La birra Peroni, i formaggi Galbani, la pasta Buitoni, o i cioccolatini Perugina. Oppure il lusso griffato Gucci e Lamborghini, ma anche i conti correnti di Bnl, le polizze della compagnia assicurativa Genialloyd e i servizi energetici di Edison. Sono tutti prodotti made in Italy, spesso molto amati dai consumatori, che hanno una caratteristica in comune: sono venduti o fabbricati da aziende con un azionista di maggioranza straniero, capace di fare il buono e il cattivo tempo nella nomina dei manager e nel decidere i piani industriali. Nell’ultimo quinquennio, il numero di marchi e di imprese italiane finiti in mani estere è cresciuto a ritmi impetuosi. Secondo i dati della società di consulenza Kpmg, soltanto nel 2012 sono state effettuate 91 acquisizioni, altre 109 nel 2011, 83 nel 2010, 38 nel 2009 e ben 116 nel 2008, per un valore complessivo di oltre 55 miliardi di euro.
L’ARREMBAGGIO DEGLI STRANIERI. Per molti osservatori, tuttavia, non è detto che questo fenomeno sia necessariamente una sciagura, perché tirando le somme può portare grandi benefici alla nostra economia. Seppur non tutte le aziende tricolori finite in mani straniere oggi scoppino di salute – solo per citarne alcune alle voci Alcoa di Portovesme, in Sardegna, Ideal Standard ed Heinz Italia -, altre scoppiano di salute. È il caso del Nuovo Pignone di Firenze, nome storico e glorioso dell’industria italiana, che nel 1992 fatturava circa un miliardo di euro l’anno e oggi sfiora i 5 miliardi, mentre i profitti sono passati da appena 20 milioni a circa un miliardo. Il miracolo del Pignone, citato spesso come caso di scuola di una privatizzazione che ha funzionato, porta la firma di una multinazionale Usa: il gruppo statunitense General Electric che nel 1993, tra mille polemiche, lo acquisì dall’Eni (cioè dallo Stato italiano) per inglobarlo nella propria divisione Ge Oil&Gas e trasformarlo in un polo d’avanguardia nella produzione di componenti, turbine e macchinari per l’industria petrolifera ed energetica. La storia della società toscana viene oggi considerata da molti osservatori come la prova vivente che l’acquisizione di imprese italiane da parte di aziende estere rappresenta un’opportunità di crescita per il nostro Paese, più che un rischio. Non va dimenticato, poi, quello che è avvenuto nell’industria alimentare dove diversi marchi nazionali, nell’arco degli ultimi 30 anni, sono caduti in mani estere. Anche in questo settore, la presenza straniera ha significato un consistente aumento dei posti di lavoro, da 100 mila a 400 mila unità, e una crescita dell’export da 2 a 10 miliardi di euro. Tirando le somme, i gruppi esteri presenti nella Penisola, attualmente danno lavoro a oltre 3 milioni di persone, circa 1,2 milioni dipendenti diretti e altri 1,9 milioni nell’indotto. Si tratta di cifre che, almeno in teoria, non lasciano spazio a dubbi e che fanno traballare le tesi di chi vuole proteggere a tutti i costi l’italianità delle grandi imprese. «È una favola che continuiamo a ripeterci, probabilmente per coprire inefficienze nostrane», ha detto Alberto Nagel, ad di Mediobanca, la banca d’affari milanese un tempo custode degli equilibri all’interno del capitalismo nazionale, riferendosi all’affaire Telecom Italia-Telefonica. Ma il ragionamento di Nagel si adatta anche ad altre operazioni con cui le multinazionali estere hanno cercato di posizionarsi in forze a sud delle Alpi. «L’italianità degli azionisti non è un valore in sé», gli ha fatto eco pure Giuseppe Recchi, attuale presidente dell’Eni, nonché guida del Comitato Investitori esteri di Confindustria, l’organizzazione rappresentativa delle più importanti imprese straniere presenti nel nostro Paese. Per Recchi non conta quale sia il passaporto di un’azienda che investe in Italia, piuttosto bisogna far trovare a questi investitori esteri, un terreno fertile per mantenere le produzione, la tecnologia e il know how nel nostro Paese.
