Forse non se lo aspettava neanche lui, ma con una semplice frase, «i contenuti on line devono essere pagati», lo scorso maggio Rupert Murdoch, patron del più grande gruppo editoriale del mondo, la News Corporation, con attività che spaziano dall’Australia sino al mercato statunitense, senza dimenticare la vecchia Europa, ha segnato uno spartiacque nella storia della comunicazione contemporanea. Da allora ogni giorno si leggono sulle agenzie commenti a raffica sulla proposta di Murdoch. Il ceo di News Corp. ha indicato lungo quali strade il comparto dell’editoria si muoverà negli anni a venire, con l’obiettivo di smarcarsi da un sistema che oggi si affida esclusivamente alle entrate pubblicitarie e alla diffusione nel tradizionale formato di carta. «Il futuro dei giornali è nel digitale» ha profetizzato il magnate. «Prima o poi, al posto di un giornale stampato su carta, il lettore ne potrà avere uno impresso su dispositivi mobili che capteranno i contenuti di un intero giornale attraverso collegamenti senza fili. E saranno aggiornati ogni ora o al massimo ogni due ore». In questo contesto, «l’attuale modello di business dell’on line, basato sull’assoluta gratuità, non va più bene. La strada da seguire è un’altra», ovvero far pagare in parte la fruizione delle notizie sul web. Dinanzi alla drastica frenata degli investimenti pubblicitari sul mezzo stampa, un fenomeno iniziato prima della grande crisi e acuito in maniera drammatica dall’attuale scenario recessivo, gli editori devono trovare nuove forme di ricavi. News Corp. sta dunque pensando di introdurre dal prossimo autunno micropagamenti per singoli articoli e abbonamenti premium per pacchetti di informazione ben più corposi pubblicati sul sito del Wall Street Journal . «È un sistema» ha commentato il direttore del quotidiano Robert Thomson «che ci permetterà di far pagare agli utenti solo quello che effettivamente hanno letto e ai più fedeli tra i nostri lettori di avere a disposizione tutta l’informazione del Wall Street Journal».
Il successo della nicchia
Quello a cui Murdoch ha pensato, e che al più presto intende applicare al gioiello del suo portafoglio editoriale (la svolta, dice il patron, toccherà nel giro di un anno anche gli altri giornali del gruppo, come The Times, The Sun, New York Post e The Australian), è un modello da tempo brevettato dagli operatori del web. Il modello ha un nome, Freemium, una data di nascita, 23 marzo 2006, e naturalmente un papà, il venture capitalist newyorkese Fred Wilson. A dare dignità teorica al Freemium ci ha pensato poi Chris Anderson, direttore di Wired, il mensile americano della Condé Nast. Anderson ha scritto nel 2006 un libro fondamentale per l’analisi delle tendenze del mondo del web, The Long Tail, pubblicato in Italia da Codice Edizioni con il titolo La Coda lunga (il 6 luglio 2009 è attesa l’uscita della seconda fatica letteraria di Anderson, dal titolo Free, the past and the future of a radical price in cui il giornalista esamina l’ascesa dei modelli di mercato che forniscono prodotti e servizi gratuiti). Qual è la tesi di Anderson? La diffusione delle nuove tecnologie, Internet in testa, ha dato forma a un mercato di moltitudini costituito da nicchie, sempre esistite ma prima difficilmente accessibili. Sino a qualche anno fa, l’industria dell’intrattenimento e dei media era vissuta quasi esclusivamente di blockbuster, di hit la cui funzione era catturare l’interesse di un pubblico il più vasto possibile. Oggi Internet permette al singolo cittadino di accedere a milioni di prodotti e contenuti, grazie a una rete distributiva ottimizzata per comunicazioni point-to-point e oltretutto molto economica rispetto ai canali tradizionali. Accanto al mercato di massa sta nascendo un mercato di moltitudini di nicchie dotate ciascuna di una sostenibile dignità economica e una dignità culturale. Le nicchie, sostiene Anderson, sono infatti in grado di vendere quasi tutti i loro prodotti, mentre viceversa nei mercati di massa il business si concentra sul 20% dei prodotti che generano l’80% dei ricavi. Nel mercato delle moltitudini regna difatti la regola del 98%. Anderson ha dimostrato che nell’arco di un trimestre il 98% dei prodotti di un mercato di nicchia riesce a conquistare almeno una volta le attenzioni di un’acquirente. Per Coda Lunga Anderson intende proprio una curva che non arriva praticamente mai allo zero, dove la coda della curva è molto lunga rispetto alla testa. Così tutte le nicchie, quando aggregate, possono equivalere a un mercato importante in termini economici. Tenendo conto di questa fondamentale premessa, si capisce bene come un modello misto gratuito e a pagamento abbia la possibilità di funzionare. Coniugando il vero punto di forza del web, la chiave del suo successo globale, la gratuità della distribuzione delle informazioni, con la possibilità di proporre con facilità un numero indefinito di mercati di nicchia, Freemium si pone all’avanguardia tra i business model delle società che hanno a che fare con il mondo del web. Facciamo alcuni esempi. Con Skype i navigatori possono chiamare via web altri utenti del servizio senza sborsare un centesimo. Si paga solo se si vuole chiamare un fisso o un cellulare, grazie al servizio SkypeOut. Tape Tapolous prima ha creato una versione basic gratuita di Tap Tap Revenge, un gioco musicale per l’iPhone scaricabile dal web. Quindi, una volta fidelizzati i consumatori, ha messo in vendita versioni più avanzate del musical game, ottenendo un discreto successo di mercato. Stesso discorso per Hattrick, il gioco che permette di diventare proprietari di una squadra di calcio e gestirla: il gioco è totalmente gratuito, ma per utilizzare le funzionalità avanzate che permettono di migliorare l’esperienza di gioco si deve pagare. Flickr, l’applicazione on line per la gestione e la condivisione di foto, offre a chi si registra il traffico mensile e i set limitati con la versione gratuita, mentre con la versione Pro, a pagamento, si accede a tutti i servizi del portale.
