Gli effetti globali del “no” della Fed

Sembrava già deciso, invece la Banca centrale americana ha sorpreso tutti rinviando a data da destinarsi la riduzione del suo piano d’acquisti, nonché della liquidità in circolazione. Una mossa che ha fatto sentire i suoi effetti globali. Ecco quali

La crisi è arrivata portando con sé una serie di in­glesismi sconosciuti ai più. Sdoganati per dare un nome ad astruse architetture finanziarie, dirette re­sponsabili del collasso economico in cui si è tro­vato il mondo intero alla fine del 2007. Così, sono stati dati in pasto all’uomo della strada acronimi e sostan­tivi quali Abs, Mbs, hedge fund, credit swap, subprime, derivatives, fiscal cliff. Poi i riflettori si sono fissati sul­lo spread. Quindi è arrivata la sbornia della liquidi­tà a costo zero negli Stati Uniti, altrimenti detta qua­titative easing, con cui, acquistando titoli di Stato sul mercato, la banca centrale americana, la Federal Re­serve, ha iniziato a stampare moneta. Ma dato che le ubriacature lasciano conseguenze, ecco che è ar­rivata l’esigenza di ridurre il piano di acquisti della Fed dell’ammontare di 85 miliardi di dollari al mese e quindi l’abnorme liquidità che oggi c’è sui merca­ti. Così è comparso il tapering, da taper off che, in inglese, significa per l’appunto re­stringere. E adesso, con la Fed che nel posticiparlo ha sorpreso (e mol­to) i mercati, le incognite sui modi e i tempi di questa manovra finanziaria da qualche tempo non fanno dormi­re sonni troppo tranquilli agli investi­tori, peraltro sempre meno fiduciosi sulla veridicità delle affermazioni dei banchieri centrali, quando dicono che la riduzione del quantitative ea­sing non ha nulla a che fare con un futuro aumento dei tassi di interesse a breve termine. E, se da una parte la questione dovrebbe essere letta in modo positivo, dato che indichereb­be una ripresa dell’economia a stelle e strisce, dall’altra sta già ridisegnan­do determinati equilibri. Basti vedere che, da quando questo programma è stato deciso, già dalla riunione del Fomc (Federal Open Market Commit­tee) di giugno, buona parte dei gran­di fondi di investimento ha ritirato i capitali che avevano collocato sui mercati emergenti. Facendo crollare le loro valute.

COM’È ANDATAI mercati hanno atteso con grande in­teresse la riunione della Fed, convinti com’erano che, a seguito di dati com­plessivamente confortanti dal punto di vista della congiuntura economica, sarebbe arrivato un annuncio di una graduale riduzione dello stimolo mo­netario da parte del governatore Ben Bernanke. Così, la decisione del Fomc dello scorso 18 settembre ha sorpreso tutti con l’intenzione di lasciare (per ora) invariato il programma di iniezio­ni di liquidità e rimandare a data da destinarsi il piano di rientro degli ac­quisti mensili. Intanto il mercato ave­va già dato per scontato che il pro­cesso avrebbe avuto inizio, magari a un ritmo del 10-15% al mese della ci­fra totale. Invece no. La ragione? Me­glio aspettare che si chiarisca la por­tata della crescita dell’economia, con­siderata per il momento ancora trop­po asfittica rispetto alle previsioni del 22 maggio scorso, quando per la pri­ma volta si nominò (ufficializzando­lo) il tapering davanti al Congresso. E la reazione non ha tardato ad arri­vare: da quel momento i rendimen­ti a dieci anni in dollari sono cresciu­ti dall’1,8% al 3%, per poi invertire la rotta all’ultimo. Sta di fatto che que­sta mossa, in presenza di mercati glo­balizzati e quindi molto correlati, non ha mancato di far sentire i suoi pode­rosi effetti un po’ ovunque. L’impatto sul portafoglio

BEN BERNAKE E I PIANI DI QE

Dal 2009 il presidente della Fed Ben Bernanke ha messo in atto tre piani di quantitative easing (allentamenti quantitivi monetari) chiamati rispettivamente QE1, QE2, QE3, mettendo sul piatto 2,8 trilioni di dollari. L’ultimo è in corso e prevede l’iniezione di dollari attraverso l’acquisto di titoli per 85 miliardi di dollari al mese, suddivisi 40 in titoli di Stato americani e 45 in Mbs (Mortgabe backed securities, titoli di credito immobiliari ipotecati) comprati da banche e istituzioni finanziarie. L’effetto di questa manovra è offrire liquidità alle banche e al mercato immobiliare per rilanciare l’economia. La disoccupazione americana è al 7,3% (ancora lontana dall’obiettivo del 6,5% fissato dalla Fed). Ulteriore motivo della mancata attivazione del tapering.

