italia s’interrogano sulle ricadute che la manifestazione ha prodotto e produrrà sul Paese. E sulle possibili destinazioni dell’ampia area che l’ha ospitata

Tra Milano e Rho, nei padiglioni che hanno appena ospitato l’Expo 2015, presto la folla di visitatori sarà diventata soltanto un ricordo. Sull’esposizione milanese cala il sipario con grande successo di pubblico e ora si aprono alcuni importanti interrogativi. Cosa lascia in eredità agli italiani Expo 2015? Quali effetti ha avuto e quali avrà sull’economia del nostro Paese? Tra i primi a fare i conti è stata la società di consulenza e ricerca economica Prometeia che, nel giugno scorso, ha stimato un aumento del pil per una quota aggiuntiva dello 0,2%, proprio grazie agli investimenti e ai consumi generati dall’esposizione universale. A prima vista sembra una percentuale modesta ma, in un’Italia destinata a crescere nel 2015 soltanto dello 0,7%, anche arrivare a un incremento del pil dello 0,9% appare un traguardo non trascurabile. Certo, per raggiungere questi risultati sono stati spesi tanti soldi: più di 2 miliardi di euro solo per il sito espositivo, cui si aggiunge la montagna di risorse impiegate per le infrastrutture connesse all’evento (vedi tabelle). Dato che “i giochi sono fatti”, però, ora non sembrano più molto attuali le critiche alla manifestazione sollevate in passato da alcuni autorevoli osservatori come Roberto Perotti, economista della Bocconi e autore del pamphlet: Perché l’Expo è un grande errore. Ciò che realmente conta, da qui in poi, è far fruttare al meglio gli investimenti eseguiti e le energie imprenditoriali spese fino al 31 ottobre 2015, per la piena riuscita dell’evento.

PREOCCUPAZIONI LECITELa questione più importante all’ordine del giorno è, senza dubbio, la destinazione da dare al sito espositivo, che si estende su un’area di 105 ettari. Guardando all’esperienza passata, ci sono purtroppo motivi per essere preoccupati. Anche per le precedenti esposizioni universali, infatti, i terreni che hanno ospitato la manifestazione sono finiti in alcuni casi nel degrado, con le autorità pubbliche alla caccia disperata di idee (e soldi) per recuperare le aree. Il peggio che potrebbe capitare è, forse, una replica di quanto accaduto sull’isola di Cartuja, dove si è tenuto l’Expo di Siviglia del 1992. A distanza di 23 anni, ci sono ancora delle parti consistenti di quel sito abbandonate a se stesse, con strutture fatiscenti e difficilmente recuperabili. Accadrà la stessa cosa a Milano? Non la pensa così Luca Beltrami Gadola, esponente di una nota dinastia d’imprenditori attivi nel settore dell’edilizia fino al 2005 e docente alla facoltà di Architettura del Politecnico. «Non credo che si ripeterà una nuova Siviglia ‘92», dice, «perché il sito di Expo 2015 ha già attirato su di sé molte attenzioni e si trova al centro di un territorio ricco di risorse economiche e pieno di energie imprenditoriali». L’ex costruttore milanese paventa comunque il rischio che la fase successiva alla manifestazione non venga gestita proprio come dovrebbe, tra litigi all’italiana, contrapposizioni tra interessi diversi e scarso coordinamento tra gli enti pubblici coinvolti, come è già avvenuto nella fase preparatoria di Expo, tra il 2007 e il 2015. «Purtroppo, nei mesi scorsi, si è già vista qualche brutta avvisaglia», dice ancora Beltrami Gadola, riferendosi a quanto è avvenuto alla fine di settembre. La società Arexpo, proprietaria dei terreni dove si è svolta l’esposizione universale, partecipata dalla Regione Lombardia e dal Comune di Milano, ha revocato infatti l’incarico ai due advisor (il gruppo immobiliare Arcotecnica e la società di ingegneria F&M) nominati appena dieci giorni prima per studiare delle soluzioni nell’utilizzo del sito di Milano-Rho. Una decisione un po’ a sorpresa, che potrebbe essere già il sintomo di una strategia ondivaga e poco chiara da parte delle autorità pubbliche incaricate di disegnare gli scenari del dopo-Expo. Volendo dare una lettura più ottimistica, invece, la revoca dell’incarico agli advisor può considerarsi come un passaggio necessario in vista dell’ingresso nel capitale di Arexpo anche del governo, al fianco degli enti locali, su invito del presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, e del sindaco di Milano Giuliano Pisapia, due uomini politici di diversa estrazione ma concordi nel voler coinvolgere l’esecutivo guidato da Matteo Renzi. «L’ingresso del governo in Arexpo», ha sostenuto Maroni, «è un passaggio fondamentale per trasformare questa società, che oggi è un’impresa di gestione immobiliare, in una nuova realtà che dovrà realizzare progetti, opere e infrastrutture».

