California dreaming, quando la start up è digitale

Anche le giovani aziende innovative, come i giovani cervelli, scappano all’estero. Basteranno gli interventi della politica a trattenere la creatività imprenditoriale italiana? Rispondono le imprese che sono sbarcate nella Silicon Valley grazie a Mind the Bridge

«Un Paese cresce se ha imprese così», dove per “così” si intendo­no le start up digitali. L’ha detto il ministro dello Sviluppo, Cor­rado Passera, durante la confe­renza stampa di presentazione del decreto legge dedicato alle aziende che innovano. In un’Italia che fatica a fare si­stema, e che per anni si è autocelebrata con convegni su innovazione, senza capire veramente cosa ci sia alla base dei diversi successi d’Oltreoceano, è arrivata finalmente un’iniziativa governativa con una visione d’insieme anche sull’innovazione che corre sul Web.

C’È CHI CI HA GIÀ PENSATO. La Silicon Valley ha fatto scuola. In Italia, fino a ora (in assenza di un piano del Governo) a incentivare la creazio­ne di nuove aziende sono stati i privati. Tra questi c’è chi ha dato vita a una fondazione per cercare le migliori idee di business: si chiama Mind the Bridge Foundation (www.mindthebridge.org) ed è un’iniziativa non profit ideata da Marco Marinucci che ne è anche direttore esecutivo. Chairman e longa manus per le operazioni in Italia di MtB è il professore universitario Alberto Onetti. Lo scopo del­la fondazione è, secondo le parole dei suoi creatori, «pro­muovere un ecosistema imprenditoriale italiano basato su idee innovative», oltre a offrire l’opportunità agli impren­ditori italiani d’entrare in contatto proprio con la Silicon Valley, sia in termini di mercato sia per la ricerca dei famo­si venture capitalist.

UNA SU MILLE CE LA FA. Alle start up selezionate annualmente, MtB offre la possi­bilità di partecipare a un Boot Camp formativo e a diver­se sessioni di coaching, in preparazione per il MtB Venture Camp (l’ultima edizione si è tenuta a Milano il 26-27 ot­tobre). A volte però sforzi come questi possono non basta­re e spesso la sede di queste start up, per decisione dei founder, si sposta negli Stati Uniti o in Gran Bretagna in cerca di un “terreno più fertile”. Il tessuto economico italiano in­fatti al momento è privo dei finanziatori e del supporto necessario alle start up. Nono­stante questa tendenza sia in grande crescita, tra i giovani, non mancano gli ottimisti, «qual­cosa sta cambiando, un decreto ha in ogni caso la sua valenza, e ci auguriamo che non sia solo l’approccio e l’interesse mediatico», ci ha racconta­to Gioia Pistola, 27 anni, co-founder di Atooma (vedi box dedicato). «Penso a un punto importante», con­tinua Pistola, «meno tassazione per il costo delle risorse umane. Per una start up il costo del lavoro è la voce prin­cipale ed è su quello che dovrebbero essere messe in cam­po molte più agevolazioni. Lo stesso per la liquidazione o il fallimento di un’azienda quando avviene nell’ambito del­la legalità, è molto frequente un insuccesso per le start up, fa parte del gioco e non si può più applicare il tradiziona­le bollino nero».

ITALIA BYE BYE. Durante il recente Venture Camp di Milano sono anche stati presentati i dati della ricerca promossa da Mind the Bridge con il supporto scientifico del CrESIT dell’Univer­sità degli Studi dell’Insubria di Varese. L’intenzione del­la raccolta di questi dati è quella di tracciare il profilo del­le realtà innovative presenti nel nostro paese partendo dal­l’analisi di quelle che hanno partecipato alla Seed Quest 2012. La ricerca conferma come una percentuale impor­tante di start up italiane (11%) abbia deciso di incor­porarsi all’estero, un dato in crescita del 20% rispetto al­l’anno precedente, indice di un evidente – e presumibi­le – difficoltà dell’Italia ad attrarre investimenti e nuove imprese. «Questo dato può segnalare un possibile rischio di corpora­te drain, ossia una fuga delle nostre aziende più prometten­ti», segnala Alberto Onetti, Chairman di MtB. «Le start up per loro natura sono scarsamente radicate e quindi ten­dono a muoversi dove trovano condizioni di contesto più favorevoli alla loro costituzione e al loro sviluppo». E an­cora «non bisogna demonizzare la mobilità che, di per sé, non è un fattore negativo da censurare a tutti i costi». Su questo argomento ha aggiunto Marco Marinucci di MtB: «Alcune delle start up che passano da noi troveranno il loro percorso di sviluppo negli Usa, per altre questo acca­drà in Italia. Quello che è rilevante è che siano messe nel­le condizioni di crescere».

NON TUTTO È PERDUTO. Nonostante l’Italia sia la patria della creatività e gli sforzi in atto per rialzare la testa dal punto di vista economico, il Paese rimane ancora off limits per chi vuole creare impre­sa a causa del tessuto tecnologico, dell’innovazione e della ricerca. Secondo i dati evidenziati da MtB, tra i fattori in grado di influenzare la localizzazione di una start up si tro­va al primo posto il network di contatti (69%), seguito dal­la possibilità di accedere a risorse umane altamente specia­lizzate (per esempio, programmatori, manager, ingegneri) e la prossimità ai centri di ricerca (40%), mentre l’accesso al capitale (43%) si colloca solo al quinto posto. Quest’ul­timo dato ci offre ancora qualche speranza, perché forse è più semplice cominciare a incentivare l’innovazione con interventi mirati – il decreto potrebbe essere un primo pas­so – piuttosto che rilanciare in toto un sistema economico che al momento si trova in grossa crisi.

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