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Essere Pink Floyd

Il rock visionario e caleidoscopico della band inglese raccontato in una mostra unica, che esordirà a Milano. Un tributo suggestivo al complesso che più di ogni altro ha saputo varcare i confini dell’immaginazione. e non ha ancora smesso di stupire

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«Non vorrei essere un sottofondo, vorrei proprio che la mia musica fosse l’unica cosa importante, almeno nel tempo in cui la si ascolta», parola di Roger Waters. C’era una volta un’epoca in cui il rock era, per definizione, il verbo della sperimentazione, della ricerca. Era il grimaldello con il quale si aprivano nuove porte e si abbattevano steccati, si oltrepassavano confini e si tentava, spesso riuscendovi, di “andare oltre”.

S’inventava, ma non per un’élite ristretta di intenditori. Il rock raggiungeva molti, quasi tutti, al punto che i dischi più venduti, spesso, erano tutto fuorché opere fatte per compiacere. Erano gli anni racchiusi nelle due decadi più fertili per la musica, i ‘60 e i ’70, ineguagliabile parentesi storica, per fermento e tensione creativa.

Ed è francamente difficile trovare un nome che, più dei Pink Floyd, abbia saputo da sempre far convivere un’anima esplorativa, spericolata e sperimentale, appunto, con un’urgenza comunicativa che ha fatto arrivare la propria musica in ogni angolo del globo.

SOPRATTUTTO ESPLORATORI

Di musicisti che hanno sperimentato, il lungo cammino del pop-rock è largamente e variamente popolato. Di gente che ha dato una forma accessibile alle proprie intuizioni ce n’è stata veramente poca.

La grandezza della band inglese può essere riconosciuta e osservata da diverse angolazioni, può giustamente alimentare dibattiti di ogni genere. Ma l’unicità, l’originalità del progetto artistico dei Pink Floyd, è forse la loro vera cifra, ciò che li rende una delle formazioni più longeve della storia, protagonisti di una carriera entusiasmante che li elegge a pieno titolo interpreti eccelsi della cultura moderna.

E la mostra multimediale The Pink Floyd Exhibition – Their Mortal Remains, che sarà ospitata presso la Fabbrica del Vapore di Milano (in anteprima mondiale), ci restituisce il piacere di rimmergersi nell’universo della loro musica. Di quei suoni che s’intrecciano a simbologia e immagini e che non ti mollano più.

I PINK FLOYD SONO SEMPRE STATI FEDELI

A UN’IDEA DELLA MUSICA STRETTAMENTE

LEGATA AL CONCETTO DI RICERCA

È di certo un’occasione imperdibile, irrinunciabile per chi ha il pop-rock tra le sue passioni. Per quanto popolare e ampiamente conosciuta, l’opera della band ha spesso bisogno di essere (per quanto possibile, vista la sua enormità) “racchiusa” e raccontata.

Questo allestimento si basa su oltre 2.500 metri quadrati, per un’opera innovativa pensata, commissionata e diretta in prima persona da David Gilmour, Roger Waters e Nick Mason, insieme alla famiglia di Richard Wright. Un’esperienza tridimensionale progettata da Stufish, il famoso studio di architettura inglese che ha anche curato le scenografie dei palchi dei loro leggendari concerti, e curata da Aubrey “Po” Powell, di Hipgnosis, insieme a Paula Stainton. E con la presentazione/guida del promoter italiano Fran Tomasi.

UNA STORIA INFINITA

Inventori della psichedelia, interpreti instancabili della parte più visionaria del pop-rock. Pomposi, esagerati, eccentrici e provocatori. Le etichette per definire i Pink Floyd si sprecano e, forse, tutto sommato, sono anche sprecate.

Questi musicisti hanno visto, negli anni, nascere e tramontare un numero infinito di mode e generi ma, alla fine, pur tenendo conto delle grandi metamorfosi di cui sono stati protagonisti, sono rimasti ancorati a un’idea della musica – quella della costante ricerca – che li pone in nella ristretta cerchia di artisti considerati punto di riferimento ineludibile.

Nata e formatasi in quella variegata ed esplosiva palestra creativa che era la Swinging London degli anni ’60, la band assunse il nome di Pink Floyd (partendo peraltro da alcune sigle provvisorie, tra cui Sigma 6), in omaggio al nome di battesimo di due bluesman americani (Pink Anderson e Floyd Council) di cui era appassionato Syd Barrett (Roger Keith Barrett, originario di Cambridge) fondatore del gruppo assieme a Roger Waters, Nick Mason e Richard Wright.

Alcuni pezzi editati come singoli catalizzarono, da subito, l’attenzione generale, anche grazie a concerti nei fumosi club londinesi non abituati a ospitare sui propri palchi musicisti con idee così astruse e futuriste (impiego di luci così come ricorso a vari effetti scenici).

IL MISTERO DELLE COPERTINE

Era il 1967, e il successo ottenuto dallo splendido singolo See Emily Play non poteva comunque far presagire che ci si trovava di fronte a una band destinata ad attraversare, da protagonista, interi decenni. L’album di debutto, l’eccellente The Piper at the Gates of Dawn, per quanto acerbo, costituiva già, con quel suono acido e quelle divagazioni “spaziali”, più di un manifesto programmatico, con una canzone su tutte: Astronomy Domine.

