L’Italia? È un Paese per robot

Tra speranze di crescita della produttività e timori di perdere posti di lavoro, prosegue la pacifica invasione della penisola da parte delle ultime tecnologie dell’automazione. E, a sorpresa, si scopre anzi che stimolano l’occupazione. Anche se…

L’Italia? È un Paese per robot© Getty Images

Una provocazione o la realtà? La domanda che in molti si pongono è questa: anche in Italia lo sviluppo e le fortune della manifattura passano dall’utilizzo massiccio dei robot? Una volta questo quesito sarebbe stato paradossale. I robot, anche per le caratteristiche antropomorfe, sono stati sempre considerati come il principale fattore di sostituzione di forza lavoro. Questa sensazione è stata poi nel tempo convalidata da approfondimenti accademici che si sono occupati di mettere nero su bianco i numeri della sostituzione. È il caso dello studio di Carl Benedikt Frey e Michael Osborne uscito nel 2013, secondo il quale l’automazione avrebbe messo a repentaglio il 47% dei posti di lavoro statunitensi. Si sarebbero salvati solamente i lavori rientranti nel cosiddetto «collo di bottiglia tecnologico» composto da mansioni (task) basate sulla creatività e sull’interazione tra umani.

D’altronde il tema della disoccupazione tecnologica, tesi sostenuta da sempre da neo-luddisti, viene dalla notte dei tempi. Perché l’obiettivo dell’uomo è sempre stato quello di affidare alle macchine i lavori ritenuti ripetitivi e i lavoratori situati in questa fascia si sono sempre reputati a rischio. Anche Omero immaginò dei camerieri meccanici per portare gli “aperitivi” alle divinità. Quasi 3 mila anni fa. Da sempre l’homo sapiens cerca di scaricare le fatiche sulle macchine, salvo poi lamentarsene: all’inizio del Novecento Cesare Lombroso accusava le biciclette di essere uno strumento di induzione alla criminalità. Eppure non solo nella letteratura economica, ma anche nelle analisi dell’industria, non c’è traccia di quella che i due economisti Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, in un ansiogeno libro del 2011, chiamano Race against the machine, la gara contro la macchina.

L’Italia è (fortunatamente) un Paese dei robot

A distanza di un arco di tempo sufficientemente ampio non sembra che stiano vincendo le Cassandre se persino nelle sue Considerazioni finali da governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta il 31 maggio scorso, ha potuto sostenere che l’Italia è (fortunatamente) un Paese dei robot. Escludendo il settore automobilistico, l’industria manifatturiera italiana è la più automatizzata e la sua evoluzione nel tempo risulta simile a quella tedesca e migliore di Francia e Spagna. Panetta ha sostenuto che le produzioni di apparecchi elettrici e di prodotti in metallo sono in Italia tradizionalmente le più intensive nell’uso dei robot e a questi settori si sono aggiunti il metallurgico, l’alimentare e il farmaceutico, nei quali il numero dei robot installati è cresciuto nell’ultimo decennio a un ritmo più sostenuto rispetto agli altri Paesi.

È un fatto che continui l’invasione dei robot industriali. Che sfiora quota 4 milioni nel mondo, di cui 553 mila installati soltanto nel 2022 e di questi più della metà in Cina (290.300). Al sesto posto c’è l’Italia con 11.500, che si colloca in una posizione di vertice. Nel 2021 ne abbiamo venduti all’estero 14.083. Si tratta di una crescita in termini relativi sul 2020 (+17%), seconda solo alla Cina. Non è un caso che, a parte Pechino che da oltre un ventennio ha iniziato la sua corsa per occupare tutti gli spazi della scienza e della tecnologia, gli altri Paesi siano delle economie a forte vocazione automobilistica (Giappone, Corea, Germania, Usa e Italia).

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La Fiat, ora Stellantis, ha fatto da catalizzatore indiretto di interessi e risorse. Si può tratteggiare anche una ulteriore relazione tra sviluppo dell’industria robotica e ricerca scientifica: abbiamo delle eccellenze storiche come il Sant’Anna di Pisa. Come spiegava il fondatore del Cnr Vito Volterra, talvolta è la scienza che crea l’industria (come per le batterie di Volta) e talvolta è l’industria stessa che alimenta e stimola la scienza (è il caso del motore a vapore e della termodinamica).

Eppure, occorre stare attenti al marketing. Quando vediamo la strabiliante capacità del robot di Elon Musk di fare stretching al mattino, va ricordata una cosa: abbiamo visto il video giusto e non gli altri cento in cui il robot cadeva su sé stesso. Su questo vale la pena di cercare online i video delle catastrofi dei robot della Boston Dynamics, nati con finalità militari. Ma è indubbio che la robotica sia uno stimolo all’occupazione, più che una minaccia. Se si prende l’indice di distribuzione dei robot industriali per numeri di occupati, si vede chiaramente che la crescita di quelli installati si accompagna a una presenza industriale vivace e a una occupazione in crescita. Le analisi di Bankitalia riconoscono che nel breve periodo l’automazione può dar luogo a effetti di sostituzione degli operai, ma sottolinea come al tempo stesso l’immissione di tecnologia possa accrescere la domanda di nuovi profili professionali e possa indurre guadagni di produttività i quali, rafforzando la competitività e aumentando la scala di produzione, possono sostenere i livelli di occupazione nel lungo periodo.

