Nel 2007 ci abbiamo provato. Poi nel 2008 abbiamo cambiato idea. Poi nel 2009 ci abbiamo ripensato. Non si può dire che quando si tratta di un tetto ai compensi dei manager l’Italia abbia una linea certa. Anzi. Solo che adesso che a proporre un tetto è Barack Obama, l’idea ci sembra grandiosa. La differenza è che in America il provvedimento è sembrato come minimo d’obbligo dopo gli scandali di top manager di grandi banche d’affari che, avendo mandato all’aria le loro aziende, si sono portati a casa decine se non addirittura centinaia di milioni di dollari. Uno scandalo nazionale che non poteva restare impunito nel momento in cui la crisi economica allunga le fila dei cassaintegrati. E così, un tabù del libero mercato è diventata la bandiera di chi invoca il “buon senso” applicato alla logica aziendale.Gli “intoccabili” sono finiti nel mirino di Barak Obama a inizio febbraio. Il presidente americano ha voluto un provvedimento fortemente simbolico, tra i primi del suo mandato, e una risposta concreta a un dissesto economico che negli Usa è a livelli drammatici. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono stati i bonus milionari ricevuti a fine anno proprio dai vertici delle aziende e delle banche al centro del disastro finanziario. Qualche esempio: l’ultima busta paga dell’ex numero uno di Lehman Brothers, Richard Fuld, è stata di 34,4 milioni di dollari; Jimmy Caine, ex ceo di Bear Stearns, prima che la banca fallisse ha incassato 32 milioni di dollari tra bonus e stipendio; retribuzione e stock option per 132 milioni di dollari sono stati la liquidazione di Angelo Mozillo, ex capo di Countrywide, una delle prime società specializzata in mutui a crollare sotto il peso di titoli tossici.
Paracadute d’oroObama ha definito «una vergogna» i paracadute d’oro per i banchieri e i finanzieri di Wall Street e ha imposto, per legge e senza tanti ripensamenti, un tetto massimo di 500 mila dollari per gli stipendi delle aziende che riceveranno i fondi statali previsti dal piano anticrisi. Nel nome della trasparenza e di una cultura della responsabilità il presidente Usa ha dichiarato che «contribuenti e azionisti dovranno giudicare se lussi e privilegi sono giustificati» e che nel quadro del piano contro la recessione non si vedranno più le «enormi liquidazioni di cui abbiamo letto con disgusto sui giornali». Il nuovo corso è stato descritto dal presidente e dal ministro del Tesoro Timothy Geithner: «I super manager delle aziende che ricevono aiuti straordinari dai contribuenti americani avranno il loro compenso bloccato a 500 mila dollari, una frazione rispetto ai salari attuali. E se questi manager riceveranno compensi supplementari, sarà sotto forma di azioni che non potranno essere pagate fino a che i contribuenti non avranno ricevuto indietro le loro risorse». Cioè, solo dopo che i contributi salvagente saranno stati restituiti al Tesoro.“L’austerity” obamiana ha scatenato il dibattito. Non è che per caso insieme al libero mercato si sta buttando a mare anche la meritocrazia? E, più in generale, non è che l’America sta diventando un po’ troppo socialista? In fondo è stata proprio questa la domanda, drammatica per la cultura americana, che si è posto il New York Times. Nelle cui pagine si faceva rilevare che ben 12 banchieri della banca d’affari Merrill Lynch si sono trasferiti da un giorno all’altro alla tedesca Deutsche Bank per il semplice fatto che la prima, americana, è stata salvata dai soldi dei contribuenti americani e quindi le è stato imposto un tetto agli stipendi, mentre la seconda non ha usato un solo euro dei contribuenti tedeschi per tirarsi fuori dai guai. Gli effetti a lungo termine di questa legge si vedranno, ma intanto quello che si nota è che negli Stati Uniti le società cominciano a imporre ai dirigenti un’inversione di rotta: niente jet privati, meno convention aziendali ai tropici, stop ai viaggi premio in Europa per coloro che hanno ottenuto i migliori risultati.
In EuropaI dirigenti super pagati (e indipendentemente da come vanno gli affari dell’impresa) non sono guardati di traverso solo negli Stati Uniti. In Francia Nicolas Sarkozy ha dichiarato di voler cambiare le regole e pensa a un codice etico che limiti i guadagni dei trader; il ministro delle Finanze inglese, Alistair Darling, sta preparando un’indagine sui bonus ai banchieri e proporrà un pacchetto di misure; il governo tedesco ha introdotto regole più rigide sui compensi dei “paperoni” della finanza.E in Italia? Anche da noi le maggiori aziende, senza aspettare nuove leggi, preparano la revisione dei compensi. Gli orientamenti delle assemblee sono quattro: vincolare la parte variabile degli stipendi agli obiettivi di lungo periodo; collegare i bonus a performance sostenibili; introdurre logiche di coinvestimento e partecipazione azionaria dei manager e sostituire le stock option con gli stock grant (non più azioni ma titoli), in quanto le prime possono spingere a strategie rischiose e di breve periodo. «Da noi la retribuzione di un manager è 2/300 volte superiore a quella di un operaio della stessa azienda. Un dislivello notevole, che però negli Usa arriva a 4/500 volte», spiega Paolo Citterio, presidente dell’Associazione direttori risorse umane (Gidp/Hrda). «Al momento non ci sono normative su tetti ai compensi ed è molto difficile far passare questa idea nelle società, soprattutto in quelle quotate in Borsa. Ma credo che presto ci si arriverà: gli stipendi d’oro sono inaccettabili in una situazione in cui moltissimi lavoratori non hanno neppure gli indennizzi di disoccupazione. E l’iniziativa dovrà venire dall’alto, dal governo, evitando che la singola azienda “virtuosa” venga penalizzata dal mercato. Sarebbe opportuno», conclude l’esperto di risorse umane, «che fossero proprio gli alti dirigenti statali e i parlamentari i primi a dare l’esempio. Un segnale di buon senso e di impegno per superare la crisi».
