Reshoring all’italiana

Pandemia e tensioni geopolitiche internazionali hanno messo in luce i rischi della delocalizzazione. Così, ora, Stati e aziende stanno correndo ai ripari. Anche nella nostra Penisola la parola d’ordine è rilocalizzazione, ma non necessariamente in terra tricolore. E già si parla di effetto nearshoring

Reshoring all’italiana© Getty Images

Nel mondo tira aria di protezionismo. E le imprese italiane cercano di adeguarsi ai nuovi tempi. Accorciando soprattutto la catena dei fornitori, mentre chi aveva portato la produzione all’estero cerca di tenerla ancora fuori confine. Magari spostandola in Paesi più vicini dove il costo della manodopera è comunque più basso che in Italia. La sfida è quella di non perdere competitività nell’era della post-globalizzazione. Lo scenario che il Made in Italy si trova a fronteggiare è stato delineato di recente dalla Banca d’Italia. «È prematuro parlare di deglobalizzazione», ha detto il governatore Fabio Panetta nelle considerazioni finali all’ultima Relazione annuale, «ma è chiaro che il processo di rapida integrazione dell’economia mondiale si è interrotto».

Gli imprenditori sono avvertiti. Del resto, il contesto economico e politico globale è sempre più ingarbugliato. La pandemia di Covid-19, la guerra tra Russia e Ucraina, e le recenti tensioni in Medio Oriente hanno fatto emergere la debolezza di filiere produttive globali lunghe e, forse, eccessivamente complesse. La globalizzazione è un orologio che si è bloccato. E ora bisogna riportare le lancette indietro. Gli Stati Uniti e altre economie avanzate si stanno mostrando sempre più riluttanti a dipendere economicamente da nazioni ritenute inaffidabili dal punto di vista geopolitico. Negli ultimi cinque anni sono fioccati gli interventi mirati a diversificare le forniture di risorse essenziali per le economie sviluppate: energia, componenti tecnologici, ma anche prodotti agricoli. Misure che si sono tradotte non di rado in politiche protezionistiche. Panetta ha ricordato che il numero di restrizioni commerciali imposte nel 2023 è triplicato rispetto a quello del 2019, l’anno precedente lo scoppio della pandemia. E la tendenza sembra essere destinata al rialzo, con gli ultimi dazi sulle auto elettriche cinesi per proteggere i produttori europei.

Adattarsi a questo nuovo ambiente non sarà facile. E le imprese sono chiamate a rivedere le proprie filiere, su base nazionale o regionale, per le attività che in passato erano svolte su scala globale. Termini come reshoring, opposto di offshoring, ossia il rientro a casa delle aziende che avevano in passato spostato la produzione in toto o in parte all’estero, sono diventati sempre più di uso comune. In Italia, stando alle ultime indagini disponibili, non è ancora previsto un rientro in massa delle imprese che avevano delocalizzato. E forse non ci sarà mai. Per ora sono ancora poche le aziende che scelgono di intraprendere questa strada. Le imprese, soprattutto tra le pmi, per ora hanno evitato il backshoring della produzione, ossia il rientro delle attività in Italia. A essere privilegiata è invece la rilocalizzazione degli stabilimenti in un Paese più vicino rispetto a quello di prima localizzazione, il cosiddetto nearshoring. Spostandosi soprattutto dall’Asia verso il Mediterraneo e l’Europa dell’Est. Una scelta che consentirebbe, anche se non di mantenere come prima, comunque di continuare a contenere i costi di produzione, soprattutto il costo del lavoro.

Diversificare la supply chain

Le difficoltà incontrate dalla logistica, soprattutto nelle rotte tra l’Asia e l’Europa, durante il Covid-19 e riemerse con l’aumento dei conflitti in Medio Oriente che hanno portato alla chiusura del Mar Rosso, nel post-pandemia hanno costretto le imprese italiane a ripensare l’organizzazione della filiera di fornitori. L’obiettivo è ampliare e diversificare, ma anche accorciare la catena. Una recente indagine del Centro Studi Tagliacarne-Unioncamere ha registrato una quota di imprese nostrane, che hanno dichiarato un aumento di fornitori italiani, compresa tra il 15%, se si considerano i fornitori presenti nella stessa Regione, e il 20%, se si considerano quelli al di fuori della Regione. Percentuali in linea con un sondaggio di due anni fa del Centro Studi Confindustria e Re4It, il gruppo di ricerca del Politecnico di Milano e delle università di Bologna, Bergamo e L’Aquila. Condotta tra giugno 2021 e febbraio 2022 su oltre 700 aziende, soprattutto pmi, l’indagine ha contato il 21% delle imprese italiane con fornitori all’estero che ha optato per un backshoring totale o parziale della supply chain. La scelta di rilocalizzare i propri fornitori in Italia segue la necessità di una maggiore resilienza del modello di business, attraverso la riduzione della distanza, per evitare future interruzioni, e il miglioramento della qualità dei prodotti. Accorciare la filiera delle forniture di materie prime, di componenti o di semilavorati, inoltre, è del tutto compatibile con l’offshoring della produzione, poiché «rilocalizzare la catena di fornitura non comporta necessariamente spostare eventuali attività produttive svolte all’estero e in certi casi può costituire una modalità di rafforzamento della catena globale del valore», proseguono in una nota dello scorso settembre gli esperti del Centro Studi di Confindustria.

