Era inevitabile che il lancio di un’offerta pubblica di scambio (Ops) volontaria sulla totalità delle azioni di Banco Bpm da parte di Unicredit avrebbe dato vita a una lunga serie di riflessioni e ragionamenti, che si sono susseguiti nelle ultime ventiquattro ore. Le voci e le opinioni hanno continuato a rincorrersi fino a quando è stato proprio Bpm a esplicitare che l’offerta non sarà presa in considerazione.
Facendo un passo indietro, in molti hanno ipotizzato che l’integrazione fra Unicredit e Bpm avrebbe potuto dare luogo a una trasformazione significativa per il sistema bancario italiano, con impatti di rilievo sotto diversi punti di vista: si sarebbe creato un vero e proprio colosso del credito, con una capitalizzazione di mercato vicina ai 72 miliardi di euro.
L’Ops da più di 10 miliardi avrebbe aumentato le capacità di competere a livello europeo, con diversi vantaggi: gli esperti stimavano un aumento dell’utile per azione di oltre il 15% grazie alla razionalizzazione dei costi e all’efficienza operativa. Di certo, peraltro, Unicredit avrebbe potuto utilizzare il suo ampio capitale in eccesso per finanziare l’operazione senza compromettere la propria solidità patrimoniale.
Certo, non si sarebbe trattato di un’operazione prima di rischi: l’integrazione avrebbe implicato delle inefficienze iniziali e la razionalizzazione di personale e filiali, con impatti sul tessuto occupazionale e sociale. Inoltre, una maggiore concentrazione nel mercato avrebbe potuto limitare la concorrenza e ridurre la scelta per i consumatori. Sia come sia, tutto è rimasto nel campo dell’ipotetico perché Banco Bpm ha dichiarato “ostile” l’offerta.
Precisamente, il consiglio di amministrazione di Bpm ha osservato che la proposta «non riflette in alcun modo la redditività e l’ulteriore potenziale di creazione di valore per gli azionisti di Banco Bpm». Sulle pagine de Il Fatto Quotidiano si legge anche che Bpm rimane focalizzato «sull’implementazione del piano 2023-2026, sull’esecuzione dell’Opa su Anima e sul conseguente aggiornamento del piano industriale, non trascurando alcuna opzione strategica che possa ulteriormente contribuire all’obiettivo di creare valore per gli azionisti e per tutti gli altri stakeholders del gruppo Banco Bpm».
Di contro, l’agenzia di rating Standard & Poor’s non esclude una nuova offerta di Unicredit. Ed è qui che potrebbe nuovamente entrare in gioco il governo, che si è mostrato cauto: pur riconoscendo il potenziale beneficio economico di una fusione di tale portata, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha richiamato l’importanza del golden power, uno strumento che permette al governo di bloccare operazioni che potrebbero minacciare settori strategici come il credito.
L’atteggiamento è protettivo e le ragioni sono diverse, in primis la presenza di Credit Agricole, azionista di rilievo di Banco Bpm, che potrebbe rappresentare un interesse estero potenzialmente in competizione con Unicredit. Anche Matteo Salvini, leader della Lega, ha criticato l’operazione, definendo Unicredit “una banca straniera” per via del suo crescente orientamento internazionale e ha sottolineato la necessità di mantenere un sistema bancario autonomo e radicato sul territorio.
Altri membri della maggioranza, invece, come i rappresentanti di Fratelli d’Italia, hanno adottato un approccio più neutrale, ribadendo che non spetta alla politica dirigere le scelte del mercato privato. Di certo, qualora si trovasse una strada per un accordo, il governo sarà probabilmente costretto a trovare un compromesso tra protezionismo economico e la necessità di attrarre investimenti e rafforzare il sistema finanziario italiano. Fuori dal governo, invece, le opinioni sono più favorevoli a lasciare che il mercato e le autorità antitrust regolino tali operazioni, senza interferenze statali.
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