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Sostenibilità

Volontari e/o dipendenti

L’assistenza ai poveri si sta “managerializzando”. Perché agli ultimi il pubblico non è capace di offrire servizi. Zamagni: “nasce l’economia tripolare”

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La povertà crea posti di lavoro. Sarà pure scandaloso dirlo, ma è così. E in Italia ne crea tantissimi, di posti, sia perché purtroppo le persone indigenti non mancano, sia perché l’assistenza agli ultimi è il frutto di due tradizioni pressoché assenti negli altri Paesi, quella cattolica e quella socialista che hanno forgiato il carattere degli italiani nel corso dei secoli. Il risultato è che oggi esistono migliaia, anzi, decine di migliaia di enti e associazioni che si occupano degli ultimi con milioni di italiani coinvolti. È vero: perlopiù sono volontari, ma non solo, visto che sfamare i poveri per alcuni è diventata anche una vera professione e, quindi, anche un modo per impiegare le proprie conoscenze manageriali in un settore che di manager e imprenditori avrà sempre più bisogno. E il motivo lo vedremo tra poco.

Intanto occorre dire che gli ambiti di lavoro di enti ed associazioni che si occupano di esclusione sociale sono i più diversi: c’è chi offre un tetto, chi un pasto caldo, chi porta gli alimenti a casa delle famiglie in difficoltà indicate dai servizi sociali, chi paga le rette dei bambini all’asilo, oppure le bollette della luce ai padri in difficoltà. Dall’organizzazione più importante, cioè la Caritas, organismo della Conferenza episcopale, in giù fino alla miriade di associazioni minori: ma quanti sono gli enti che nel nostro Paese assistono i poveri? Quante persone coinvolgono? Chi ci lavora? Domande queste ancora senza risposte precise. Statistiche ufficiali non ce ne sono. Sappiamo quanti sono i poveri perchè ce lo dice ogni dodici mesi proprio la Caritas con il suo rapporto, che porta il titolo significativo di “In caduta libera”, visto che si parla di circa 8,3 milioni di persone nel nostro Paese. Ma non sappiamo altrettanto esattamente quanti sono gli italiani che a loro prestano assistenza. Anche perché si tratta di una galassia variegata, spesso dai confini poco precisi, dove Stato e privato lavorano sia in maniera distinta che in “partnership”. Tuttavia, proprio nel dicembre scorso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali e l’Istat, in collaborazione con la Caritas italiana e la Federazione italiana organismi per le persone senza fissa dimora (Fio.Psd), hanno presentato una ricerca che prova a dare qualche risposta.

Il primo dato è questo: in ogni comune italiano ci sono dalle tre alle cinque organizzazioni che si occupano dei poveri. In Italia ci sono 8.094 comuni: significa, quindi, che le associazioni sono in tutto quasi 40 mila. A queste vanno aggiunti gli altri enti di volontariato, cooperative sociali, onlus e associazioni di promozione sociale nei cui ambiti di intervento rientra anche l’assistenza agli indigenti. È facile pensare quindi come i numeri possano schizzare verso l’ordine delle centinaia di migliaia, con milioni di persone coinvolte. «Solo quest’anno l’Istat ha deciso di procedere a un censimento di tutte queste realtà», spiega il professor Stefano Zamagni, docente all’Università di Bologna e presidente dell’Agenzia nazionale per le Onlus. «Si calcola comunque che in Italia circa 10 milioni di persone partecipino a enti di volontariato in senso lato». La ricerca di Ministero e Istat una cosa la dice chiara: nel 79% dei casi sono le istituzioni e le organizzazioni private a erogare servizi ai poveri senza fissa dimora, mentre solo il restante 21% è svolto dalle amministrazioni pubbliche. Ciò non significa però che queste associazioni si sostengano da sé. Anzi. Il 52% delle organizzazioni private vive soprattutto sui finanziamenti pubblici, erogati da Stato, Regioni ed Enti locali nelle maniere più diverse: dai contributi diretti a fondo perduto ai servizi dati in appalto, fino agli “sconti” garantiti in alcune tipologie di spesa. E se gli enti pubblici per garantire un tetto o un piatto di pasta agli indigenti di servono del proprio personale – oppure esternalizzano il servizio , anche le associazioni di volontariato e le onlus assumono dei dipendenti stipendiati. Un trend in aumento, come conferma Paolo Pezzana, presidente Fio.Psd, federazione che raccoglie 75 soci in tutta Italia. «Certamente, le nostre associazioni assumono personale, ma occorre sottolineare che il volontariato, svolto a livello di servizio gratuito, coinvolge un gran numero di persone, di cui è molto difficile fornire un dato concreto».

