La nuova via della seta

Qual è il senso della “Belt and road initiative”, il grande progetto con cui la Cina punta a edificare una nuova architettura economico-commerciale globale? Anche, anzi soprattutto, per il nostro Paese le implicazioni non sono poche, sia sotto il profilo economico che quello geopolitico

Quando, nel settembre 2013, il pre­sidente cinese Xi Jinping parlò per la prima volta dell’idea di rilanciare la vecchia Via della seta, a molti com­prensibilmente venne in mente Il Mi­lione. Forse, però, sarebbe stata più corretta l’associazione con un altro li­bro, Il grande gioco di Peter Hopkirk, che racconta della competizione tra la Russia zarista e la Gran Bretagna per il controllo dell’Asia centrale. Sei anni dopo, anche l’opera di Hopkirk si rivela insufficiente per ca­pire la portata del piano cinese, che nel frattempo ha più volte cambiato nome (quello attuale è Belt and Road Initiative BRI), ma soprattutto di­mensioni, arrivando ad abbracciare anche parte di Africa e Sudamerica e la regione artica. I Paesi interessati sono una settantina, per un totale di 4,4 miliardi di persone coinvolte e un Pil complessivo di 23 mila miliardi di dollari, un terzo del pil mondiale.Secondo Morgan Stanley, entro il 2027 il colosso asiatico avrà messo sul piat­to 1.300 miliardi di dollari per poten­ziare la rete di porti, interporti e nodi ferroviari lungo i quali si muoveranno le merci scambiate. Fonti cinesi parla­no addirittura di un investimento com­plessivo di 8 mila miliardi di dollari. «Il progetto nasce rivolto all’Asia, an­che perché questo continente ha fame di infrastrutture e l’iniziativa cinese ri­sponde a tale bisogno. Oltretutto, Pa­esi come l’Indonesia, la Malesia e la Thailandia stanno portando avanti pro­getti infrastrutturali nazionali che s’in­tersecano con quelli cinesi», dice a Bu­siness People Diego Angelo Bertozzi, analista che alla Cina e alla nuova Via della seta ha dedicato due libri, Cina: da “sabbia informe” a potenza globale e La Belt and Road Initiative.

Via della seta: le implicazioni geopolitiche

Al di là della retorica sugli scam­bi commerciali che rafforzano pace e fratellanza, è chiaro che il piano ha un’enorme valenza geopolitica, perché crea una nuova sfera d’influen­za cinese. E, infatti, Washington guar­da con molta preoccupazione l’attivi­smo di Pechino. Gli analisti Usa sanno molto bene che la parola investimento fa rima con indebitamento, e il debito è uno degli strumenti migliori per arriva­re a controllare un Paese.

Oltretutto, le infrastrutture sulle qua­li punta la Cina possono diventare uno strumento a disposizione della sua proiezione militare. Per esempio, non piace quello che sta avvenendo nel porto pachistano di Gwadar, oggetto di massicci investimenti che, secondo il Center for Strategic and Intertional Studies, lo hanno trasformato di fatto in una base navale. Non bastasse, nella Belt and Road Initiative hanno trovato posto aziende come Beidou, specializ­zata in tecnologia satellitare. Secondo il New York Times, entro il 2020 il lan­cio di 35 satelliti da vari Paesi della BRI completerà il sistema Beidou, un’alter­nativa a quello Gps, americano.

Per la Cina, si tratta di un modo per smaltire parte delle eccedenze produt­tive e per far lavorare le proprie socie­tà. In Pakistan, per esempio, le imprese locali non toccano palla. Ed è un’ottima occasione per fare shopping, e questo lo si è visto nel Mediterraneo. «La Cina è ormai una potenza mediter­ranea, dal punto di vista politico-com­merciale ma anche militare, visto che ha partecipato a esercitazioni con la Russia. Una centralità testimoniata dall’acquisi­zione da parte di Cosco del 51% del por­to del Pireo, poi ci sono investimenti in Algeria, in Israele, in Spagna, in Tunisia e in Turchia», spiega Bertozzi.

Il ruolo dell’Italia nella Via della seta

E al centro del Mediterraneo c’è l’Ita­lia. Qui Cosco, il colosso di Stato cine­se del trasporto marittimo, ha investi­to con Qingdao Port International nel Container Terminal di Vado Ligure (Sv). A Ravenna, invece, è arrivato il China Merchant Group (CMG), il più grande sviluppatore di porti (ne controlla 36, ndr) e principale azionista della China Merchant Bank, con l’intenzione di cre­arvi un centro di ingegneria navale eu­ropeo e un hub nel settore Oil&Gas. Ma Pechino ha messo gli occhi anche su quelli di Trieste e Venezia. Per esempio, alla nuova piattaforma del porto friula­no è molto interessata Cmg.

Il problema dei porti dell’Al­to Adriatico è che sono comple­mentari eppure rivali. A Venezia c’è molto spazio disponibile ma ha fondali troppo bassi. Trieste, di con­tro, ha fondali sufficientemente pro­fondi per fare entrare navi di un certo tonnellaggio ma sconta una morfo­logia che la priva di grandi spazi. Se operassero in sinergia, il sistema Ita­lia ne uscirebbe rafforzato ma al mo­mento prevale il campanile.

Il porto di Venezia ha da poco firma­to un memorandum di intesa per po­tenziare i collegamenti tra Marghera e il Pireo, in quella che sembra una sfi­da a Trieste, la quale nel 2017 ha invece siglato un accordo di partnership stra­tegica con Duisburg per potenziare il traffico ferroviario tra i due porti.

Fino a oggi*, è mancata una regia nazio­nale e la cosa è strana, visto che l’ini­ziativa cinese aveva incontrato l’entu­siasmo di Roma. L’ex primo ministro Paolo Gentiloni, per esempio, era sta­to l’unico capo di governo di un Paese del G7 a partecipare al forum interna­zionale di Pechino sulla BRI, nel 2017. Al ministero per lo Sviluppo economi­co, inoltre, è stata creata una Task For­ce Cina. In questo stesso ministero, il nuovo governo ha nominato sottose­gretario Michele Geraci, economista con un’ottima conoscenza della Cina e con entrature altrettanto importanti.

Questa ambivalenza può essere de­terminata dalla particolare posizione in cui si trova l’Italia, Paese fondatore dell’Ue e membro della Nato. Come e quanto aderirà al progetto di Pechino non è irrilevante. Le opportunità, non solo economiche, quanto politico-di­plomatiche, come la possibilità di ri­trovare un ruolo di primo piano e di forte autonomia nel Mediterraneo, si scontrano con i vincoli posti dal suo sistema di alleanze. Non è un nodo fa­cile da sciogliere e a Roma lo sanno. Almeno si spera…


Articolo pubblicato su Business People di marzo 2019 (numero chiuso in redazione il 14 febbraio 2019)

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