Global Minimum Tax: stop a maxiprofitti e minitasse?

È finalmente entrata in vigore la tassa che ha l’obiettivo di mettere fine alla competizione fiscale tra Paesi e ristabilire l’equità contributiva. Entriamo così nel biennio decisivo per la sussistenza stessa delle democrazie

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Il 2024 è l’anno della Global Minimum Tax. Finalmente il mondo si è messo d’accordo, dopo anni di trattative nel super-consesso del G20 e in sede Ocse, su un’imposta minima per le multinazionali che hanno attività e forniscono servizi transfrontalieri. Sono tutte centri di competenze trasversali ed evolute, scrive da sempre Mediobanca che su questo tema redige da anni il rapporto più sofisticato. Sono «fabbriche di abilità e servizi», che spaziano dai prodotti software per le aziende e privati (Oracle e Microsoft) all’intrattenimento (Netflix), dall’Internet retail basato sul commercio elettronico (Amazon, eBay ed Expedia) ai servizi Internet (Alphabet e Meta).

I numeri alla base della Global Minimum Tax

L’accordo tra i grandi del mondo serve per limitare la concorrenza fiscale tra i Paesi, altrimenti costretti a contendersi le sedi delle grandi multinazionali. Così è diventata operativa anche in Italia dal primo gennaio. Porta ad applicare l’aliquota del 15% sugli utili realizzati dalle multinazionali con fatturato annuo superiore a 750 milioni.
A fronte di un fatturato aggregato pari a 9,3 miliardi di euro nel 2022 le filiali italiane delle Web-Soft, registra Mediobanca, hanno finora versato al fisco italiano solo 162 milioni di tasse, per un tax rate effettivo del 28,3%. Per fare un parallelo per i redditi medio-alti in Italia l’aliquota supera il 43%. Rispetto al 2019 queste Big Tech contano circa 11 mila dipendenti in più, in massima parte assunti da Amazon, che vanta il maggior numero di occupati nel nostro Paese (18 mila addetti nel 2023). Gli ingenti flussi di cassa alimentano molti investimenti finanziari, come liquidità e buy-back, ma quelli fisici sono da sempre limitati e inferiori alle aziende manifatturiere e questo è il principale teorema di chi accusa l’economia digitale di aver accentuato ulteriormente le disuguaglianze. Analizzando i dati dei primi nove mesi 2023 e del triennio 2019-2022 delle 25 maggiori WebSoft internazionali per ricavi, scopriamo che undici hanno sede negli Stati Uniti, dieci in Cina, due in Germania e una ciascuno in Giappone e Corea del Sud. Il giro d’affari, però, è sempre più concentrato: i primi tre player, Amazon, Alphabet e Microsoft, rappresentano oltre la metà dei ricavi aggregati, con Amazon (481,9 miliardi di euro, di cui il 46,5% generato dal retail), in prima posizione dal 2014, che ne concentra da sola oltre un quarto.

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COS’È LA GLOBAL MINIMUM TAX (foto © iStockPhoto)

Nel 2022 circa un terzo dell’utile ante imposte è tassato in Paesi a fiscalità agevolata, con conseguente risparmio fiscale di 13,6 miliardi di euro nel 2022 e di 50,7 miliardi cumulati nei quattro anni 2019-2022. L’aliquota media risulta pari al 15,1% nel 2022, inferiore a quella teorica del 21,9%. Nel periodo 2019-2022 la tassazione in Paesi a fiscalità agevolata ha determinato per Tencent, Microsoft e Alphabet un risparmio fiscale rispettivamente di 19,2 miliardi, 12,3 miliardi e 7,1 miliardi di euro. Al 30 novembre 2023 hanno raggiunto una capitalizzazione complessiva di 8.767 miliardi di euro, in accelerazione del 47,5% sul dicembre 2022.
Nel confronto con Piazza Affari, sebbene quest’ultima abbia messo a segno una delle migliori performance d’Europa nel 2023, le WebSoft si confermano dei pesi massimi: complessivamente valgono oltre dieci volte l’intera Borsa italiana. Il podio di Borsa è occupato da Microsoft (2.581 miliardi di euro), Alphabet (1.528 miliardi) e Amazon (1.384 miliardi). Da fine dicembre 2022 a novembre 2023 due gruppi hanno registrato una performance particolarmente brillante: Meta (+165,9%) e Uber (+123,0%). A ciò si aggiunga che l’ultimo rapporto chiamato The missing profits of Nations, pubblicato dal National Bureau of economic Research di Cambridge, stima in circa 20 miliardi di euro i profitti di aziende multinazionali di fonte italiana trasferiti verso “paradisi fiscali”. Un altro cortocircuito considerando che di questi, oltre 17 miliardi affluiscono in Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Cipro e Malta.

