Quanto valgono le piccole e medie imprese?

Rappresentano circa la metà del Pil mondiale e se in Italia si adattassero agli standard internazionali, il prodotto interno lordo salirebbe del 6%. Peccato che, tra le altre cose, fatichino a trovare personale qualificato…

Quanto valgono le piccole e medie imprese?© Getty Images

Una volta si diceva che le piccole e medie imprese erano pronte, o almeno avevano le caratteristiche adatte a quotarsi, almeno mille società rappresentative dell’economia italiana. Ma i mille non sono mai partiti da Quarto per conquistare il risparmio made in Italy. Più o meno le società che abitano Piazza Affari viaggiano intorno a quota 420. Meno della metà. Da gennaio si sono affacciate Bertolotti, Egomonia, Espe, Palingeo e Krusocapital. Tutte matricole dell’Euronext Growth Milan, il mercato «dedicato alle pmi dinamiche e competitive, in cerca di capitali per finanziare la crescita grazie a un approccio regolamentare equilibrato, pensato per le esigenze di imprese ambiziose».

Il ruolo delle piccole e medie imprese nell’economia globale

Storie di imprese che hanno voglia di crescere, di aprire nuovi mercati e che vogliono affiancare alla finanza bancaria, quelle degli investitori, istituzionali e privati. Ma può davvero bastare? Le piccole e medie imprese d’altronde creano un valore enorme per le economie di tutto il mondo eppure, almeno in Italia, faticano a intercettare il risparmio delle famiglie e l’interesse dei gestori che lo custodiscono e lo investono. Peccato perché rappresentano circa la metà del pil mondiale.

Le differenze tra le economie globali

Questa quota varia significativamente tra le economie. In Portogallo, Israele, Indonesia, Italia e Kenya (in ordine decrescente per valore aggiunto), la quota supera il 60%. Negli Stati Uniti, in Nigeria e in India è inferiore al 40%, secondo un recente rapporto di McKinsey. Sull’Italia pesano gap di produttività e bassa scalabilità, ma se solo di adattassero ai riferimenti internazionali, il Pil ne gioverebbe del 6%. Sono però anche importanti creatrici di posti di lavoro. Nelle economie avanzate hanno contribuito a più della metà della crescita netta dell’occupazione. Negli Stati Uniti hanno rappresentato due posti di lavoro su tre creati negli ultimi 25 anni. Nelle economie emergenti hanno creato sette nuovi posti di lavoro su dieci. Molte crescono rapidamente fino a diventare grandi aziende, aggiungendo vivacità e dinamismo alle economie in cui operano. Circa una su cinque, con una capitalizzazione di mercato di oltre 10 miliardi di dollari, erano piccole imprese ai primi anni Duemila e da allora si sono fatte strada. Tendono a contribuire alla maggior parte del valore aggiunto in quattro grandi settori: alloggio e ristorazione, edilizia, servizi professionali e commercio.

In Italia la quota di piccole e medie imprese supera il 60%, negli Stati Uniti è inferiore al 40%

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La selezione naturale delle piccole e medie imprese dopo la crisi del 2008

Questo lunghissimo scorcio di tempo che passa dal 2008, anno della Grande crisi con il collasso della Lehman Brothers, è stato caratterizzato da una selezione darwiniana delle piccole imprese. Sono rimaste in piedi le migliori, le più produttive, le più performanti che hanno retto al combinato disposto della recessione mista a questa pesante deglobalizzazione in atto innescata dalla guerra in Ucraina e dal disaccoppiamento del mondo tra Est ed Ovest con la rottura di alcune catene internazionali del valore. Si è chiuso in qualche maniera anche il grande ciclo antropologico che aveva visto migliaia di operai mettersi in proprio e diventare imprenditori. Quelle tute blu oggi hanno un’età elevata, spesso non sono riuscite a creare i presupposti di una buona staffetta generazionale e in dirittura d’arrivo pagano anche il prezzo della bassa scolarizzazione.

La crisi e i settori più colpiti

La fenomenologia della crisi ci dice che nel periodo dal 2008 a oggi sono uscite dal mercato le aziende del manifatturiero di bassa qualità e i settori che paiono aver pagato i prezzi maggiori sono sicuramente l’edilizia e l’intero ciclo del mattone, seguiti dai trasporti e dalla metalmeccanica diffusa. È vero che i piccoli in questi anni non si sono arresi, hanno dato vita a una strenua resistenza e hanno in qualche misura fatto anche da ammortizzatore sociale, licenziando meno di quanto il tracollo del fatturato avrebbe (purtroppo) richiesto. Fortunatamente non tutte le piccole aziende sono state spazzate via, anzi. Ed è dai “vivi” che bisogna ripartire, non dalla riproposizione delle statistiche sul numero dei “morti”.

La ripresa dei distretti industriali

I dati sulla vitalità dei distretti, secondo il tradizionale rapporto di Intesa Sanpaolo, e sulla loro capacità di esportare dimostrano come almeno nei territori a industrializzazione diffusa il sistema si è riorganizzato in corso d’opera: le catene di fornitura si sono allungate compatibilmente con il nuovo scenario geopolitico, la specializzazione produttiva è stata affinata per tenere i concorrenti asiatici a distanza e in qualche caso i buoni rating di credito sono stati socializzati dai grandi verso i piccoli. Ed è proprio questa silenziosa metamorfosi che in qualche maniera ci regala ottimismo e ci insegna anche qualcosa nel merito delle scelte da fare. È una sorta di politica industriale implicita che si è realizzata non per una decisione centralizzata, tantomeno statale, ma per l’azione di svariati soggetti che sul territorio hanno capito per tempo cosa fare. A cominciare da ristrutturare le proprie aziende, renderle snelle e a zero sprechi.

