Aspettativa di vita più lunga, condizioni di salute buone, capacità di spesa elevata: sono i fattori che fanno della popolazione “d’argento”, cioè gli over 65, un driver decisivo per la crescita economica di molti Paesi. Primo tra tutti l’Italia, quarto Stato più longevo al mondo dopo Giappone, Svizzera e Corea del Sud. Non chiamiamoli anziani, perché in realtà non lo sono più. Un settantenne di oggi è diverso dal settantenne di 30 anni fa a livello fisico e cognitivo.
Dalla silver economy alla longevity economy
A suggellare l’evoluzione della specie è stato già il congresso del 2018 della Società italiana di gerontologia e geriatria, che ha stabilito che si diventa “ufficialmente anziani” non più a 65 ma a 75 anni. «Abbiamo aggiunto dieci anni di vita buona », conferma Giulio Carlo Dell’Amico, partner Kpmg, Head of Asset Management ed esperto di longevità. «Il cambiamento demografico in atto è strutturale », spiega Dell’Amico. «In meno di 20 anni, grazie ai progressi della medicina e al miglioramento degli stili di vita, l’aspettativa di vita è aumentata a livello globale di oltre sei anni, passando dai 66,8 anni del 2000 ai 73,4 del 2020 (Oms)». In Italia nel 2023 la speranza di vita era di 81,1 anni per i maschi e 85,2 per le femmine (Istat). A questo dato si aggiunge l’aumento della percentuale degli over 65: erano il 24% della popolazione nel 2020, raggiungeranno il 33% nel 2040, circa 19 milioni di persone. «Ma questo fenomeno, a cui si unisce la diminuzione delle nascite, non va visto solo in termini negativi. È, viceversa, una grande opportunità: i longevi, infatti, non hanno solo bisogni sanitari e di cura, ma anche abitudini e progetti di vita che le diverse industrie possono soddisfare. È tempo di passare dalla silver economy alla longevity economy».
C’è chi si occupa di questi temi da molto tempo. Joseph Coughlin, direttore dell’Mit Age Lab, nel libro The Longevity Economy – Inside the World’s Fastest-Growing, Most Misunderstood Market, già nel 2017 raccontava come le aziende possono trarre profitto dal design e dal marketing di prodotti e servizi per gli over 50. Nicola Palmarini, che dal 2019 dirige a Newcastle (Uk) il National Innovation Centre for Ageing, l’organizzazione creata dal governo britannico per lo sviluppo e la promozione di soluzioni innovative dedicate alla longevity economy, da anni sostiene che “non ci sono più i vecchi di una volta”.
Il Silver Economy Network, nato nel 2019 con il supporto di Assolombarda come prima rete di imprese che sviluppano soluzioni e servizi per la filiera della silver economy, nel 2023 ha lanciato Agevity, iniziativa nazionale dedicata al confronto tra imprese, istituzioni, organizzazioni del terzo settore, centri di ricerca e cittadini, proprio con l’obiettivo di accendere i riflettori verso un cambiamento di approccio su questi temi e valorizzare la longevità come risorsa di sviluppo socio-economico, come spiega Ezio Lattanzio, consigliere del Silver Economy Network e fondatore di Lattanzio Kibs: «Ci rivolgiamo a tutte quelle aziende che considerano l’invecchiamento progressivo della popolazione un motore di sviluppo per l’intera economia italiana. La nostra priorità è promuovere la filiera a livello nazionale e internazionale». Quest’anno Agevity vedrà la sua terza edizione nella cornice di Expo Osaka, il 24 giugno. Si è invece appena conclusa a Milano la seconda edizione del Milan Longevity Summit, una nove giorni che ha visto il confronto esperti da tutto il mondo sul tema della longevità.
