A San Marzano di San Giuseppe, piccola località in provincia di Taranto, si parla poco della crisi economica o del crack delle Borse del 2008. Forse perché l’economia della zona, basata sulla vite e sull’ulivo, continua a viaggiare con gli stessi ritmi di sempre: tra ottimi o scarsi raccolti, a seconda della clemenza del tempo. Ma c’è un’altra ragione per cui il collasso della finanza, in questo angolo del Salento sembra un fenomeno dell’altro mondo. Il principale istituto bancario del paese, la Banca di Credito Cooperativo di San Marzano di San Giuseppe, continua a sostenere le famiglie e gli imprese senza essere costretto, a differenza dei grandi gruppi, a restringere i cordoni della borsa. Dal 2007 a oggi la raccolta della Bcc di San Marzano è cresciuta del 35% mentre gli impieghi, sia verso le aziende sia verso le famiglie, sono saliti del 40%. La ragione? «Semplice», spiega il direttore generale Emanuele Di Palma, «siamo una banca ben patrimonializzata, che può permettersi di fare quello che altri istituti non fanno più, cioè finanziare le imprese e i risparmiatori come in passato». La prova arriva dal bilancio: il Core Tier1, il coefficiente che misura la solidità come rapporto tra capitale (più riserve) e attività rischiose iscritte a bilancio. Per la Bcc di San Marzano, il Core Tier 1 è attorno all’11%, contro il 5-8% dei maggiori istituti di credito nazionali. «Il merito di questi fondamentali», dice Di Palma, «spetta in parte al nostro statuto, che ci impone di non distribuire gli utili ma di accantonarli per accrescere il nostro patrimonio». A ben guardare, però, c’è un altro fattore che rende possibile questo “piccolo miracolo” . È il profondo legame con la comunità. Fondata nel 1956 da alcuni maggiorenti del paese, la società aveva lo scopo di erogare credito alla comunità di San Marzano che è una delle antiche colonie di lingua albanese del Sud Italia. Per oltre 40 anni, l’istituto è stato monosportello. Poi, nel 1995, è arrivato il salto di qualità: l’apertura di un’altra filiale, a cui si sono aggiunte altre sette tra le province di Taranto e Brindisi.La storia di questa banca salentina non è un caso isolato. Spostandosi su e giù per la Penisola, infatti, si trovano centinaia di istituti di credito “di provincia”, usciti indenni dalla crisi finanziaria. È il caso, per esempio, della Banca della Marca, credito cooperativo con sede a Orsago, un minuscolo comune vicino Treviso. Fino a 20 anni fa, anche la Banca della Marca (nata alla fine dell’800 come Cassa Rurale di Orsago) era un istituto monosportello, fondato da alcuni esponenti della curia locale contro l’usura. Negli anni ‘80, con l’attuale direttore Bepi Maset, è iniziata una lunga fase di espansione che la vede raggiungere 26 sportelli, concentrati nel trevigiano. Una crescita certificata dal bilancio: «Fino allo scorso esercizio», dice Maset, «i nostri impieghi aumentavano a un ritmo di oltre il 10% all’anno, per un importo compreso tra i 150 e i 180 milioni di euro». Nella prima metà del 2009, i crediti verso la clientela sono saliti ancora di 50 milioni di euro. Meno degli anni scorsi, è vero, ma molto più della media nazionale (-0,4% soltanto tra settembre e ottobre passati). Più che i dati contabili, però, secondo Maset, a promuovere il modello delle banche di provincia è «lo stretto legame con il sistema produttivo della zona, per lo più aziende artigiane e con meno di dieci dipendenti, che hanno trovato in noi un’ancora di salvezza, quando i grandi gruppi voltavano loro le spalle». Dello stesso parere è Luca Barni, direttore generale della Bcc di Busto Garolfo e Buguggiate, un istituto di credito cooperativo con una rete di 19 sportelli tra il Varesotto e l’Alto milanese. Fondata nel 1897 dal parroco, la Bcc ha un bilancio da incorniciare: gli impieghi e la raccolta sono