Tra pubblico e privatoInfatti ci si era messi d’impegno, nel 2007 (governo Prodi) a dare una regolata a chi guadagnava un po’ troppo. Il limite riguardava, però, solo i dirigenti pubblici ed era stato introdotto nella Finanziaria 2008 grazie a un emendamento firmato da Cesare Salvi e Massimo Villone (dell’allora Ulivo). Veniva stabilito che gli stipendi massimi di tutti i manager pubblici (dall’apparato statale, ai ministeri, fino alle Asl), esclusi quelli delle società quotate, non potevano superare i 274 mila euro l’anno. Una prima modifica arrivò poco dopo con l’equiparazione al compenso del primo presidente della Corte di Cassazione: 289.984 euro. Ma nell’agosto del 2008 la legge 129/2008 ha di fatto cancellato il tetto, lasciandolo in vigore solo per gli incarichi aggiuntivi. Ma siccome da allora il regolamento attuativo non è stato mai pubblicato, dirigenti ministeriali, grand commis, capi di gabinetto e manager di società statali e parastatali hanno continuato a percepire stipendi ben sopra il tetto della vecchia norma. Qualche esempio tanto per indignarsi un po’? Eccoli. Marco Canzio, ragioniere generale dello Stato, percepisce tra i 400 e i 450 mila euro, Aldo Ricci, amministratore delegato di Sogei, 558 mila euro, Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro, 600 mila euro, Giuseppe Bonomi, direttore generale della Sea, 550 mila euro, Pietro Ciucci, presidente dell’Anas, 750 mila euro. Montagne di soldi che diventano però delle briciole se paragonate alle retribuzioni di alcuni manager privati. Il libro inchiesta di Gianni Dragoni e Giorgio Meletti, La paga dei padroni (edito da Chiare Lettere), riporta la classifica dei paperoni del capitalismo italiano elaborata da Il Sole 24 Ore. Citiamo solo le prime tre posizioni, con i compensi del 2007 al lordo delle tasse: Matteo Arpe, amministratore delegato di Capitalia fino al 31 maggio 2007, ha percepito una liquidazione di 37 milioni e 405 mila euro; Cesare Geronzi, presidente di Capitalia fino al 30 settembre 2007 e vicepresidente di Mediobanca per l’esercizio chiuso al 30 giugno 2007, ha avuto 24 milioni e 23 mila euro; Riccardo Ruggiero, amministratore delegato e direttore generale di Telecom Italia fino al 2 dicembre 2007 e consigliere di amministrazione di Safilo, ha intascato 17 milioni e 277 mila euro.Suggestivi anche i casi, sempre sintetizzati nel libro, di due manager pubblici, Giancarlo Cimoli ed Elio Catania. Il primo passa nel maggio 2004 dalle Fs a una già dissestata Alitalia con il compito di risanarla. Col suo piano la compagnia di bandiera sarebbe dovuta tornare in attivo nel 2006 e invece i conti sono peggiorati. Che fine abbia fatto l’Alitalia è noto a tutti. Meno noti sono gli stipendi dell’amministratore delegato di quegli anni nonostante le perdite in bilancio: 1 milione e 513 mila euro per gli otto mesi scarsi del 2004, 2 milioni e 786 mila euro nel 2005, un milione e mezzo nel 2006 (con le perdite della società arrivate a 626 milioni). Cimoli viene esautorato il 17 gennaio del 2007 e per quei 7 giorni ha percepito 131 mila euro. Oltre alla buonuscita che gli spettava da contratto in caso di fine anticipata del rapporto di lavoro.Catania invece succede a Cimoli alle Fs. I conti della società peggiorano. Nel 2005 le perdite toccano quota 472 milioni, ma la busta paga dell’ingegnere recita 1 milione e 930 mila euro. Catania lascia la società il 7 settembre 2006, lasciando in eredità a Mauro Moretti, che prende il suo posto, un rosso di oltre 2 miliardi di euro per l’anno in corso, ma dal ministero dell’Economia riesce a farsi dare una buonuscita di 8 milioni e 535 mila euro.Ora: di fronte a stipendi di questa entità, come riuscirà la proposta dell’esponente della Lega Rosi Mauro a farsi strada? Il 3 marzo scorso, insieme a Sergio Divina, presidente della commissione Controllo prezzi del Senato, ha presentato un emendamento al disegno di legge collegato alla Finanziaria che prevede di fissare a un massimo di 350 mila euro le retribuzioni dei dirigenti pubblici. Ma anche quelle dei vertici di banche e aziende che chiederanno eventualmente aiuti statali anticrisi. Da allora di quella proposta che ha fatto tanto discutere, non si è saputo più nulla. Chissà che cosa ne penserebbe Obama.
Nella P.A. (Gli stipendi di alcuni dirigenti pubblici) |
400-450mila euro stipendio annuo di Marco Canzio, ragioniere generale dello stato |
558mila euro Aldo Ricci, amministratore delegato di Sogei |
600mila euro Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro |
550mila euro Giuseppe Bonomi, direttore generale della Sea |
750mila euro Pietro Ciucci, presidente di Anas |