TRA INCERTEZZA E VOLATILITÀ«È evidente, da parte della Fed, che la ripresa del mercato del lavoro non sia stata abbastanza forte da far innescare l’interruzione del programma di quan­titative easing. Il restringimento del­le condizioni finanziarie seguito dal rialzo dei Treasury e dei tassi dei mu­tui è stato una fonte di preoccupazio­ne, sebbene Bernanke abbia espresso ulteriori timori anche sui dibattiti sul budget, sul limite del tetto del debi­to, e sulla possibilità di una forte crisi di governo», spiega Donatella Princi­pe, responsabile del business istituzio­nale di Schroders Italia – il gruppo bri­tannico, fondato nel 1804 e quotato a Londra dal 1959, è oggi uno dei prin­cipali gruppi finanziari internaziona­li, specializzato nella gestione di ca­pitali – che continua: «La decisione di non iniziare l’interruzione del pro­gramma di QE non fa altro che pro­lungare l’incertezza e allo stesso tem­po la volatilità del mercato resterà alta fino a quando la Fed non farà ulterio­re chiarezza ma, a oggi, la prossima data plausibile per l’interruzione del QE da parte della Fed potrebbe esse­re dicembre». Nel frattempo, la disoc­cupazione è in parte scesa negli Usa, ma «più per effetto di una leggera ri­duzione di chi cerca lavoro attivamen­te», spiega Edoardo Chiozzi Milleli­re, responsabile per l’Italia di Convic­tions am, società di gestione indipen­dente autorizzata dall’Amf, l’autorità di vigilanza francese. «Questo dato», aggiunge, «ha raffreddato le aspetta­tive di un rallentamento degli acqui­sti di titoli da parte della Fed, anche se il mercato si aspettava che la ban­ca centrale avrebbe comunque fat­to un primo gesto per lanciare un se­gnale della propria volontà di norma­lizzazione». Il risultato, comunque, è che questa manovra ha alleggerito la pressione sui mercati obbligazionari. «Ora la discesa dei nostri Btp dipen­derà di più da fattori interni e in par­ticolare dalle questioni di politica in­terna», continua il money manager. Il momento è delicato anche perché è in corso il cambio di poltrona ai ver­tici della Fed. L’abbandono di Larry Summers alla corsa alla presidenza, ha spianato la strada alla vicepresi­dente attuale, Janet Yellen, che è con­siderata più propensa a continuare le politiche non convenzionali di soste­gno all’economia. «Questo ha pro­vocato una ripresa dei prodotti obbli­gazionari e degli attivi più a rischio, a cominciare dagli emergenti», com­menta Millelire. «Però la Fed rischia di compromettere la propria credibili­tà, visto che dopo aver preparato per mesi i mercati al tapering, ha deci­so di rinviare. Questo potrà creare un po’ più di volatilità ma forse è il prez­zo che si è voluto pagare per indica­re chiaramente ai mercati che il fron­te delle obbligazioni, col decennale americano al 3%, era sceso troppo e avrebbe rischiato di compromettere la ripresa ancora troppo fragile, soprat­tutto viste le incertezze politiche del budget e del tetto del debito. Quin­di pausa per ora sul ribasso degli ob­bligazionari a livello globale. Questo, chiaramente, aiuta i nostri Btp, stabili­tà politica permettendo…».

LA DIFFERENZA COL PASSATO «Essendo tuttora preoccupata per la solidità dell’economia, la Fed vuo­le mantenere un mercato obbligazio­nario ribassista durante il prossimo ci­clo di stretta finanziaria, e per fortuna l’inflazione non dà problemi», com­menta Richard Woolnough, econo­mista della società britannica M&G. Una situazione molto diversa rispetto ai precedenti giri di vite. «Nel 1994, ad esempio, la Fed era più propen­sa ad alimentare incertezza tra gli ob­bligazionisti, perché voleva alzare ra­pidamente i tassi e temeva per l’infla­zione, memore di quanto era succes­so negli anni ’70 e ’80». Nel conte­sto attuale, «anche gli indicatori eco­nomici che solitamente dovrebbero essere i driver di mercato passano in secondo piano, poiché gli investitori sono consapevoli che le reazioni sa­ranno guidate per lo più dagli svilup­pi politici», spiega Paolo Balice, presi­dente dell’Associazione italiana degli analisti finanziari. Del resto, repubbli­cani e democratici si sono dimostra­ti ben lontani dal prendere accordi in modo equilibrato, tanto che sono sta­ti chiusi gli uffici governativi (l’ultima volta in cui questo evento si verificò era il 1996). «L’andamento dell’eco­nomia, seppure migliore rispetto al passato, resta fragile ovunque», taglia corto Nouriel Roubini, professore alla New York University ed economista che per primo ha previsto la crisi eco­nomica del 2008. E aggiunge: «C’è ancora molto da fare. Se si guarda ai numeri macroeconomici siamo ben sotto al potenziale. Inoltre, cinque dei sette Paesi periferici sono in recessio­ne in Europa». Quanto all’Italia, «è diventato davvero urgente che il Pae­se faccia riforme strutturali».

EFFETTO TAPERING – Intervista a Vittoria Cerasi (Università Bicocca)

Resta sempre aggiornato con il nuovo canale Whatsapp di Business People
© Riproduzione riservata