COM’È ANDATA AD ALTRE MANIFESTAZIONI

QUATTRO IDEE PER IL DOPO EXPO

I PROGETTI PROPOSTIA ben guardare, di progetti per il fu-turo del sito di Milano-Rho ce ne sono già almeno quattro (vedi scheda). Primo fra tutti quello dell’Università di Milano che vorrebbe creare nell’area un polo tecnologico con il trasferimento di facoltà scientifiche oggi presenti nel centro città, di strutture di ricerca d’eccellenza e di campus per studenti. A questa idea lanciata dall’ateneo meneghino, si affianca quella elaborata dall’Agenzia del Demanio per creare nella zona un nuovo centro direzionale della pubblica amministrazione, con l’insediamento di molti uffici oggi sparpagliati nel perimetro urbano del capoluogo lombardo. Infine, come se non bastasse, si sono fatti avanti anche Assolombarda (la Confindustria milanese) e il Crea (il centro di emanazione governativa per la ricerca in agricoltura), entrambi con l’idea di creare nell’attuale sito espositivo altri due poli tecnologici. Per passare dalle parole ai fatti, tuttavia, occorrerà trovare un po’ di soldi. I costi stimati di ogni progetto arrivano al massimo fino a circa 550 milioni di euro per ciascuno e non appaiono al momento proibitivi per il nostro Paese, visto che potrebbero essere coperti con diverse modalità: per esempio con i finanziamenti europei, con dei mutui contratti dagli enti pubblici che hanno avanzato le proposte e con la vendita di altri immobili che gli stessi enti detengono nella città di Milano (per esempio quelli che ospitano le facoltà universitarie o gli uffici pubblici da trasferire). È ancora presto, però, per avere un’idea chiara di come andranno a finire le cose. Prima bisognerà attendere un po’ di mesi, dato che gli attuali padiglioni dell’Expo saranno smantellati entro maggio 2016.

PERCHÉ I GRANDI EVENTI FANNO CRESCERE IL PIL

EXPO È SERVITA? NON LO SAPREMO MAI

UNA ROAD MAP DEL MADE IN ITALYNon sembra affatto presto, invece, per interrogarsi sull’eredità lasciata in dote dall’esposizione universale a Milano e all’Italia intera, grazie a quel-l’insieme di 40 mila eventi collaterali alla manifestazione, svoltisi nell’arco di un semestre. Si tratta di un intenso reticolo di relazioni che rappresentano il «software di Expo», secondo la definizione di Giulia Mattace Raso, architetto e caporedattrice del settimanale culturale online Arcipelago Milano. Proprio grazie a questo insieme di relazioni, il capoluogo lombardo è stato per sei mesi al centro del mondo, è riuscito ad aumentare il numero di consolati cittadini, raggiungendo i livelli di New York, ha realizzato eventi internazionali per la promozione della cultura, della qualità della vita o delle innovazioni di prodotto. È il caso, per esempio, di manifestazioni collaterali all’Expo come Green City, dedicato alle città ecosostenibili, o di un grande evento musicale come Piano City. Cosa resterà di questi appuntamenti e della lunga serie di convegni, incontri tra manager, imprenditori e operatori economici che si sono tenuti nel sito espositivo? Sarebbe un peccato disperdere il patrimonio di energie imprenditoriali e culturali accumulatosi negli ultimi sei mesi a Milano. Per evitare che ciò accada, sono nate alcune iniziative come quella del produttore di bevande e di acque minerali Gruppo Sanpellegrino, cui hanno aderito anche due importanti associazioni di categoria come Confagricoltura e Confartigianato. Si tratta di un manifesto del made in Italy, che è stato consegnato il 6 ottobre scorso al governo e che ha l’obiettivo di tracciare le linee programmatiche future per il rilancio del Sistema Italia. Nel manifesto, che ha tra i firmatari anche diversi imprenditori del nostro Paese, vengono fissati alcuni principi come la necessità di maggiori investimenti in formazione, il bisogno di un fisco e di una burocrazia più adeguate ai tempi, di creare sinergie tra settori industriali diversi, di incrociare la politica estera italiana con quella dell’internazionalizzazione delle imprese e di dare un respiro internazionale anche alle nostre banche, in modo da sostenere meglio le aziende tricolori che esportano i propri prodotti. «Questo manifesto rappresenta la necessità di mettere a frutto le conoscenze maturate durante l’Expo e il valore creato attorno alle eccellenze del Made in Italy», ha detto Stefano Agostini, presidente e a.d. del Gruppo Sanpellegrino. La speranza è che tali principi si traducano velocemente in cose concrete, per esempio in progetti chiari come quello di Riccardo Illy, noto imprenditore del caffè e presidente di Fondazione Altagamma, che è anche tra i firmatari del manifesto del Made in Italy. Per il dopo-Expo, Illy ha lanciato l’idea di una Scuola Politecnica dei mestieri e delle arti, capace di diventare un punto di ri-ferimento nazionale per le imprese che fanno prodotti di alta qualità. Se la vetrina di Expo 2015 si è ormai chiusa, in-somma, è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti.

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