Paul Krugman, classe 1953, professore all’università statunitense di Princeton e premio Nobel per l’economia nel 2008, è un tipo abituato a dare spesso giudizi taglienti. Per questo, nel maggio scorso, Krugman non ha usato mezze parole nel criticare quelli che lui chiama con tono di sberleffo i “Bocconi Boys”, dal nome del prestigioso ateneo milanese di via Sarfatti. Si tratta di due noti economisti italiani: il celebre professore di Harvard Alberto Alesina e la sua collega Silvia Ardagna, entrambi laureatisi proprio all’Università Bocconi. Secondo Krugman, Alesina e Ardagna sono tra i colpevoli delle politiche di austerity economica che, da tre anni a questa parte, hanno portato l’intera Europa (e in particolare i Paesi più vulnerabili come l’Italia) nel vortice di una recessione che non finirà neppure nel 2013.L’arma di questo “delitto”, per il premio Nobel statunitense, sarebbe uno studio che Alesina e Ardagna hanno pubblicato nel 2009, in cui teorizzavano la cosiddetta “austerità espansiva”, cioè l’idea che le politiche di rigore nel bilancio pubblico, invece di deprimere l’economia, possono innescare un percorso virtuoso di crescita, perché fanno aumentare la fiducia nel sistema produttivo di un Paese, sia da parte dei mercati internazionali, sia tra gli investitori domestici. È un’analisi, quella dei due ex-bocconiani, che nel 2010 riscosse consenso tra i membri dell’Ecofin (il gruppo dei ministri economici dell’Unione Europea), dando così una solida sponda accademica alla grande stagio ne di austerità che il Vecchio Continente ha vissuto negli ultimi tre anni. La replica di Alesina non si è fatta attendere e ha avuto toni altrettanto accesi. Il professore italiano trapiantato negli Usa, infatti, ha subito accusato il suo collega premio Nobel di lanciare soltanto anatemi, senza partecipare in maniera costruttiva al dibattito sulla crisi di Eurolandia e sulle sue possibili soluzioni. Al di là degli aspetti personalistici, lo scontro tra questi pezzi da 90 della teoria economica è l’ennesima contrapposizione tra due scuole di pensiero e tra due diverse visioni del mondo che si fronteggiano da decenni e che oggi hanno trovato un nuovo terreno di battaglia: la crisi economica internazionale e soprattutto quella dell’Unione monetaria europea. La prima scuola di pensiero è quella degli studiosi come Krugman che seguono ancora il “credo” di John Maynard Keynes, l’economista di origine britannica che ispirò le politiche contro la Grande depressione attuate dal presidente americano Roosvelt negli anni ‘30 del secolo scorso. Sul fronte opposto, ci sono gli esponenti di altre correnti accademiche di stampo monetarista o “liberista”, che hanno avuto come punto di riferimento Milton Friedman, premio Nobel nel 1976, anti-keynesiano convinto e ispiratore delle politiche di Reagan e della Thatcher negli anni ‘80. È nel solco di questa “ideologia”, secondo molti studiosi keynesiani, che sono maturate le politiche europee degli ultimi anni, basate su un’austerità che, alla fine, si è rivelata un rimedio peggiore del male.
C’È AUSTERITY E AUSTERITY. Gli economisti che propongono questa tesi, però, non ci stanno a farsi dipingere come i sostenitori del rigore a tutti i costi. «Ci possono essere diversi tipi austerity», ha detto per esempio Alesina. Quella messa in atto dal governo Monti che, purtroppo, non è riuscito a imprimere una svolta storica alle politiche economiche italiane, ma anche quella basata sulla contemporanea riduzione della spesa pubblica e delle tasse, che può far ripartire finalmente la crescita del Paese. È questo, in sostanza, il rigore che piace ad Alesina e Giavazzi, che hanno più volte quantificato la cura da cavallo di cui avrebbe bisogno il sistema-Italia: massicce sforbiciate al bilancio pubblico per almeno 45-50 miliardi di euro, cioè quasi tre punti del Pil. Tra le voci da sfoltire indicate da Alesina e Giavazzi in diverse occasioni, ci sono per esempio i circa 30 miliardi di euro di trasferimenti e di agevolazioni che lo Stato eroga alle imprese (i quali potrebbero essere trasformati in tagli alle tasse), oppure i 150 miliardi spesi ogni anno dalla macchina statale per gli acquisti di beni e servizi, di cui soltanto il 3% si svolgono a livello centralizzato, mentre tutto il resto si disperde nei rivoli delle amministrazioni locali. È proprio qui, secondo i due professori bocconiani, che si annidano i germi degli sprechi e della corruzione, con un costo di 60-70 miliardi di mancata ricchezza per il nostro Paese, a causa della perdita di competitività. Più che rigore vero e proprio, insomma, queste misure sono in realtà delle salutari operazioni di pulizia, almeno secondo i teorici dell’austerità espansiva.
