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Attualità

Wikinomics più guida, meno controllo

È quanto richiede quella che viene definita la nuova arte della collaborazione collettiva sulla Rete. Un fenomeno che sta cambiando sempre di più il volto dell’economia, delle aziende e del business. Ecco quali sfide pone e le vie da percorrere verso la radical openness 2.0

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Mentre le vecchie corporation licenziano i dipendenti che si danno al blogging, le aziende illuminate li stanno incoraggiando attivamente». Esordiva così (nel 2007) il best seller Wikinomics di Don Tapscott e Anthony D. Williams, i quali spiegavano – attraverso numerosi esempi – come l’economia mondiale si stesse trasferendo in Rete. In futuro, scrivevano i due guru del marketing collaborativo, «solo chi è connesso potrà sopravvivere». E, infatti, attraverso milioni di persone intercomunicanti (tramite e-mail, blog, network, community e chat) la collaborazione, la comunità, l’auto-organizzazione si trasformano in forza economica collettiva di dimensioni globali. Così, la wikinomics è diventata l’arte, la teoria e la messa in pratica della collaborazione come fattore di crescita dell’innovazione e di successo per le aziende. Che cambia tutte le regole del gioco. In pochi anni i fenomeni descritti nel libro sono cresciuti in maniera esponenziale. Non a caso, nel 2010, seguirà un altro libro cult dei due autori, Macrowikinomics, dove si intuiva l’approssimarsi di una radicale trasformazione sociale e politica. La collaborazione globale, orizzontale, non riguarda più solo il business, ma diventa il paradigma per una nuova rappresentanza sociale.

APERTURA, TRASPARENZA, INCLUSIONECiò che è certo è che le nuove imprese di Rete (il business 2.0) saranno aperte, globali, nel senso più vero della parola. L’economia diventerà sempre più trasparente e distribuita e, grazie a questo, crescerà. Ma come guidare il passaggio dall’economics alla wikinomics? I primi passi di questo processo, nel nostro Paese, li abbiamo visti soprattutto in ambito istituzionale, a partire dagli enti locali che, con la politica degli open data, stanno puntando da qualche anno alla trasparenza e all’allargamento della base di controllo (datagov.it). E le imprese? In Italia, a oggi, abbiamo l’esempio di Enel che, attraverso il progetto e il sito Enel Open Data (data.enel.com), ha mosso i primi passi (non senza idiosincrasie “tecniche”) verso la trasparenza. Ma non basta. Oggi nel mondo il concetto di open data è superato e si discute già di radical openness. Cosa significa e quale vantaggio può dare al mondo del business? L’abbiamo chiesto a Bruno Giussani, responsabile di Ted Global (versione europea delle conferenze made in Usa che raccolgono le idee di chi cambiando il mondo, www.ted.com). «Oggi il concetto di apertura è fondamentale per definire e ridefinire il mondo fluido e ambiguo nel quale viviamo», spiega Giussani a Business People. «Molte delle linee di tensione che definiscono il nostro tempo hanno a che fare con la questione “più-o-meno-apertura, trasparenza e inclusione”». Ma come può l’idea di radical openness raggiungere il mondo chiuso e diffidente dell’economia e delle imprese? Continua Giussani: «Le racconto la nostra esperienza di piccola azienda (Ted ha un’ottantina di dipendenti, ndr), completamente votata all’idea di “apertura radicale”. Misuriamo ogni nuova iniziativa o progetto con questo metro, cercando di rendere i nostri metodi, il nostro approccio, il nostro stile di gestione e naturalmente i nostri contenuti video aperti e inclusivi. Quando parlo, chi non ha mai partecipato a un Tedx (programma di eventi locali che riuniscono le persone per condividere le esperienze simili a quelle che si vivono all’interno dell’azienda, ndr) mi chiede inevitabilmente: “Ma come fate a controllare la qualità?”. E la risposta è che la qualità non è la questione centrale. La questione centrale è la creazione di spazi di discussione, di luoghi di interscambio e condivisione. Per noi si tratta di tollerare un po’ di ambiguità e confusione all’interno della nostra costellazione di attività: siamo strutturati per tollerare un po’ di confusione periferica… E questa è la risposta alla sua domanda: le imprese ormai non possono più sperare di controllare ogni elemento del loro struttura, devono imparare a tollerare, e se possibile a trarre vantaggio, da questa fluidità e ambiguità».

I 4 CARDINI DELLA WIKINOMICS

1. APERTURA (openness): trasparenza, condivisione di informazioni, opinioni ed esperienze con tutti gli stakeholder, clienti, partner, dipendenti, fornitori e collaboratori. Il libro di Tapscott e Williams si apre con la case history di Goldcorp, un’azienda mineraria in crisi che è diventata la più importante realtà nel settore dell’estrazione dell’oro, dopo aver deciso di divulgare i dati relativi alle proprie mappe geologiche e chiedendo su Internet a chiunque ne avesse la capacità di interpretarle per avere nuove indicazioni di ricerca. In settori meno hard, Amazon, Google, e-Bay sono tutte imprese di successo che hanno deciso di aprire le loro infrastrutture e le loro applicazioni di successo allo scopo di sviluppare 2vasti ecosistemi di business.