La leggenda è ufficialmente partita, quindi. Faranno seguito altri ottimi lavori come il successivo A Saucerful of Secrets e More, colonna sonora dell’omonimo film di Barbet Schroeder, nonché primo “sconfinamento” della band nel mondo del cinema, presto replicato per Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, nel 1970.

Nel frattempo, però, la formazione aveva perso il suo leader originario: Syd Barrett, sempre più in preda alla dipendenza dall’Lsd, era già stato rimpiazzato dal nuovo chitarrista David Gilmour (amico d’infanzia dello stesso Barrett).

Ummagumma del 1969 è forse il primo capolavoro, disco metà dal vivo e metà registrato in studio, in cui si mescolano sperimentazioni con musica classica, e che contiene l’epica Careful With That Axe Eugene, che accompagna la celebre scena finale del film di Antonioni.

Qualità eccelsa, confermata anche dal successivo Atom Heart Mother (una copertina destinata a passare alla storia) più ragionato e ricercato, forse, ma non meno spiazzante, a partire dalla suite strumentale omonima che copre un’intera facciata.

Il successivo Meddle, ostico e comunque degno di nota specie nei suoi momenti più arditi (come Echoes) così come vari lavori interlocutori e un’opera interessantissima come il film/concerto Live at Pompei, introducono al disco più famoso e più importante. The Dark Side of the Moon esce il 1° marzo 1973 in Usa, e il 24 dello stesso mese In Gran Bretagna.

I VOLTI DEL MITO

Da questo capolavoro vengono pubblicati due singoli, Us and Them e, soprattutto, Money. Il disco entrerà nel Guinness dei primati grazie alle oltre 740 settimane di presenza nella Top 200 di Billboard, alle 310 settimane consecutive nella top 75 in Inghilterra.

Detto in soldoni (così per richiamare uno dei tanti temi trattati dall’album) parliamo di qualcosa come 50 milioni di copie vendute. Oramai stelle di prima grandezza del palcoscenico rock, danno poi alle stampe altri gioielli come Wish You Were Here (con la title track e Shine on You Crazy Diamond, dediche più o meno esplicite a Barrett), il poco “commestibile”, e di ispirazione orwelliana, Animals del 1977 che prepara il terreno a un’altra tappa essenziale, The Wall, simbolico sigillo discografico di fine decennio.

Esagerato, e fuori da ogni schema (ne deriverà anche una trasposizione cinematografica, diretta da Alan Parker), è una sorta di concept alimentato dalla follia e dalle angosce che sono il “telaio” di un lavoro al cui interno sono ospitati altri pezzi memorabili: da Antother Brick in the Wall, Is There Anybody Out There? fino a Confortably Numb. Pur titolare di un successo enorme (23 volte platino solo negli Usa, e oltre 30 milioni di copie vendute) e accompagnato da esibizioni live di grande suggestione, il disco è il preludio a una crisi interna, con la contrapposizione sempre più forte tra Waters e Gilmour e l’allontanamento di Richard Wright.

LA MAGIA DELLE PERFORMANCE LIVE

E’ RACCHIUSA NEL DOPPIO ALBUM PULSE

CHE RACCONTA LA TOURNEE DEL 1994

Purtroppo la discesa è iniziata, The Final Cut del 1983 è difatti un deludente lavoro (non privo comunque di pezzi interessanti), attribuibile in pratica al solo Waters, che ingaggia una lotta legale con gli altri membri per il successivo sfruttamento del nome. Waters perderà la causa e Wright, Mason e Gilmour incidono – dopo l’uscita del doppio live Delicate Sound of Thunder – nel 1994 The Division Bell, album formalmente impeccabile, ma forse privo dello slancio genuino dei tempi d’oro e, l’anno successivo, Pulse. È un altro doppio disco che restituisce la magia delle performance live del gruppo della tournée del 1994 ovviamente divenuto, in poco tempo, un altro bestseller. Finita qui? Nient’affatto, è infatti prevista per ottobre 2014 l’uscita di Endless River album che sarà costituito da session di The Division Bell e che, di fatto, sarà il nuovo disco di inediti dei Pink Floyd…

SENZA EREDI

Così poliedrica e vasta, l’opera dei Pink Floyd è stata puntualmente oggetto di critiche, così come di esaltazioni. Tipico di un percorso artistico ricchissimo e coraggioso, la cui grandezza è anche confermata, se vogliamo, dall’impossibilità che hanno oggi i Pink Floyd di trovare degli eredi. Moltissimi si sono ispirati a loro, ma nessuno può occupare lo stesso ruolo, nell’avamposto del rock, della band di The Dark Side of The Moon.

La sensazione è che sia talmente cambiato il contenitore culturale nel quale oggi si muove il music business, che la loro esperienza rimane qualcosa di assolutamente irripetibile. È giusto così, del resto: chi avrebbe il coraggio oggi di mettere una mucca in copertina?

PER SAPERNE DI PIU’ SULLA MOSTRA

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