Dice il politologo e fondatore dell’Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi, che la competitività per un Paese è un concetto di difficile interpretazione. Paul Krugman sosteneva che quella per la «competitività» era solo un’ossessione. Forse conviene prendere in prestito la tesi di Bill Clinton che aveva sostenuto come «ogni Paese è come una grande impresa in concorrenza con le altre nel mercato globale».
«Interpretava competitività come sinonimo di attrattività: ciò per cui si compete sono gli investimenti, che potrebbero concretizzarsi a casa nostra o altrove. Per conquistarli vanno semplificate le procedure e costruite piste d’atterraggio fiscali che stimolino le imprese a fare scalo qui e non altrove», dice Mingardi. Quel che è evidente è che stiamo diventando un vaso di coccio tra vasi di ferro. L’Ue tra Stati Uniti e Cina rischia di perdere la sfida della competitività, ma non può certamente permetterselo.
Competitività: il quadro in Europa
«L’Unione europea è sotto pressione, dobbiamo rilanciare la nostra strategia per restare al passo», ha detto il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, al termine dell’ultimo Ecofin informale a Gand, a cui ha partecipato anche l’ex premier Mario Draghi, che ha davanti a sé un compito improbo: è stato incaricato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, di redigere un report proprio sulla competitività in Europa. La volontà è quella di capire l’ammontare dei finanziamenti necessari per realizzare gli obiettivi strategici che sono tanto economici (doppia transizione verde e digitale) quanto politici (sicurezza e difesa). Il capitale pubblico, né quello di ogni singolo Paese né quello condiviso a livello Ue, non è sufficiente a finanziare e ad attrarre capitali a fronte di una massa enorme di spese stimabile in diverse centinaia di miliardi di euro all’anno per dieci-vent’anni. Molti Stati sono altamente indebitati e non possono indebitarsi ancora di più, anzi dovranno esserlo meno in un contesto in cui è sempre più difficile gestire le proteste sociali. Neppure basterà il capitale prestato attraverso il sistema bancario, dal quale le società non finanziarie europee restano prevalentemente dipendenti. Ecco perché la Ue ha estremo bisogno di capire lo stato dell’arte, lo stock di finanziamenti che servono.
Un nuovo ordine economico globale
Il «divario», ha sottolineato Draghi, «è ovunque: produttività, crescita del Pil, Pil pro capite. Perché? Vanno considerate tre serie di fatti: l’ordine economico globale in cui l’Europa ha prosperato è scosso», perché faceva affidamento «sull’energia russa, sulle esportazioni cinesi e sulla difesa degli Stati Uniti. Questi tre pilastri sono meno solidi di prima». Inoltre, «la velocità nell’intraprendere la transizione verde sta imponendo un senso di urgenza nel cambiare le nostre catene di approvvigionamento». Gioca un ruolo anche «la velocità di cambiamento impressa dall’intelligenza artificiale». Serve indicare, allora, una variabile neutra per definire la competitività e forse possiamo identificarla nella produttività totale dei fattori, che misura la crescita del prodotto che non viene spiegata dall’impiego dei fattori produttivi, capitale e lavoro. È una misura dell’efficienza globale dell’economia nel produrre reddito dato l’impiego dei fattori produttivi, per effetto di una miglior tecnologia e di una migliore capacità di utilizzare i fattori produttivi stessi.
La produttività in Europa, Stati Uniti e Italia
In un’analisi accurata dell’Osservatorio Conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano a parità di fattori produttivi impiegati, capitale e lavoro, l’economia statunitense è in grado di produrre il 30% in più di quanto produceva nel 1980, mentre l’economia europea produce solo il 10% in più. Deprimente il caso italiano, dove la produttività totale dei fattori, dopo essere rimasta costante nel ventennio che precede il 2000, ha iniziato un percorso decrescente negli anni successivi. Nel 2019, a parità di fattori impiegati, l’economia italiana è in grado di produrre l’11% in meno di quanto producesse nel 1980.