LE MISURE DEL GOVERNO PER SPINGERE IL RIENTRO A CASA – Sì al reshoring, no alle delocalizzazioni. Così si legge nel comunicato stampa del governo, pubblicato nove mesi fa, al termine del Consiglio dei ministri dello scorso 16 ottobre, che ha introdotto nuove disposizioni in tema di reshoring. Misure che sono in continuità con quelle già varate in altri Paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti, in cui però il reshoring riguarda soprattutto determinati settori, ritenuti strategici per la crescita, come, ad esempio, la transizione energetica. L’agevolazione prevista dallo schema di decreto legislativo 209 del 2023 si applica, invece, a tutte le «attività economiche» trasferite in Italia, in tutti i settori, comprese l’esercizio di arti o professioni. Previsto l’abbattimento delle imposte per le imprese che decidono di tornare in Italia dall’estero con i propri impianti di produzione. Al contempo le imprese fruitrici di tale incentivo saranno obbligate a restituire quanto ricevuto nel caso delocalizzassero nuovamente le attività. L’incentivo fiscale è diretto a favorire lo svolgimento in Italia di «attività economiche» precedentemente condotte in un Paese estero, diverso da uno Stato appartenente alla Ue o allo Spazio economico europeo. L’agevolazione consiste nel fatto che i relativi redditi non andranno a formare la base imponibile Ires (o Irpef) e Irap per il 50% nel periodo di imposta in corso al momento in cui avviene il trasferimento, e nei cinque periodi di imposta successivi, dieci anni per le grandi imprese. Non sono incluse le attività esercitate nel territorio dello Stato nei 24 mesi antecedenti il loro trasferimento, per evitare fenomeni opportunistici di entrata e uscita. (foto © Getty Images)

La produzione rimane all’estero

A optare per il backshoring della produzione (totale o parziale) è stato solo il 16,5% delle imprese che avevano delocalizzato gli stabilimenti negli scorsi anni. A tornare dalla Cina, da altri Paesi asiatici e da quelli dell’ex Urss, stando all’indagine, sono state soprattutto le imprese italiane che operano nel settore dei macchinari, dell’abbigliamento e dei prodotti in metallo, spinte dalla necessità di risolvere problematiche legate ai tempi di consegna, di migliorare il servizio al cliente, e di ridurre i costi della logistica; ma anche, soprattutto in Lombardia, per implementare tecnologie per l’automazione della produzione (Industria 4.0) o per mitigare il rischio di perdita di competenze.

Solo il 12%, invece, ha dichiarato di aver programmato nel medio-lungo termine il rientro in Italia della produzione attualmente localizzata all’estero. Le imprese che hanno delocalizzato per ridurre i costi o aumentare l’efficienza, quando decidono di abbandonare il Paese estero dove si erano impiantate, tendono infatti a rilocalizzare gli stabilimenti produttivi in un altro Paese più vicino anziché tornare a casa. Una scelta indicata dal 14% del campione della ricerca.

Secondo gli esperti di CsC-Re4It, anche le imprese che si dichiarano più sostenibili, ossia quelle che pubblicano un report di sostenibilità, potrebbero essere invogliate a tornare in Italia, magari con l’introduzione di misure ad hoc che incentivano le politiche Esg. «L’accorciamento e la regionalizzazione delle catene del valore appaiono legate a un aumento della sostenibilità, in quanto consentono la riduzione delle emissioni e un maggior controllo etico-sociale delle produzioni», puntualizzavano infatti gli esperti di Confindustria lo scorso settembre in una nota. «D’altra parte, però, non appare concreta e neppure auspicabile la prospettiva di un backshoring su larga scala sia dal punto di vista globale che nazionale ed europeo. Invece, sarebbe auspicabile che la rilocalizzazione in Italia riguardasse principalmente le attività strategiche e, più in generale, quelle a più alto valore aggiunto». Una scelta simile, insomma, a quella che stanno percorrendo gli Stati Uniti, soprattutto nei settori della tecnologia e dell’energia, per riportare in casa, o nel vicino Messico, i produttori localizzati prima in Cina.

Per riportare gli stabilimenti produttivi in Italia le imprese chiedono anzitutto incentivi, accompagnati, però, anche da misure per accrescere l’attrattività del territorio e la competitività delle imprese. La risposta del governo non si è fatta attendere. Ed è per ora tutta sul fronte fiscale, con l’approvazione da parte del Cdm dello scorso 16 ottobre del decreto legislativo che introduce agevolazioni fiscali per il rimpatrio dei cervelli e delle aziende. Resta ancora da capire, invece, quale sarà la strada sul fronte della politica industriale per rilanciare i distretti e la competitività delle imprese.


Articolo pubblicato sul numero di Business People di luglio-agosto 2024. Scarica il numero o abbonati qui

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