I temi ancora aperti

Il pilastro della Global Minimum Tax non risolve, infatti, il tema della corretta attribuzione dei redditi a fini impositivi: quale Stato tassi quali redditi. Un tema che riguarda soprattutto l’economia digitale, in cui è più complicato stabilire dove certi redditi sono stati prodotti. Al momento è il problema più serio, perché negli Stati Uniti risiedono alcune delle più grandi multinazionali al mondo, quelle più aggressive dal punto di vista fiscale. Se gli Usa restano fuori, la portata globale dell’accordo rischia di essere ridimensionata. Fino a oggi se un gruppo italiano avesse detenuto una società in Irlanda, questa avrebbe beneficiato di un’aliquota nominale del 12,5% e una effettiva probabilmente ancora minore. La controllata scontava il suo 10% effettivo di tassazione e poi distribuiva gli utili in Italia dove pagava circa l’1%. Con la Global Minimum Tax i redditi irlandesi non scontano più solo il 10%, ma si deve arrivare almeno al 15%. Se non è l’Irlanda ad applicare questa soglia, a quel punto è l’Italia che fa pagare alla capogruppo italiana il 5% in più di imposta sul reddito della società irlandese. Per questo la Global Minimum Tax è una norma che aiuta i Paesi che hanno un tax rate superiore al 15%. Il nuovo sistema si fonda quindi sull’applicazione di un’imposta integrativa nel caso in cui l’aliquota effettiva non raggiunga il 15%. L’imposta si poggia a sua volta su due regole interconnesse, a seconda che gli Stati coinvolti aderiscano o meno alle norme che ne costituiscono il suo fondamento: l’imposta minima integrativa e l’imposta minima suppletiva. Ecco perché la principale novità fiscale dell’anno non porterà alcun gettito aggiuntivo nel 2024. Bisognerà aspettare il 2026 per avere qualche soldo in più. La stima complessiva, a regime, dell’applicazione di questa imposta globale è di 220 miliardi l’anno.

Il biennio della verità

Il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, si aspetta (tra due anni) un beneficio per l’erario di circa 2 miliardi, che costituisce però una stima assai ottimistica. In ogni caso la rivoluzione cominciata il primo gennaio è destinata a mutare in profondità la cultura tributaria internazionale. Gli Stati nazionali hanno, almeno sulla carta, più poteri impositivi nei confronti delle multinazionali. Ma alcuni di loro — anche dentro l’Ue — non sfuggiranno alla tentazione di difendere quei trattamenti di favore che li hanno trasformati negli anni in veri e propri paradisi fiscali. Entriamo nel biennio della verità. Da una parte c’è la cooperazione, necessaria per tentare di ristabilire un minimo di equità contributiva e finanziare le spese pubbliche, in prospettiva ingigantite dalla demografia e dalla transizione energetica. Dall’altra la competizione fiscale, che attrae capitali, non sempre in forma trasparente, fattore però di crescita e di creazione di reddito e di occupazione. Un dilemma esistenziale. Anche perché l’erosione dei sistemi fiscali — che a sua volta erode lo Stato sociale — distrugge le democrazie rappresentative. Se esistono società che sfuggono del tutto a qualsiasi forma impositiva degli Stati e hanno fatturati superiori al loro prodotto lordo, non è remoto il rischio che l’erosione finisca per minare le basi dei sistemi democratici. Le prime si fanno Stato. I secondi perdono la loro essenza.


Articolo pubblicato su Business People di marzo 2024. Scarica il numero o abbonati qui 

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