Le conclusioni di Massimo Bordignon e Francesco Scinetti, autori dell’analisi, sono impietose: «Alcune delle condizioni che hanno consentito ai Paesi europei di crescere, sia pure in media debolmente, negli ultimi vent’anni (l’apertura dei mercati internazionali con la possibilità di esportare liberamente nelle economie emergenti dell’Asia, l’energia a basso costo dal mercato russo, la spesa per la difesa delegata agli Stati Uniti) sono tutte rimesse fortemente in discussione dal nuovo scenario geopolitico. In più, l’Europa sembra essere rimasta indietro in tutte le tecnologie del futuro, che si tratti dello sviluppo dell’intelligenza artificiale o del computer quantistico. Anche perché queste tecnologie richiedono enormi investimenti e lo sfruttamento di economie di scala che le imprese europee, mediamente piccole rispetto ai colossi cinesi e americani, e i mercati europei, ancora pesantemente segmentati (a cominciare da quelli bancari e finanziari), non sono in grado di sostenere. Il rischio è quello di veder allargarsi ulteriormente la differenza rispetto agli Stati Uniti (e non solo) in termini di produttività e, dunque, di reddito».
Gli europei hanno più tempo e gli americani più soldi
Quanto al tempo dedicato all’impiego, gli Usa sono in testa rispetto agli europei con 1.811 ore lavorate all’anno nel 2022 (Israele 1.892), contro 1.498 ore della Finlandia, 1.372 della Danimarca, 1.449 dell’Islanda, 1.440 della Svezia. L’Italia è tra i Paesi stacanovisti con 1.694 ore lavorate all’anno insieme alla Polonia con 1.815 ore. La Francia invece si ferma 1.511, la Germania a 1.341 (è il Paese al mondo con meno ore lavorate all’anno). Di recente il Financial Times ha analizzato questi dati partendo dalle parole di Nicolai Tangen, che gestisce il Fondo sovrano norvegese, il più grande fondo finanziario pubblico al mondo. Tangen sostiene che esiste tra americani ed europei una differenza nel «livello generale di ambizione. Noi europei non siamo molto ambiziosi. Dovrei stare attento a parlare di equilibrio tra lavoro e vita privata, ma gli americani lavorano di più». In sintesi, per il FT, «gli europei hanno più tempo e gli americani più soldi» e questo perché gli americani, che in genere hanno meno ferie retribuite, guadagnano l’equivalente di più di un’ora di lavoro extra ogni giorno feriale, rispetto agli europei. E «poiché gli americani sono anche più produttivi per ora lavorata rispetto alla maggior parte degli europei, i loro redditi medi sono più alti che in tutti i Paesi europei, a eccezione del Lussemburgo, dell’Irlanda, della Norvegia e della Svizzera».
Una delle ragioni per cui gli americani lavorano di più, l’ha spiegato l’Economist citando uno studio del 2005 dell’economista italiano Alberto Alesina (prematuramente scomparso qualche anno fa) dell’Università di Harvard: i sindacati in Europa sono più forti rispetto a quelli americani e hanno risolto il problema di azione collettiva lottando per le ferie retribuite, e alla fine sono state sancite per legge. «L’America, con i sindacati più deboli», ricorda l’Economist, «è uno dei pochi Paesi senza ferie retribuite obbligatorie. Il tempo libero ben regolamentato in Europa potrebbe quindi generare più tempo libero perché è socialmente più accettabile, e il mercato risponde offrendo modi più validi per non lavorare». L’aspetto culturale non va sottovalutato. «La maggior parte degli americani preferirebbe probabilmente l’orario di lavoro europeo», scrive il Financial Times. «È solo che i loro datori di lavoro, e il costo dell’assicurazione sanitaria, si mettono in mezzo».
Qualcosa però negli Stati Uniti sta cambiando grazie allo smart working: «Il 15% in più svolto ogni anno dagli americani», scrive l’Economist, «avviene ora nel comfort della propria casa o, occasionalmente, sulla spiaggia, forse anche in una di quelle europee», con un miglioramento dunque della qualità della vita, mentre i Europa il lavoro da remoto non ha ovunque la stessa diffusione. In Italia dal primo aprile il lavoro agile non rientra più tra i «diritti» del lavoratore, come durante gli anni della pandemia, ma passa tra le «modalità di esecuzione della prestazione» e, dunque, prevede un accordo individuale tra lavoratore e azienda.
Articolo pubblicato sul numero di Business People di luglio-agosto 2024. Scarica il numero o abbonati qui
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