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Le sfide future per le pmi italiane

Che le piccole e medie imprese rappresentino un elemento distintivo fondamentale del tessuto imprenditoriale e produttivo italiano non è certo un mistero, ma altrettanto importante è comprendere come questo scenario cambi, se cambia, al variare dei fattori critici che influiscono sulla loro vita, e sulla capacità di cogliere le sfide di mercati complicati, cambiamenti globali e competitori agguerriti. E, di certo, gli ultimi due anni e mezzo non hanno lesinato ulteriori sfide, dalla pandemia alle conseguenti pressioni sulle supply chain globali, dalle tensioni inflazionistiche alla carenza di manodopera, fino ai venti di guerra che hanno esacerbato tutte queste dinamiche, reintroducendo nell’orizzonte di imprenditori e manager rischi che non erano più abituati a considerare, come il caro materiali, lo shock energetico, il rialzo dei tassi.

Una spinta sulla produttività

Aumentare la produttività delle piccole e medie imprese rispetto alle grandi aziende potrebbe dunque produrre un valore significativo. La produttività delle pmi è solo la metà di quella delle grandi aziende, e meno nelle economie emergenti, rileva ancora il rapporto McKinsey. Portare le piccole imprese ai livelli delle grandi equivarrebbe a un aumento del 5% del pil nelle economie avanzate e del 10% nelle economie emergenti. Un tessuto economico prospero può migliorare la produttività sia per le pmi che per le grandi imprese, che si muove di pari passo nella maggior parte dei sottosettori, evidenziando ricadute positive se vengono create le giuste condizioni. Le micro-aziende del settore automobilistico hanno acquisito competenza operativa attraverso sinergie sistematiche con produttori di apparecchiature, ma anche i piccoli sviluppatori di software hanno beneficiato di ecosistemi efficaci nella trasmissione di talenti e nei capitali investiti da imprese più grandi.

Quel che è certo è che le multinazionali tascabili, come sono state chiamate le aziende piccole che si sono costruite la loro nicchia sui mercati globali, hanno la necessaria flessibilità, la grande capacità di stare sui mercati esteri, di farsi preferire, anche e nonostante un sistema-Paese che fatica a rinnovarsi; però vi sono aspetti sui quali molto è ancora da fare. Ad esempio, più di un terzo delle aziende (35,4%) coinvolte in un recente rapporto di Mediobanca dichiara «non affrontato» il punto del passaggio generazionale, e di queste, il 73,9% afferma che ciò sia causato dalla «nuova generazione troppo giovane».

Se si portasse la produttività delle piccole imprese a livello delle grandi, il Pil dei Paesi avanzati aumenterebbe del 5%

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Alla ricerca delle competenze perdute

La maggioranza delle piccole e medie imprese europee lamenta una carenza di personale qualificato, che ostacola i loro sforzi in termini di crescita e modernizzazione

Tre quarti delle piccole e medie imprese europee deve fare i conti con la carenza di competenze per almeno un ruolo all’interno della propria azienda: è quanto evidenzia l’Eurobarometro realizzato dal Parlamento europeo. Quasi la metà di esse afferma che questa carenza ostacola i loro sforzi per adottare o utilizzare le tecnologie digitali e quattro pmi su dieci incontrano ostacoli nel rendere più ecologiche le loro attività commerciali. Riportano anche una discreta difficoltà nell’individuazione dei giusti percorsi di formazione: il 51% degli imprenditori italiani ha infatti giudicato “molto” difficile individuare quelli appropriati.  I risultati hanno evidenziato anche la scarsa capacità delle pmi di alcuni Paesi dell’Ue nel colmare queste mancanze di competenze con talenti provenienti da Paesi extra-Ue.

Cosa possono fare le imprese per attrarre i giovani? «Bisogna certamente partire dall’attrattività delle imprese, che è più che altro un tema dimensionale. In Italia il 90% delle imprese metalmeccaniche ha meno di 50 dipendenti. Questo nanismo dimensionale limita il ripensamento del proprio modello di business, costringendole a perseguire vantaggi di costo per reggere la concorrenza asiatica e dell’est Europa», dice il presidente di Federmeccanica, Federico Visentin. «Però è un cane che si morde la coda, così non si riescono ad attrarre talenti, si crea un circolo vizioso per il quale chi ha mercato va via attratto da condizioni migliori. D’altronde un terzo delle nostre imprese ha un ebitda inferiore al 5%, parliamo di un valore della marginalità che equivale alla soglia di sopravvivenza. È chiaro che ai ragazzi sta stretto questo modello di specializzazione produttiva che fino a oggi ha retto, ma che non può più bastare. Se però parliamo di stipendi, voglio far notare che abbiamo anche il fenomeno dei supertecnici che stiamo strapagando, perché sono pochi e dunque introvabili».


Articolo pubblicato sul numero di Business People di settembre 2024. Scarica il numero o abbonati qui

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