in costante crescita da anni e il Core Tier1 ha raggiunto la cifra record del 17%. Anche per Barni sono i dati qualitativi, più che quelli quantitativi, a testimoniare la bontà del modello dei piccoli istituti. «In questi anni di finanza creativa», rivendica con orgoglio, «non abbiamo mai venduto prodotti -spazzatura ai piccoli investitori, né abbiamo convinto le imprese a sottoscrivere derivati che non servissero realmente alla copertura dei rischi connessi alla loro attività, e sfido chiunque a dimostrare il contrario». La positiva esperienza vissuta dalle Bcc è condivisa da altri istituti di provincia, al di fuori del mondo cooperativo. Come il Banco Azzoaglio, piccolo istituto di Ceva (un paese in provincia di Cuneo) interamente controllato dall’omonima famiglia e attivo con 15 filiali tra il sud del Piemonte e il Ponente ligure. «Siamo una delle poche banche commerciali italiane di origine familiare», dice Simone Azzoaglio, consigliere di amministrazione della società, figlio dell’amministratore delegato Francesco. Il fondatore del Banco fu il suo bisnonno Paolo, commerciante, proprietario terriero e immobiliare di Ceva, che si rese conto della necessità di offrire servizi finanziari nella zona. Anche per il Banco Azzoaglio, il grande crack del biennio 2008-2009 non ha provocato scossoni: la raccolta diretta sui conti correnti è aumentata del 15%, gli impieghi verso la clientela sono rimasti invariati mentre i mutui alle famiglie sono cresciuti dell’8%. E il Core Tier1 dell’istituto oggi è saldamente sopra l’11,5%. Dice Azzoaglio: «non possiamo negare che la recessione abbia colpito molte aziende del nostro territorio, ma non per questo abbiamo rinunciato a sostenere gli imprenditori e i risparmiatori che hanno con noi un rapporto consolidato». Anzi, secondo Azzoaglio la crisi è stata la “prova del nove”, che ha dimostrato come le piccole banche siano in grado, meglio dei big nazionali, di fornire un solido aiuto all’economia. Eppure, un po’ in tutta Europa, sono stati soltanto i grandi gruppi a godere degli aiuti di stato e a beneficiare di piani di salvataggio. «Di questo non ci arrabbiamo», dice ancora Azzoaglio, «perché siamo come i giocatori di pallone elastico, un antico sport delle nostre zone». Quando azzeccano un colpo non esultano e a testa bassa pensano: «Il prossimo magari lo sbaglio». «Lo ripeto ai miei colleghi», aggiunge Maset di Banca della Marca, «non entusiasmatevi troppo se vedete qualche nuovo cliente, deluso dal trattamento ricevuto dalle grandi banche; prima o poi la crisi passerà e molte persone torneranno a dare fiducia agli istituti che non la meritano». Meglio stare coi piedi per terra e pensare al presente, dove non è facile erogare credito alle imprese, soprattutto a quelle piccole e medie. Colpa dei criteri di Basilea2, che impongono parametri stringenti per valutare il merito di credito (e che, a detta di molti, penalizzano eccessivamente le microimprese). «Anche se li accettiamo malvolentieri», dice Maset, «abbiamo sempre rispettato i parametri di Basilea2». Per riuscirci, a detta del direttore della Banca della Marca, un piccolo istituto di provincia non ha scelta: deve dialogare in maniera continua con il cliente, conoscerne a fondo le esigenze e, soprattutto, offrirgli un’adeguata consulenza finanziaria, insegnandogli a tenere sotto controllo l’indebitamento e l’esposizione al rischio. Sapere a chi si danno i soldi è il primo passo per vederseli restituire. Ed è questo il segreto per essere un buon banchiere.
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Niente derivati. Nessun bisogno di aiuto. Nessun artificio contabile e patrimonio record. Ecco perché gli istituti locali riescono a sostenere l’economia mentre i big soffrono. Il segreto? Conoscere il cliente. Viaggio nel mondo dei banchieri di paese