Le aziende del comparto del bello, quelle dell’Economia della Bellezza, rappresentano nel 2021 il 24,1% del Pil nazionale, dimostrandosi più resilienti rispetto a quelle di altri settori, e si aprono al concetto di responsabilità sociale. Per il 58% degli italiani, infatti, i valori dell’azienda sono un parametro “decisivo” nella scelta di brand e prodotti e per il 33% sono “importanti”, evidenziando quanto le tematiche ESG abbiano acquisito centralità per i consumatori. Questi sono alcuni dei dati rilevati dal Market Watch Economia della Bellezza, realizzato dall’Ufficio Studi di Banca Ifis e giunto alla sua seconda edizione. Quest’anno il rapporto si è misurato con un biennio critico come quello del 2020-2021, che ha però acceso un faro sull’importanza della responsabilità sociale e su come, di conseguenza, si sia evoluto il concetto stesso di Bellezza che si orienta sempre più verso dimensione dell’etica e del “giusto”: per aziende e consumatori lo scopo del fare impresa è sempre più determinante e le aziende purpose-driven risultano vincenti.
L’elemento di grande novità che emerge dal Market Watch di quest’anno riguarda il concetto stesso di Economia della Bellezza, che diventa la convergenza di due anime dell’economia italiana: imprese della bellezza made in Italy e imprese purpose-driven. La Bellezza, dunque, si evolve e si arricchisce del purpose.
L’impatto di questo comparto, considerato nel suo insieme, sul Pil italiano è del 24,1%. L’8,4 % di questa quota è rappresentato da aziende purpose-driven: oltre 46.000 aziende guidate da un approccio orientato allo scopo che producono 650 miliardi di euro all’anno. Queste imprese rappresentano 11 settori produttivi, a dimostrazione che la scelta di avere un impatto positivo su comunità e territori prescinde dalla tipologia di business e dai mercati di riferimento. Le aziende che scelgono questo approccio hanno un fatturato medio di 14 milioni di euro, riflettendo pienamente la struttura del sistema produttivo italiano caratterizzata da un ricco parterre di Pmi. La scelta di costruire un’attività fondata sui valori oltre che sul profitto non è un fenomeno esclusivo degli ultimi anni: l’89% delle imprese purpose-driven sono già consolidate sul mercato mentre solo l’11% è nato dal 2018 a oggi.
Aziende più resilienti
Senza includere le aziende purpose-driven, l’impatto dell’ecosistema Economia della Bellezza sul Pil italiano è passato dal 17,2% del 2019 al 15,7% del 2021. Una flessione dovuta soprattutto al calo dei flussi turistici derivanti dalle restrizioni sulla mobilità ma che conferma comunque la resilienza di queste aziende che hanno contribuito al recupero del Pil nazionale, con un calo dei ricavi dal 2019 al 2021 dello 0,7%, molto più contenuto dunque rispetto al 4,6% delle altre imprese fuori perimetro.
La richiesta del purpose arriva dal consumatore
Dallo studio è emerso un ulteriore nuovo trend: la diffusione dei modelli di business purpose-driven non è una moda ma una richiesta dei clienti. Una sezione dello studio, gestita con la collaborazione della multinazionale della ricerca Yougov, offre uno scenario in cui per il 58% degli italiani i valori sono ‘decisivi’ nella scelta di brand e prodotti mentre un altro 33% li ritiene ‘importanti’, evidenziando quanto le tematiche sociali e ambientali siano diventate rilevanti. Sostenibilità ambientale, rispetto dei lavoratori, attenzione ai diritti sono alcuni degli obiettivi delle imprese che il consumatore valuta, superando la concezione che porrebbe sostenibilità sociale e sostenibilità ambientale come due concetti contrapposti.
I clienti si stanno quindi trasformando da semplice pubblico ad attori critici al centro della scena che vogliono interagire, conversare, condividere, osservare e giudicare. In particolare, gli italiani sono sempre più interessati ad approfondire i valori e il modello di business delle imprese e, di conseguenza, sono importanti anche le modalità di comunicazione che l’azienda usa per veicolare il proprio impegno sociale o ambientale: il 31% degli italiani ascolta la voce dei dipendenti dell’impresa; il 30% consulta bilanci di sostenibilità e altri report e rendiconti; un altro 29% si affida alle certificazioni di organismi indipendenti.
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