Ma perché tutta questa attenzione? «I longevi detengono una quota rilevante della ricchezza complessiva degli individui, hanno un reddito medio più alto e consumi più elevati rispetto alle popolazioni più giovani», riprende Dell’Amico di Kpmg. «L’impatto che tutto questo avrà su Pil e consumi sarà straordinario». Il dato più sorprendente è quello fornito dal Global Longevity Economy Outlook di Aarp: il contributo degli over 50 al Pil globale, che era 41 trilioni di euro nel 2020, raddoppierà entro il 2040 a 82 trilioni di euro. Un’elaborazione di questi dati realizzata sull’Italia ci dice che nel 2040 gli over 50 rappresenteranno il 75% dei consumi totali (circa 1.400 miliardi).
Le imprese sembrano non aver compreso appieno la portata di questa rivoluzione
«L’aumento dei consumi è trasversale, interessa tutte le industrie», continua il nostro interlocutore. «La maggiore crescita sia in valore assoluto che relativo si registra per i beni legati a cultura e tempo libero. Al secondo posto, arredamento e manutenzione della casa. Al terzo, il mondo del benessere e della cura, sia del corpo che della mente. E ancora l’abbigliamento, gli alloggi (la popolazione longeva abita spesso in case non adatte, più grandi del necessario e non attrezzate ai nuovi bisogni), il cibo e infine la formazione, con crescenti opportunità per la progettazione di corsi per il reskilling e l’upskilling, per far evolvere le competenze nell’arco della vita».
Tuttavia, le imprese sembrano non aver compreso appieno la portata di questa rivoluzione. La loro narrativa si è finora focalizzata sui bisogni primari di questa fascia di popolazione, su prodotti e servizi che si rivolgono a persone fragili e con ridotte funzionalità, a “pazienti” piuttosto che a “clienti”. Ma è tempo di cambiare. «Le aziende devono far evolvere la loro mission», afferma Dell’Amico. «Il mondo della salute, per esempio, dovrà sempre di più andare verso le tre p: prevenzione, predizione e personalizzazione delle cure.
Quello del benessere verso un’offerta di percorsi ed esperienze coinvolgenti, il food verso la sempre maggiore domanda di alimentazione sana. Il settore dei viaggi e del turismo dovrà da una parte gestire il fenomeno della destagionalizzazione (secondo i dati della Commissione europea i flussi turistici degli over 50 si concentreranno per quasi la metà in primavera, il 20% in autunno e soltanto per un terzo in estate, ndr), dall’altra prevedere esperienze per tutte le generazioni». La longevità, infatti, deve essere affrontata in modo multigenerazionale. Gli over 65 non vogliono essere stigmatizzati, tanto che è nata un’espressione anglosassone che indica proprio la “discriminazione e stereotipizzazione legata all’età”: l’ageism. «Se hai una proposizione efficace, ci si dimentica che sia stata pensata per i longevi e si riesce a ingaggiare e coinvolgere tutte le generazioni », conclude Dell’Amico. Stesso approccio che andrebbe seguito nella gestione del capitale umano. In Italia abbiamo da una parte una carenza di persone in età lavorativa classica, dai 15 ai 64 anni, dall’altra un aumento della coorte degli over 55, che entro il 2030 rappresenteranno il 32% della forza lavoro.
Oltre a un serbatoio di risorse buone, quello dei “giovani-anziani” (così definiti dalla Società italiana di gerontologia e geriatria) dai 64 ai 75 anni, che mediamente gode di buona salute, ha esperienza di vita e di lavoro e vorrebbe rimanere in gioco. «Questo quadro rende inevitabile il confronto con un ambiente di lavoro in cui coesistono quattro generazioni diverse per esperienze, competenze, approcci e linguaggi: Gen Z, Millennials, Gen X e Boomers», conclude Lattanzio di Kibs. «Essenziale è sviluppare una cultura aziendale basata su inclusività e capacità di ascolto. Le discriminazioni legate all’età sono più diffuse di quanto si creda, mentre un ambiente di lavoro intergenerazionale porta vantaggi tangibili, come il knowledge transfer, che facilita l’apprendimento dei più giovani e valorizza l’esperienza degli adulti. Come Silver Economy Network, lavoriamo affinché il divario generazionale diventi un’opportunità».
