Più di 200 miliardi in lasciti e testamenti ogni anno: in rapporto al reddito del Paese è un record in Europa. La popolazione invecchia e genitori e nonni passano il testimone. Una ricchezza sempre maggiore viene trasferita a figli e nipoti. Non solo calcio, cibo, lusso e motori: tra i record europei che deteniamo c’è anche quello che riguarda i lasciti testamentari. La differenza oggi la fanno i risparmi “degli anni d’oro”, gli anni del Drive in. Risparmi che comprano le case a figli e nipoti. Figli e nipoti che però spesso si ritrovano con immobili lasciati in eredità che portano costi, capitali che rischiano di venir erosi dall’inflazione galoppante di questi ultimi due anni.
Esiste una generazione alle prese con la prospettiva della consegna del testimone che spesso si trova impreparata. Che ha per oggetto i soldi del miracolo economico italiano: case, seconde case, auto, barche, denari, titoli e altre proprietà. Soldi che giravano tra gli anni 80 e 90 nelle tasche di una generazione nel pieno del boom. E ora non può essere dilapidata. Le stime parlano di circa 2 mila miliardi di ricchezza che si prepara a passare dalle mani degli yuppy a quelle della “generazione Internet”, una generazione che risparmia meno, ha lavori più precari e un futuro pensionistico incerto, tanto da dover per forza di cose accantonare qualcosa in una forma di previdenza integrativa. Le stime Istat ci dicono che nel nostro Paese vivono quasi 15 milioni di italiani che si collocano dentro la Generazione X, quella dei nati tra il 1964 e il 1979. Oltre 11 milioni sono i Millennial, nati tra il 1980 e il 1987. Più di 8 milioni fanno invece parte della Generazione Z, nati tra il 1998 e il 2012. Quel che è certo è che in Italia non siamo molto ferrati nella gestione del denaro: sappiamo accantonare i soldi nel conto corrente e poco più, tanto che nelle classifiche sull’educazione finanziaria siamo da sempre agli ultimi posti in Europa. Tutto questo ha un costo. Secondo dati Fabi, la ricchezza finanziaria degli italiani supera i 5.256 miliardi, in rialzo di quasi 1.700 miliardi (+50%) nell’ultimo decennio. Ma la liquidità resta la forma preferita di allocazione e ora si tramuta in uno spreco visto l’alto livello dei tassi di interesse. Il contante è cresciuto di 509 miliardi (+45%), fino a quota 1.629 miliardi: ciò significa che la percentuale di denaro lasciato su conti correnti e depositi si conferma al 31% del totale delle masse. Una scelta che però finisce con l’erodere il valore del patrimonio.
Serve un cambio di passo, soprattutto ora che si sta per verificare il più grande passaggio di ricchezza dal Dopoguerra a oggi. Secondo i calcoli di Aipb, l’associazione italiana del private banking, siamo di fronte a 180 miliardi di trasferimento entro il 2025. Un passaggio di ingenti quote di ricchezza da una generazione all’altra, che richiede ai consulenti finanziari la capacità di parlare a persone con approcci molto diversi. I professionisti del patrimonio assisteranno quotidianamente a questo passaggio e nei prossimi dieci anni la somma sarà ancora più considerevole. Circa 2 mila miliardi passeranno di mano da Baby Boomer e Generazione X ai Millennial. Questo trasferimento coinvolgerà prevalentemente famiglie imprenditoriali alla guida di aziende di piccola e media dimensione che costituiscono l’ossatura del tessuto produttivo. Preservare il patrimonio, la continuità aziendale, generazionale e di valori familiari, diventa quindi una delle sfide più importanti che dovranno affrontare consulenti, wealth manager e family office nel prossimo futuro.
Dalla ricerca emerge che entro i prossimi dieci anni, un terzo dei family office sarà rilevato dalla prossima generazione, ma ci sono preoccupazioni sulla sua preparazione a interagire con la struttura di gestione del patrimonio familiare e sulla capacità di indirizzare le valutazioni dei propri partner a ridosso del passaggio: l’evoluzione dipende non solo dalle dinamiche esterne e dai trend futuri di investimento, ma anche da quelle che sono le tematiche interne alla famiglia.
Attualmente, poco più della metà degli intervistati in un’indagine Deloitte ha un piano di successione in atto, di cui solo il 51% di questi è formalmente depositato, mentre il resto sono piani concordati informalmente (29%) o semplicemente verbalmente (14%). Questo spiega perché la continuità generazionale è indicata come il secondo maggiore fattore di rischio identificato dai family office europei, dopo il rischio d’investimento. In Italia è un tema avvertito soprattutto nel segmento dimensionale delle pmi, dove c’è la maggior concentrazione di imprese a conduzione familiare, magari non ancora seguite sistematicamente da strutture dedicate, ma solo da consulenti che vengono percepiti come trusted business advisor. Spesso nel nostro Paese anche le grandi società sono a conduzione familiare, ma in quel segmento dimensionale le famiglie riescono a organizzarsi per tempo sul passaggio generazionale, mentre le pmi arrivano in ritardo. Ecco perché serve un cambio generazionale anche per la professione del consulente.
«Il contesto anagrafico delle Reti trova nel dato degli over 70 l’occasione per una nuova apertura occupazionale ai giovani. Le dinamiche anagrafiche stanno creando le condizioni per il trasferimento di circa 70 miliardi, attualmente nel portafoglio dei più senior, a giovani consulenti che faranno ingresso nella professione», spiega Marco Tofanelli, segretario generale Assoreti, l’associazione di rappresentanza dei consulenti finanziari. La maggioranza degli imprenditori è alla prima generazione e per la prima volta si trova ad affrontare questo passaggio. La gestione del patrimonio è frammentata fra i supporti tipici (notaio, avvocato, commercialista di famiglia, wealth manager e private banker per la parte finanziarie), che spesso faticano ad avere una visione complessiva della ricchezza e dei bisogni del cliente. C’è bisogno di cooperare secondo una logica multidisciplinare. È evidente anche come sia necessario trovare un bilanciamento fra investimenti tradizionali (finanza, immobiliare) e alternativi (arte, oggetti di valore, filantropia) per supportare anche le giovani generazioni, spesso a corto di educazione finanziaria.
Nel portafoglio degli imprenditori compaiono sempre più investimenti in venture capital e startup che seguono due logiche: diversificazione e sviluppo della propria impresa. Poi ci sono le esigenze meno tipiche che richiedono competenze specifiche: art finance, oggetti e immobili di pregio e la filantropia che si sviluppa all’interno di un nuovo contesto di responsabilità sociale, in correlazione con la reputazione aziendale e personale dell’imprenditore. Un salto quantico che va dritto al centro della questione: preservare il benessere del Paese trasferendolo da generazione a generazione. Nei rivoli di questo passaggio si gioca la capacità dell’Italia di conservare anche il proprio Stato sociale, la sostenibilità del nostro welfare, la capacità delle imprese di dare occupazione e sviluppo tecnologico.
Articolo pubblicato su Business People di aprile 2024. Scarica il numero o abbonati qui
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