2. RELAZIONE TRA PARI (peering): da attuare non solo all’interno dell’azienda ma soprattutto all’esterno, con altre aziende e altri collaboratori, in un contesto di co-creazione del valore che nasce proprio dalla collaborazione orizzontale, differentemente dal tradizionale flusso della catena del valore. Il caso di scuola è dato dall’alleanza Ibm-Linux: Ibm cede centinaia di software proprietari agli sviluppatori di Linux, ottenendo in cambio un valore di diversi miliardi di dollari.

3. CONDIVISIONE (sharing): anche quella degli asset considerati strategici e segreti, i brevetti e le licenze, ossia la proprietà intellettuale. Ogni azienda dovrebbe possedere una sorta di portafoglio delle sue proprietà intellettuali e alcune di queste varrebbe la pena di condividerle con altre aziende per generare profitti o valore. È il caso di Procter&Gamble, che ha ricavato milioni di dollari vendendo i propri brevetti e invitando altre aziende a collaborare per sviluppare nuovi prodotti, aderendo al programma “Connect + Develop” (vedi articolo precedente, ndr).

4. AZIONE GLOBALE (global action): le aziende devono comportarsi come player non solo nazionali o multinazionali. Tecnologie e processi di business e It attuali permettono una modalità di azione e comunicazione su scala mondiale. Le aziende che agiscono globalmente, tendono a diventare di successo. Boeing ha scoperto che tutti i costi, i rischi e l’expertise implicati nella progettazione ed esecuzione di un nuovo aeroplano possono venire drasticamente ridotti cedendo il controllo di migliaia di componenti ad altrettanti operatori dislocati in tutto il mondo.

PMI, AL LAVORO SUI MODELLI COGNITIVIUn Paese come il nostro, trainato da imprese piccole e piccolissime, potrebbe trarre grandi vantaggi competitivi dall’utilizzo della collaborazione di massa. «Purtroppo le nostre pmi sono mediamente molto indietro, anche se con qualche punta di eccellenza», sottolinea Marco Minghetti, direttore scientifico di GSO Company per il management 2.0 e docente di Humanistic management 2.0 presso l’Università di Pavia (marcominghetti.com). «Io credo che la perdita di capacità innovativa, produttività e competitività italiana sia proprio legata alla incapacità di accettare il modello della wikinomics, che è prima di tutto un modello culturale e cognitivo prima ancora che manageriale e operativo». Si tratta, spiega il professore, di accettare non solo sul piano della retorica aziendale, ma dei concreti comportamenti agiti un paradigma che rovescia radicalmente quello scientific management basato su comando e controllo, gerarchia, burocrazia che ancora oggi permea di sé le organizzazioni pubbliche e private. Cosa fare anzitutto? «Lavorare sui modelli culturali e cognitivi degli imprenditori e, quindi, di tutte le persone appartenenti all’organizzazione», asserisce Minghetti. «Il direttore generale di una grande associazione italiana che raggruppa i piccoli e piccolissimi imprenditori qualche tempo fa mi ha chiamato e mi ha detto: “Ho inserito Yammer (una piattaforma social Facebook like per il lavoro collaborativo scaricabile gratuitamente dalla Rete, ndr) e non è successo nulla, anzi le persone si sono demotivate. Era caduto anche lui nell’illusione tecnologica per cui basta buttare un po’ di social media in azienda e improvvisamente l’organizzazione si “duepuntozerizza”. Non è così: se non hai lavorato prima sulla diffusione di un adeguato modello cognitivo e culturale, ogni tentativo di trasformazione in social organization è destinato a fallire. Cultura e tecnologia sono le due gambe su cui deve correre il cambiamento, mettersi in corsa saltellando solo su quella tecnologica (magari con l’illusione di “fare prima” o “spendere meno”) significa avere la certezza di non arrivare mai al traguardo».

