Brand e sport: la partita del marketing

Lo sport è sempre più sfruttato per promuovere i marchi: tuttavia non basta legare il proprio nome a un campione, serve una storia vera da raccontare. E offrire esperienze esclusive

Come fa un ex giocatore di basket Nba a guadagnare dallo stesso brand più del “re” LeBron James? Tutto merito di una firma che ha rivoluzionato il marketing sportivo nel 1984. Lo ha raccontato nei dettagli il documentario The Last Dance su Netflix, l’evento mediatico- sportivo più importante di questo 2020 così tormentato. Tra un canestro e l’altro, tra un anello e l’altro, la storia di Michael Jordan vive un momento fondamentale nella firma con il primo contratto con la Nike. In un’era in cui sui parquet americani dominavano Converse e Reebok, e mentre i Chicago Bulls vestivano Adidas, la stella nascente dell’Nba fu spinta dal suo agente a firmare per un marchio all’epoca di second’ordine: Nike, appunto. Già, fa specie ricordare il passato nemmeno troppo lontano dell’azienda del baffo prima che diventasse la più importante al mondo nel settore dell’abbigliamento sportivo. A fronte di un contratto dorato da 500 mila dollari l’anno per un quinquennio, Nike si aspettava di ricavare da MJ circa 30 milioni di dollari. Dal primo paio di scarpe, proibite dalla Nba per i colori sgargianti, la storia parla di introiti per 40 miliardi di dollari nel 2019 – 43 volte il dato del 1984 – 130 milioni per “Air Mike” che portano il totale degli assegni incassati dall’ex campione a 1,3 miliardi. Il miliardario Michael vanta un patrimonio personale di 2,1 miliardi secondo Forbes Usa, di cui appena 94 milioni dai suoi contratti con Bulls e Washington Wizard. E il marchio che porta il suo nome vive una vita floridissima, nonostante siano passati circa 20 anni dal ritiro. Con 3,1 miliardi di fatturato, il brand col logo distintivo di His Airness vanta un tasso di crescita del 10% e ha invaso anche il mondo del calcio con la sponsorizzazione del Paris Saint-Germain (80 milioni all’anno dopo il rinnovo al 2032).

VALORI VECCHI E NUOVI

Un singolo accordo, un testimonial scelto al momento giusto, una sola firma in un settore fino a quel momento minoritario può, dunque, cambiare per sempre la storia di un’azienda. «Nike ha sfruttato l’essere media del personaggio Michael Jordan, un media più grande della franchigia Nba in cui giocava all’epoca. L’accordo con “Air” Jordan ha fatto crescere l’appeal del marchio. Mike aveva la storia giusta per sfondare e ha creato quel raro mix di notorietà, notiziabilità, mediaticità e reputazione che gli ha permesso di moltiplicare la potenza del messaggio all’infinito. È il caso raro dei campionissimi che valgono più di tutti i loro compagni di squadra», conferma Marco Nazzari, International Managing Director di Nielsen Sports ripercorrendo la storia di Jordan per identificare le caratteristiche ideali di un testimonial. Con un’annotazione principale, oggi non siamo più nel 1984 e i brand chiedono di più ai loro volti. Se Jordan poteva liquidare il tentativo di coinvolgerlo su tematiche politiche con la frase «anche i repubblicani comprano Nike», nell’era del Black Lives Matter questo non sarebbe più possibile. Lo ha dimostrato la stessa Nba chiedendo ai giocatori di cambiare il nome sulla canotta con messaggi positivi durante le settimane giocate nella bolla di Orlando per portare a compimento la stagione interrotta dal Covid-19. «Trent’anni fa, agli albori del marketing sportivo, le aziende cercavano soprattutto visibilità, alternativa alle campagne tradizionali, e poi asset vari come ticketing, possibilità di usare giocatori per eventi interni o campagne. Ora gli obiettivi si sono diversificati e ampliati: oggi un brand quando si avvicina a una sport entity è alla ricerca innanzitutto dell’associazione, che si costruisce soprattutto su una storia alla base di quel contratto», spiega Nazzari. «L’associazione per creare engagement con uno specifico target, per la volontà di farsi percepire credibili da quella fetta di consumatori che si identifica con un certo personaggio. I social sono un volano di impatto sociale e sono un metro efficace della genuinità di una storia. Se lanci un’iniziativa e non manifesti come brand coerenza con il messaggio, il consumatore prende immediatamente le distanze».

Il mercato delle sponsorizzazioni valeva in Italia nel 2019 quasi un miliardo di euro prima dell’esplosione della pandemia da Covid-19. In vista di una molto probabile ingente riduzione degli investimenti da parte degli sponsor, da più parti si è reclamata una detassazione per le sponsorizzazioni in modo da permettere la sopravvivenza delle società sportive fortemente penalizzate dallo stop al pubblico, soprattutto nei palazzetti. Una misura che potrebbe avere un qualche effetto nel breve periodo, ma senza una reale costruzione di valore servirà a poco. Bisogna lavorare sul target e il territorio costruendo un rapporto virtuoso coi brand.