L’adozione di robot ha avuto sull’occupazione effetti negativi negli Stati Uniti, ma positivi in Francia, Germania e Italia

Per dirla in parole povere se, grazie anche all’automazione l’azienda va bene e regge il mercato anche la pianta organica può crescere, in caso contrario no. Va semplicemente fuori mercato. E comunque, sottolinea Bankitalia, le analisi disponibili mostrano che finora l’adozione di robot ha avuto sull’occupazione effetti negativi negli Stati Uniti (per ogni robot si sono persi sei posti di lavoro diretti che scendono a tre se si guarda complessivamente), ma positivi in Francia, Germania e Italia. Lo studio citato è del 2021 ed è stato firmato da Davide Dottori e sostiene che tra il 1996 e il 2021 i settori che hanno incrementato di più l’automazione hanno avuto una crescita del numero di occupati e della produttività in linea con gli altri comparti. In Italia non emerge nessuna correlazione negativa con l’occupazione, mentre si riscontra una relazione positiva con la produttività.

I robot nelle fabbriche non sono una novità come mostra la relazione con le catene di montaggio delle automobili: dal fordismo al toyotismo siamo passati velocemente nel Novecento al “robotismo”. Ma i vecchi esemplari erano imprigionati in gabbie di protezione, non certo per loro, ma per gli operai. Ora siamo nell’era della specie nuova, quella “collaborativa”. Si tratta di macchine più evolute che possono condividere il piano di lavoro con l’essere umano, ma che per farlo, seppure con un’intelligenza e una tecnologia più elevata, hanno dovuto sacrificare la velocità. Non un fatto secondario. Ma questa nuova ramificazione potrebbe essere un ulteriore slancio per i Paesi come l’Italia a vocazione robotica.

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Secondo Federico Butera, uno dei più quotati esperti di scienza dell’organizzazione, oltre a registrare i dati dei robot bisogna ragionare sugli utilizzatori. Citando dati Istat, solo un quarto delle imprese è pro-attivo nel campo dell’innovazione ed è presumibile che l’automazione sia addensata qui. Ma bisogna pensare anche a quei tre quarti di imprese statiche e in sofferenza innovativa, per lo più di piccole dimensioni, che rischiano di finire fuori mercato. La crescita del 2021 ci induce a ragionare sulla fabbrica post Covid, non solo intelligente e 4.0, ma anche gestibile da remoto. Al progetto sta lavorando anche l’Istituto Italiano di Tecnologia, grazie allo sviluppo della realtà virtuale. Per ora la tecnologia esiste, ma è sperimentale. Portarla in maniera massiccia nelle fabbriche è un’altra scommessa.

Come la pandemia ha portato a una accelerazione nell’uso degli strumenti digitali di pagamento e delle vetrine di commercio elettronico, ha portato anche a un ripensamento delle fabbriche. Se il cosiddetto lavoro di concetto può essere frammentato con lo smart working in orari improbabili e spazi periferici rispetto all’ufficio stesso, per una catena di montaggio che deve sincronizzare macchine ed esseri umani, l’equazione si complica, anche se sta irrompendo l’intelligenza artificiale. Butera, ragionando sull’AI applicata alla robotica, si dichiara «ottimista a una condizione»: che le imprese e la pubblica amministrazione si diano come obiettivo l’aumento della produttività. In questo modo può prevalere l’AI «buona», che allarga la torta e produce più beni di servizio, e non la «cattiva» che taglia le mansioni di basso livello. Sarà la più grande sfida che abbiamo davanti.


Se l’automazione riduce la sindacalizzazione

Un report di quattro docenti dell’Università Bocconi di Milano ha cercato di misurare gli effetti delle tecnologie robotiche. E i risultati parlano chiaro

Un report di quattro docenti dell’Università Bocconi (Paolo Agnolin, Massimo Anelli, Italo Colantone e Piero Stanig) ha come obiettivo la misurazione degli effetti delle tecnologie di automazione e robotizzazione sulla sindacalizzazione. E arriva a formulare alcune ipotesi interpretative sullo spostamento del consenso elettorale dei cosiddetti losers (i perdenti) verso le formazioni della destra estrema. Il declino sindacale — è questa la tesi — di cui parlano i ricercatori è riconducibile agli stessi fenomeni di cambiamento strutturale dell’economia che richiederebbero, invece, un ruolo più forte dei sindacati come filtro.

Parliamo di concorrenza internazionale legata alla globalizzazione e di automazione dei processi produttivi che hanno contribuito a ridurre l’occupazione non dappertutto, ma nei settori storicamente più sindacalizzati del manifatturiero, come siderurgico e automobilistico. Al tempo stesso si è registrato un altro tipo di mutamento: una crescita relativa degli impieghi nei servizi e nella gig economy, settori nei quali i sindacati sono storicamente meno presenti. Secondo la ricerca, l’effetto negativo sulle tessere sindacali per l’immissione di tecnologia può verificarsi anche nella stessa azienda per effetto di una ristrutturazione interna, che sposti i pesi degli occupati da reparto a reparto. In Lombardia, dove sono stati adottati 30 mila robot ogni 100 mila abitanti tra il 2014 e il 2018, per un totale di 1.500 unità, il tasso di sindacalizzazione è sceso dall’11,8 al 9,7% in soli quattro anni.


Articolo pubblicato su Business People di ottobre 2024. Scarica il numero o abbonati qui

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