Il parere di Google
Nonostante il Freemium abbia lasciato una traccia profonda anche nel modus operandi delle grandi company del web, il modello di business per colossi della rete come Google, Facebook e Myspace parte da un presupposto differente: a pagare sono le aziende, che comprano la pubblicità e permettono così ai navigatori di disporre di servizi gratuiti. «Il nostro intero business» spiega Giorgia Longoni, direttore marketing Google Italy «è stato concepito per rendere le informazioni presenti in rete accessibili e fruibili da chiunque, gratuitamente. L’obiettivo primario del servizio è da sempre quello di soddisfare un’esigenza degli utenti. Solo successivamente abbiamo sviluppato un modello intorno al motore di ricerca, quello legato alla pubblicità, che ci ha permesso di monetizzare il servizio senza chiedere nulla ai nostri utenti. Percepito inizialmente come un canale di comunicazione pionieristico, il search marketing si è rivelato uno strumento importante per le aziende, che utilizzandolo hanno rivoluzionato il loro modo di rapportarsi all’utenza finale e di concepire strategie di marketing, grazie anche agli insight raccolti proprio attraverso il mezzo Internet. A partire dal motore di ricerca, il modello del Freemium è stato applicato a tutti i nostri prodotti consumer. Di fatto oggi non esiste un solo prodotto consumer di Google nato per essere a pagamento. La cosa fondamentale da ricordare, poi, è che il modello di Google è basato sull’innovazione tecnologica, che rappresenta un fattore determinante nello sviluppo di servizi utili per l’utente. L’innovazione ha prodotto fidelizzazione così come nuovi mercati, che sono nati sulla base di questa evoluzione e che hanno rappresentato non solo il nostro modello di business ma anche la chiave per portare avanti il processo di innovazione». La grande domanda che si pone oggi il mondo della comunicazione e della new economy è se un modello misto come il freemium possa funzionare se applicato a un mondo, quello di Internet, che ha basato il suo successo sull’accessibilità dei contenuti. «A mio avviso» dice ancora Giorgia Longoni «l’integrazione dei modelli, gratuito e a pagamento, può coesistere a patto che non si cerchi di realizzarla trasponendo sui mezzi digitali modelli di business tradizionali, senza tenere in conto le specificità di Internet. Il web è una realtà troppo lontana dalle logiche di business che abbiamo conosciuto fino a oggi perché queste possano esservi applicate con successo. Se è vero che on line le barriere all’ingresso sono bassissime, allo stesso modo non esistono barriere all’uscita. Questo significa che per un qualunque utente il passaggio da un fornitore di servizi a un altro è pressoché immediato e senza costo. In un simile contesto, la gratuità del servizio, insieme ovviamente all’utilità dello stesso, rappresenta una condizione necessaria per essere competitivi. Questo tuttavia non significa che on line tutto debba essere gratuito, esistono infatti evoluzioni di applicazioni consumer studiate appositamente per un’utenza aziendale che offrono servizi aggiuntivi e a pagamento. Nel caso dell’utenza consumer, invece, l’offerta di servizi premium può rappresentare un modello di monetizzazione efficace».
Le nuove strategie
La strada sembra ormai segnata. Non solo per le aziende del web, ma anche per i grandi gruppi editoriali. Qualche giorno dopo l’“esternazione” di Murdoch, il sito della rivista The Atlantic ha rivelato che i manager dei più importanti gruppi editoriali americani hanno dato vita a una riunione a Chicago per discutere le strategie per permettere il pagamento on line dei contenuti giornalistici e per difendere la proprietà intellettuale. A promuovere l’iniziativa è stata la Newspaper Association of America (l’organizzazione degli editori dei quotidiani), sulla scia delle audizioni che si sono tenute al Congresso statunitense sul futuro della carta stampata. Il vertice, secondo le indiscrezioni, ha visto la presenza tra gli altri di manager dei gruppi editoriali Gannett, New York Times Co., Scripps, McClatchy, Hearst, Advance, MediaNews Group, Philadelphia Media Holdings, Lee Enterprise e Freedom Communications. La strada è ormai segnata.
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