ASSUMETE I NATIVI DIGITALIMa la resistenza al cambiamento, si sa, è forte. E questo, purtroppo, sembra valere ancora di più per il nostro Paese. «La stragrande maggioranza dei nostri manager», continua Minghetti, «non vuole accettare questi nuovi paradigmi, perché significherebbe minare alla base il modo in cui viene gestito il potere all’interno delle organizzazioni. E si aggiunga anche che, con la scusa della crisi, da noi proprio i portatori dei nuovi valori destabilizzanti per il potere costituito sono stati espulsi, e coloro che potrebbero portare l’innovazione (i giovani e le donne) ne restano fuori. Il risultato è una crisi da cui non riusciamo inevitabilmente a uscire».L’impresa 2.0, insomma, è chiamata a rivoluzionare la sua struttura per vincere nel nuovo scenario competitivo. Lasciarsi alle spalle gerarchia e chiusura e aprirsi alla collaborazione e alla condivisione che offre il mercato. Lo sforzo di ingabbiare i nuovi lavoratori in rigidi spazi verticali sarà spazzato via dalla spontaneità della collaborazione orizzontale. Lo stanno già facendo molte imprese come Hewlett-Pakard, Siemens e Microsoft che, ridefinendo la modalità di allocazione delle risorse, simulano un mercato interno all’impresa, creando competizione e collaborazione tra team eterogenei per stimolare la nascita delle idee migliori. Procter & Gamble si è da poco accorta che il suo esercito di 7.500 chimici non bastava più a mantenere la leadership e ha ceduto in outsourcing il 50% dei nuovi prodotti e servizi. Oggi chiunque può lavorare per P&G senza timbrare il cartellino. È sufficiente iscriversi al network Innocentive, una comunity di 90 mila scienziati che collaborano per la risoluzione dei problemi nella R&S (ricerca e sviluppo), in cambio di una ricompensa in denaro. Dalla Bocconi ci giungono, però, segnali di maggiore cautela quando all’esame è la realtà italiana. «La saggezza delle masse è una cosa interessante dal punto di vista teorico», sottolinea Luigi Proserpio, professore di management dell’ateneo milanese. «Ma, nella pratica, la sua applicazione è ancora limitata per le nostre piccole imprese che oggi hanno problemi di management, di innovazione, di successione e di capitali. Cercherei di risolvere prima quelli. E nel frattempo assumerei qualche nativo digitale in gamba per pianificare il loro futuro in Rete».

LEADERSHIP “CONVOCATIVA”Dopo cento e più anni di abitudine al modello del Comando e controllo, la classe dirigente italiana sembra mancare di visione strategica per vincere le sfide del cambiamento epocale, derivante dall’utilizzo di social software e processi di collaborazione emergente dal basso. Ne ha capito l’urgenza, ma brancola nel buio. Perché? «Perché la sfida è culturale e organizzativa prima che tecnologica», afferma Minghetti, «e coinvolge in prima battuta i Ceo, che devono cambiare radicalmente la loro visione manageriale, insieme ai direttori Hr, in quanto responsabili della regia tecnica del cambiamento, e solo in seguito gli Ict manager». Ma qual è l’aspetto più rilevante di questa cultura 2.0 che un manager oggi proprio non può ignorare? «Il concetto di ponte tra nativi digitali e non nativi», ribadisce il professor Proserpio: «Se un manager non è un nativo al 100%, è meglio che si faccia consigliare da un nativo prima di azioni focalizzate su Internet. Credo però che una squadra mista sia una buona soluzione per integrare gli aspetti dei due punti di vista». In ogni caso un leader 2.0 dovrà «perdere il controllo, mantenendo la guida» (Kevin Kelly). «È quella che noi chiamiamo leadership convocativa» conclude Minghetti, «che non esercita l’autorità a partire dal proprio ruolo, ma sa costruire la propria autorevolezza giorno per giorno. Deve rinunciare ad essere emittente di messaggi prescrittivi per diventare un attivatore della capacità comunicativa e della creatività.

CASE HISTORY

Wikipedia È un’enciclopedia on line, multilingue, a contenuto libero, redatta in modo collaborativo da volontari e sostenuta dalla Wikimedia Foundation, un’organizzazione senza fini di lucro. Wikipedia è uno dei dieci siti più visitati al mondo, riceve circa 60 milioni di accessi al giorno e, come caratteristica primaria, offre la possibilità a chiunque di collaborarvi, utilizzando un sistema di modifica e pubblicazione aperto.

Marketocracy Società di ricerca che adotta una forma di peering nella gestione di un fondo comune, sfruttando l’intelligenza collettiva della comunità finanziaria. Ha assoldato 70 mila trader affinché gestiscano portafogli di azioni virtuali nell’ambito di un contest in cui vince il migliore investitore.

InnoCentive – Open Innovation Marketplace È un marketplace virtuale in cui le imprese, i “seeker”, pubblicano in forma anonima i loro problemi di R&D, mentre i “solver” (costituiti da una comunità aperta di esperti provenienti da tutto il mondo) propongono le loro soluzioni. I vincitori dei contest si accaparrano un premio che va dai 5 mila al milione di dollari. Tra i seeker ricordiamo: Procter & Gamble, Dow AgroSciences ed Eli Lilly.

Bmw – Virtual innovation Agency All’interno del sito, Bmw ospita un’“agenzia virtuale per l’innovazione”, tramite cui le pmi possono proporre le loro idee nella speranza di instaurare un rapporto continuativo con la società. Inoltre, quest’ultima si è rivolta non solo alle aziende dell’indotto ma anche direttamente all’intelligenza collettiva dei suoi utenti.

Lego – Mindstorm L’azienda danese è diventata l’esempio di come si possa coinvolgere profondamente i clienti nella co-creazione e nella co-innovazione dei prodotti. Minstorm è un’evoluzione del “mattoncino” classico, perché permette, tramite un software, di assemblare veri e propri robot programmabili. A seguito dei tanti suggerimenti pervenuti all’azienda su come modificare i Mindstorm, l’azienda ha integrato il prodotto con le idee degli utenti ed ha inserito il “diritto alla manipolazione” all’interno della licenza del software Mindstorm.