Verso un nuovo paradigma
Intervista a Nicola Palmarini, direttore del National Innovation Centre for Ageing
«Se, come diversi demografi sostengono, la crisi demografica rischia di mettere una pietra tombale sulle velleità di sviluppo del nostro Paese, è arrivato il momento di guardare chi siamo. E non solo promuovere politiche a favore delle nascite, ma investire su un valore di cui sicuramente avremo disponibilità: i vecchi». È il parere di Nicola Palmarini, uno dei principali esperti di innovazione nell’invecchiamento e nella longevità, direttore del National Innovation Centre for Ageing (Nica) in Uk e autore del libro Immortali (Egea, 2019).
Longevity economy: perché è importante?
Perché si propone di offrire servizi, prodotti e strumenti per sostenere tutti quei cambiamenti che un’aspettativa di vita in salute più lunga ci permette di immaginare. È un nuovo paradigma che apre la strada a un universo di opportunità per tutti i settori industriali, oltre a quelli, scontati, di sanità e farmaceutica.
Niente più pastiglie per la prostata, colle per dentiere o dispositivi salvavita?
Non dico che non ci sia bisogno di questi prodotti e servizi, anzi. Ma non si ha bisogno solo di questo tipo di prodotti, centrati sui bisogni stereotipati di chi invecchia. Cosa ne è dei desideri? E come si coniugano questi con i trend di innovazione che ci fioriscono attorno? Pensiamo alla nascente rivoluzione delle auto a guida autonoma: non è forse una possibilità per chi non può permettersi più di guidare? O è solo, come la narrativa comune ci continua a suggerire, un optional per smart Millennial?
Che ruolo ha la tecnologia in questo contesto?
Tecnologie come robotica, cognitive computing, machine learning, internet delle cose, pur non essendo considerati tradizionalmente parte dell’industria della longevità, rappresentano un supporto cruciale nel percorso che ci porta a vivere più a lungo in salute. Il loro insieme prende il nome di agetech, o caring things, e costituisce una delle quattro macroaree del cosiddetto ecosistema della longevità, secondo il rapporto Longevity. International.
Quali sono le altre tre?
La geroscienza, cioè tutte le aree della ricerca che affrontano e si propongono di rallentare i processi di invecchiamento; la medicina P3 (precisione, personalizzata e preventiva) e gli strumenti finanziari per garantire la sostenibilità di una vita più lunga.
Le aziende in Italia stanno abbracciando questo cambio di paradigma?
Nonostante sia una realtà ormai alla luce del sole, molte aziende ancora non lo vedono, per cecità o per pregiudizio. Con delle eccezioni, c’è chi sta facendo da apripista.
Per esempio?
EssilorLuxottica ha appena lanciato Nuance, un modello di occhiali che integra un apparecchio acustico nella montatura. L’apparecchio acustico cioè non è posizionato nel canale uditivo, ma fa uso di una tecnologia diversa, capace anche di interpretare il contesto sonoro in cui ci si trova. Un prodotto epocale, perché combatte con un accessorio di moda come le montature da sole o da vista lo stigma associato agli apparecchi acustici.
L’Oréal è stato tra i primi brand ad avere come testimonial donne longeve…
Il beauty è un’industria ricchissima, e sta ampliando il suo raggio d’azione coinvolgendo scienziati e ricercatori in tema di invecchiamento. Un esempio è Dior Science, dove 600 ricercatori lavorano con 18 dei maggiori esperti internazionali per studiare i biomarcatori all’origine dell’invecchiamento. Al termine “anti-age” si sta progressivamente sostituendo quello di “pro-age”, con le grandi aziende della cosmetica attente a una nuova narrativa centrata sul rallentamento del processo di invecchiamento o sul suo sostentamento naturale piuttosto che la sua negazione.
Qual è il consiglio che dà ai brand?
Di uscire dalla paura di associare la propria marca alla società che stiamo diventando. Di guardarsi attorno e cercare non tanto di inventare chissà quali soluzioni per questa strana popolazione di vecchi, quanto di essere in grado di rappresentarli, capirli e servirli genuinamente per quello che sono. Per quello che siamo.
Articolo pubblicato sul numero di Business People di aprile 2025. Scarica il numero o abbonati qui
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