DEFICIT A BRIGLIA SCIOLTA? Riccardo Realfonzo, economista dell’Università del Sannio, non ci sta, e ha definito una vera e propria “favola” la tesi dell’austerità espansiva, partendo da un assunto molto semplice: uno Stato che preleva una quantità di imposte superiore alla spesa pubblica (anche se le tasse sono basse) taglia comunque le gambe alla crescita economica. È una posizione, quella di Realfonzo, che incontra ovviamente largo consenso sulle pagine di Keynesblog.com e che viene condivisa anche da illustri docenti della stessa Bocconi come Roberto Artoni, da decenni professore di Scienza delle finanze nell’ateneo milanese. Del resto, non è vero che tutti i bocconiani (o ex-bocconiani) sono oggi allineati all’Alesina-pensiero. Sulle pagine di Keynesblog, per esempio, scrive pure Andrea Terzi, anche lui laureato all’università di via Sarfatti e oggi docente di Economia al Franklin College Switzerland di Lugano. Analizzando l’attuale situazione economica di Eurolandia e confrontandola con quella degli Stati Uniti, oggi Terzi non ha dubbi: «Le soluzioni messe in cantiere contro la crisi dall’amministrazione americana sono indubbiamente migliori di quelle adottate nel Vecchio continente, tutte improntate al rigore di bilancio», spiega a Business People. «Dal 2008 in poi, infatti, l’amministrazione di Obama ha chiuso sempre i conti annuali in profondo rosso, cioè con un deficit pubblico quasi doppio rispetto alla media dei Paesi di Eurolandia. E la stessa cosa hanno fatto più o meno anche altre potenze economiche al di fuori dell’Unione monetaria, come la Gran Bretagna e il lontano Giappone, con un risultato indiscutibile: una crescita a due cifre del loro debito pubblico, accompagnata però da un tasso di disoccupazione più contenuto rispetto all’Europa, dove i conflitti sociali sembrano adesso una bomba a orologeria». Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale, il Pil americano crescerà nel 2013 dell’1,9% e del 3% il prossimo anno, mentre la disoccupazione scenderà al 7,5%, dopo il picco del 10% toccato nell’ottobre del 2009. Non sono cifre miracolose, è vero, ma sono indubbiamente confortanti se paragonate a quelle dell’Europa, dove la recessione economica dura da due anni e il tasso di disoccupazione veleggia tra l’11 e il 12%, con picchi sopra il 20% in alcuni Paesi. Secondo Terzi, il governo di Washington è stato addirittura troppo titubante nelle proprie politiche fiscali, almeno negli ultimi anni, poiché ha dovuto negoziare le misure di bilancio con un Congresso a maggioranza repubblicana, molto preoccupato dalla crescita del deficit federale. E invece, nonostante le “ansie” del Congresso, Terzi non ha problemi ad affermare che, «nei momenti di forte recessione economica, il deficit pubblico va lasciato correre». Altro che austerità, insomma. Come le teorie keynesiane hanno dimostrato al mondo intero nel secolo scorso, per uscire da una crisi che rischia di trasformarsi in depressione bisogna stimolare la domanda aggregata, cioè mettere soldi nelle tasche dei cittadini con aumenti di spesa ma anche con contemporanei tagli alle tasse sul lavoro e sulla produzione, soprattutto sui ceti medio-bassi. La crescita del disavanzo di bilancio, insomma, oggi non sembra più un tabù per molti economisti, anche se l’Italia è imbrigliata nei rigidi dell’Unione monetaria europea, che impongono un tetto al deficit del 3% sul Pil. Persino Alesina e Giavazzi, però, oggi propongono di sforare temporaneamente questa soglia fissata dal trattato di Maastricht, per finanziare la riduzione delle tasse da loro proposta, rimandando poi i tagli alla spesa a un momento successivo. E se lo dicono loro, forse potrebbe essere davvero arrivato il momento di provarci.
APPROFONDIMENTI | L’AMERICA VISTA DALL’AMERICAParla Grant Bughman, gestore del fondo Ubs Usa Growth |
Rapporto Debito/Pil e Deficit/Pil nei Paesi più industrializzati | |