Assumono persone e si comportano sempre più come imprese: un po’ perché glielo impone la legge, chiedendo ad esempio alle onlus una rendicontazione annuale delle loro attività, e un po’ perché la strada della managerializzazione dell’attività delle onlus in senso lato è segnata. Si stanno, cioè, trasformando in vere e proprie aziende che erogano un servizio. «I finanziamenti di cui disponiamo», continua Pezzana, «provengono perlopiù da enti pubblici e dal 5 per mille. Ma visto che in massima parte si tratta di denaro pubblico, le organizzazioni sono tenute a presentare un dettagliato rendiconto di come usa i soldi e per quali interventi li impiega. Deve presentare la documentazione contabile richiesta dalla legge e deve versare gli oneri contributivi per i propri dipendenti». Come un’azienda quindi, tranne in un aspetto di non poco conto: la cosiddetta “utilità sociale” che impedisce di redistribuire gli utili dell’attività svolta agli associati, soci o aderenti che siano, ma obbliga a reinvestire tutto nella mission dell’organizzazione. Un esempio della strada che il mondo del volontariato sta intraprendendo lo si ha con la coop sociale “Il Simbolo” di Pisa, un ente nato nel 1996 con l’obiettivo di dare da mangiare a chi non ne ha, e che oggi conta addirittura 90 dipendenti. «Ci occupiamo innanzitutto della marginalità sociale, in particolare con i “Progetti Homeless” per i senzatetto», spiega il vicepresidente Alessandro Carta, «gestendo i cosiddetti servizi a bassa soglia in appalto dalle amministrazioni comunali”. La coop “Il Simbolo”, insomma, di volontari non ne ha proprio, «abbiamo solo dipendenti assunti in vario modo», spiega Carta. Dal sostegno agli indigenti la coop è passata poi ad occuparsi anche di altri servizi nella galassia del sociale, specializzandosi sempre più. «Tra i soci della cooperativa c’è un patto», continua il vicepresidente, «che consiste nell’utilizzare gli utili della nostra attività (cioè i finanziamenti degli enti pubblici, ndr) sia per sostenere l’organizzazione, innanzitutto pagando i dipendenti, sia rifinanziando i progetti di assistenza».

L’associazione “San Marcellino” di Genova, nata per ispirazione di alcuni padri gesuiti, mette le cose in chiaro sin da subito: «San Marcellino non ricorre ai volontari per conseguire un vantaggio economico», anche se poi spiega che di persone impegnate gratuitamente ne può contare fino a 400 che permettono di «sostenere l’insieme delle iniziative e delle attività a costi molto contenuti». «Per la delicatezza del lavoro svolto», spiegano i responsabili, «accanto ai volontari è sempre presente uno degli operatori dipendenti stabili dell’associazione adeguatamente specializzati i quali, facendosi carico dei punti critici dei diversi servizi, ne garantiscono la continuità e qualità costante». Se nelle coop sociali di volontari pare non essercene nemmeno l’ombra, per le associazioni la musica cambia: tanti volontari impegnati gratuitamente, che possono però contare sull’appoggio di un certo numero di dipendenti che dello sfamare i poveri ne hanno fatto una professione.

Sia le coop sociali che le Onlus hanno dei beneficiari, i poveri, ma prima ancora ha dei clienti, dai quali si fa pagare. E i clienti delle organizzazioni di assistenza sono, nella maggior parte dei casi, Comuni, Province, Regioni e organizzazioni private. Una contraddizione apparente, quella che i volontari sono pagati (e finanziati) dagli enti pubblici? No, secondo Zamagni, perché «dal modello bipolare composto da una parte dallo Stato e dall’altro dal mercato, occorre passare a quello tripolare, inserendo la terza gamba che è l’economia civile di mercato», che consiste esattamente nei servizi sociali erogati da privati ma finanziati dal pubblico. Il modello, insomma, visto che dà risultati, è quello che potrebbe funzionare se allargato ai servizi educativi, a quelli della manutenzione delle strade cittadine e altro ancora. «Parliamo di commons, beni di uso comune, un ambito nel quale gli enti locali hanno dimostrato di riuscire a produrre solo disastri».

Per questo Zamagni spiega il boom del non-profit (termine che ritiene comunque «sbagliato perché significa qualcosa di residuale») che si è verificato negli ultimi 25 anni. «La prima ragione è l’insoddisfazione dei cittadini verso il modello statalista e burocratico, il paternalismo gli italiani non l’hanno mai mandato giù». Secondo: «Il declino della politica ha lasciato indubbiamente spazio alla società civile, permettendo che si creasse una cinghia di trasmissione tra il popolo e chi decide, una funzione questa che una volta svolgevano i partiti che adesso non ci sono più», e il loro vuoto è stato preso dal mondo delle associazioni che abbiamo raccontato. Terzo: «La crisi fiscale dello Stato, un aspetto per molti prioritario ma che viene dopo le prime due ragioni. L’ente pubblico ha sempre meno risorse, non riesce più a gestire tutti i servizi e lascia spazio al privato sociale». E per fortuna, visto che «non c’è una risorsa comune che non sia gestita dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti locali in una logica di comunitaria». Ecco perché la povertà e i servizi sociali sono un ambito di lavoro nel quale ci sarà sempre più bisogno di manager: perché lo Stato non è capace di realizzare ciò che i privati hanno dimostrato di saper fare.