LA SFIDA DELLA PRODUTTIVITÀ. A giudicare dai numeri, le aziende straniere hanno ben poco da invidiare alle italiane, almeno per quanto riguarda produttività e innovazione (si vedano le tabelle in pagina). Secondo un’analisi effettuata dal Comitato Investitori esteri di Confindustria, le nostre società controllate da multinazionali estere sono infatti quelle che investono di più in ricerca e sviluppo (circa 2.200 euro all’anno per ogni addetto, contro una media nazionale di appena 500 euro) e che generano il valore aggiunto più elevato (quasi 65 mila euro per ogni dipendente, contro i 33.700 euro delle imprese italiane). Il perché di questo divario non è difficile da capire: le aziende che decidono di investire in Italia fanno spesso parte di grandi gruppi internazionali presenti in tutti e cinque i continenti, hanno dunque le spalle ben robuste e, in molti casi, esprimono il meglio dell’imprenditoria mondiale. Non a caso, negli ultimi anni, l’Italia è cresciuta pochissimo anche per la sua scarsa capacità di attirare capitali provenienti da oltreconfine: nel periodo 2008-2012, per esempio, il flusso netto di investimenti stranieri nella Penisola è stato di appena 12 miliardi di euro, corrispondenti allo 0,6% del Pil, contro i 66 miliardi della Gran Bretagna, i 37 miliardi della Francia o della Spagna e i 25 miliardi della Germania.
LE PROPOSTE DI CONFINDUSTRIA. Snellire il fisco e la burocrazia, investire nella scuola e nella ricerca e semplificare le normative sul lavoro. Sono le proposte avanzate dal Comitato Investitori esteri di Confindustria per favorire l’afflusso di capitali stranieri nel nostro paese. Tra i provvedimenti caldeggiati, c’è per esempio il potenziamento del Desk Italia, il nuovo organismo creato dal governo Monti, che svolge la funzione di interlocutore unico per le imprese estere che vogliono fare un investimento produttivo nel nostro Paese. Seguendo l’esperienza di altre realtà europee, le multinazionali associate a Confindustria propongono anche l’istituzione della figura di un tutor, cioè un funzionario pubblico altamente qualificato, capace di guidare le aziende straniere in tutti gli adempimenti burocratici e amministrativi necessari ad avviare un’attività in Italia. Anche l’Agenzia delle Entrate dovrebbe dotarsi di una struttura dedicata alla fiscalità delle multinazionali, che purtroppo presenta molte zone d’ombra e costringe spesso le imprese estere a subire la richiesta di sanzioni non dovute, che vengono poi annullate o ridotte notevolmente durante i contenziosi tributari. Altri interventi proposti riguardano la scuola e l’università, che in Italia riescono a dialogare difficilmente con il mondo del lavoro. Le aziende straniere ritengono infatti necessarie alcune iniziative importanti come il potenziamento dei corsi accademici in lingua inglese, l’accreditamento degli atenei italiani nei ranking universitari internazionali, l’avvio dei percorsi di formazione professionale fin dalla scuola media superiore, in particolare negli istituti tecnici. E per finire, ma non per questo meno importante, occorrerebbe la fitta selva di norme che spesso impediscono le assunzioni e ostacolano la flessibilità in entrata e in uscita. Per riuscirci, sempre secondo gli investitori esteri, bisogna favorire la mobilità internazionale dei dipendenti ed eliminare i troppi vincoli sui contratti di lavoro a tempo determinato. Il che farebbe tanto bene anche agli imprenditori made in Italy.
APPROFONDIMENTI | |
Le barricate contro gli stranieri? Roba da Medioevo Intervista a Giacomo Vaciaco | Capitali da altri Paesi? Meglio quelli di alta qualità Intervista a Luca Marcolin |
LETTA PUNTA SU DESTINAZIONE ITALIA |
Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo. È lo slogan con cui il governo Letta, nel settembre scorso, ha lanciato un nuovo piano per attrarre gli investimenti esteri nel nostro Paese. Il nome del programma è Destinazione Italia: 50 misure legislative che spaziano dal fisco al lavoro, dalla giustizia civile sino alla ricerca. Lo scopo? Snellire la burocrazia, ridurre il peso delle tasse sulle nuove iniziative imprenditoriali e creare una rete di infrastrutture più efficienti. Nel breve periodo, il governo intende per esempio rendere più veloci le procedure per le controversie di lavoro, aumentare la digitalizzazione degli uffici pubblici, creare un nuovo fondo per gli investimenti nelle start-up e aumentare gli interessi di mora sulle fatture pagate in ritardo per rendere più veloce la riscossione dei crediti commerciali. |