DA TESTIMONIAL A PARTNER

Come? Per esempio, sviluppando contenuti che possono essere veicolati dalle aziende stesse così come dai partner. Oppure si possono usare gli sportivi come influencer e, ancora, raccontare storie al di fuori del semplice perimetro sportivo, come hanno fatto P&G e Airbnb nell’ambito delle partnership con il Comitato olimpico internazionale. I Giochi olimpici, infatti, rimangono il simbolo sportivo con la maggior portata valoriale, nonostante i rigidi limiti all’esposizione commerciale dei brand durante le competizioni a cinque cerchi. Il risultato di questo processo? Un rovesciamento della prospettiva che permette al re della Formula 1, Lewis Hamilton, di far cambiare i colori della livrea alla Mercedes per portare avanti il suo messaggio anti-razzista: «Nessuna azienda, nessuna property sportiva può permettersi di sottovalutare l’aspetto dell’impatto sociale», aggiunge il manager di Nielsen Sports. «La Csr come si chiamava una volta, oggi più correttamente Corporate Citizenship, è fondamentale. Per noi di Nielsen la diversity inclusion è un tema centrale e lo è anche nello sport. Il caso più eclatante di esplosione di notorietà e appeal è il movimento paralimpico: le Paralimpiadi in 20 anni sono diventate il secondo evento multisport più importante del mondo». Ben più commerciali sono i Mondiali di calcio, anche se la storia della coppa è legata a stretto filo con i palloni Adidas ideati per ogni occasione in una storia che va oltre i risultati delle singole edizioni.

La compagnia di assicurazioni Allianz ha scelto invece un’altra strategia: legare il proprio brand non ad atleti o oggetti di gioco, bensì alle arene dove lo spettacolo si consuma. E ha acquisito così i naming rights di diversi impianti da Monaco di Baviera (Allianz Arena) a Torino (Allianz Stadium), Vienna (Allianz Stadion) e Nizza (Allianz Riviera). E ancora l’Allianz Field di St Paul in Minnesota, Stati Uniti, e l’Allianz Parque di San Paolo del Brasile per il calcio. Senza dimenticare l’Allianz Cloud, l’ex Palalido di Milano, e l’Allianz Dome, la casa della Pallacanestro Trieste. Esperienze interessanti arrivano anche dall’estero. La compagnia telefonica britannica O2 ha invece trasformato i tifosi di rugby in testimonial, forte di una partnership più che ventennale con la nazionale ovale inglese: nel 2016 la campagna WearTheRose fece schizzare i clienti appassionati di rugby da 300 mila a 1,8 milioni di unità. Mentre Fitbit strinse un accordo con la Federnuoto australiana che consentiva all’azienda di raccogliere e raccontare i dati biometrici di 100 nuotatori in vista dei Giochi del Commonwealth 2018 organizzati sulla Gold Coast. Per non parlare di Red Bull, una lattina di bevanda energetica che ha costruito un mercato di cui è leader sponsorizzando sport estremi o di nicchia per poi lanciarsi con il proprio nome nel calcio e nella Formula 1.

LA SFIDA DEL LUSSO

Tutto questo può essere tradotto anche nel mondo del luxury, anche se con i dovuti adattamenti per i brand avvolti da un’aura di vera esclusività. Come fa Rolex che in un certo senso ha inventato i testimonial sportivi nel 1927 con Mercedes Gleitze, la prima donna ad attraversare a nuoto la Manica con un Oyster al polso. E dire che la definizione di sport marketing è stata usata per la prima volta solo nel 1979 sulla rivista Advertising Age. Passando per lo Steve McQueen automobilistico e i tanti eventi sportivi sponsorizzati, il volto odierno dell’azienda svizzera è sicuramente incarnato dal tennista Roger Federer che è stato accompagnato, un record dopo l’altro, dai segnatempo della Casa svizzera. Il rivale Richard Mille si è spinto oltre sul concetto di estremo, chiedendo ai suoi ambassador di vestire i suoi orologi nelle condizioni più difficili: guidare una Formula 1 oppure sfidare proprio Federer al polso del rivale di sempre dell’elvetico Rafa Nadal. Eppure, servono molle speciali di attivazione per stimolare anche chi sembra potersi permettere tutto o quasi. Panerai, per esempio, ha scelto le experience, occasioni uniche ed esclusive che si possono vivere acquistando le edizioni limitate dei nuovi modelli Submersible a livello globale (con i velisti di Luna Rossa) o locale (con il campione olimpico di nuoto Gregorio Paltrinieri).

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