La pandemia da Covid-19 ha trasformato il 2020 in uno spartiacque del XXI secolo per il mondo del lavoro, fornendo impulsi decisivi per un cambiamento duraturo. Tra questi la diffusione dello smartworking, anche grazie all’istituzione di una procedura semplificata. Ma cosa accadrà ora che queste semplificazioni vengono meno? Sicuramente le società dovranno affrontare alcune importanti sfide in ambito HR. Ecco quali sono le principali secondo ADP, multinazionale specializzata proprio nella gestione del capitale umano.
7 sfide per lo smartworking
1. Trattenere i talenti (e assumerne di nuovi)
Man mano che la pandemia prendeva il sopravvento, 3/4 delle aziende introduceva il congelamento delle assunzioni (un sondaggio Gartner del 2020 ha rivelato che il 74% delle aziende ha bloccato le assunzioni in risposta al Covid19). Ora, nel momento in cui i mercati e le opportunità iniziano a riaprirsi, le aziende devono affrontare nuove lotte nella cosiddetta “guerra dei talenti”. “Non è solo di trattenere i talenti migliori che ci si deve preoccupare. Dopo la pandemia, i lavoratori di ogni estrazione sociale stanno mettendo in discussione l’obiettivo del proprio lavoro e se questo possa essere il momento giusto per imboccare una direzione completamente diversa. Un lungo periodo di lavoro in remoto, le preoccupazioni su come occuparsi dei figli, i periodi di cassa integrazione e l’onnipresente spettro della malattia hanno spinto le persone a riconsiderare come, e dove, intendono trascorrere la parte principale del loro orario di lavoro”, spiega Marisa Campagnoli, HR Director ADP Italia. Interessanti i dati emersi da un’intervista di ADP a 2000 lavoratori italiani durante il periodo Covid (“People at Work: a Global Workforce View”), secondo cui il 27% degli intervistati ha dichiarato di pensare che il Covid abbia contribuito a sviluppare le proprie competenze, e il 25% di perfezionare il proprio metodo di lavoro. L’83% dei dipendenti ritiene di disporre delle competenze necessarie per avere successo nella propria carriera, ma non necessariamente con il datore di lavoro attuale. Un buon 20% ha dichiarato di essere attivamente alla ricerca di un impiego in un settore completamente diverso da quello attuale.
2. Più mobilità e più fiducia con lo smartworking
Con la diffusione del lavoro remoto, i dipendenti stanno realizzando la possibilità di nuove opportunità di carriera, senza l’ostacolo dalla posizione geografica. Allo stesso tempo, la pandemia ha offerto a molte persone la possibilità di sviluppare nuove competenze o di cambiare carriera in modi inaspettati. Secondo la ricerca sopra citata, il 44% dei lavoratori italiani ha subito un cambiamento di ruolo o la modifica delle mansioni ricoperte a causa della necessità, da parte dei datori di lavoro, di adattare nuovi metodi di lavoro, di avere a disposizione nuove competenze e, in alcuni casi, ristrutturare l’organizzazione aziendale. Le sfide legate al Covid19 hanno consentito ad alcuni di sviluppare competenze nuove o intraprendere percorsi di carriera che sfruttano il loro potenziale in modi imprevisti e aumentano la soddisfazione personale. Gran parte di essi ha ricevuto una ricompensa per il proprio impegno: il 56% ha avuto un aumento di stipendio o un bonus (dati ADP). A fronte di tutti i progressi compiuti per facilitare il lavoro flessibile e remoto durante la pandemia, esistono ancora numerosi ostacoli da superare, non ultimo il modo in cui le aziende monitorano e gestiscono i team che lavorano in località e in fusi orari diversi. Il controllo dei lavoratori da parte dei datori è aumentato. Circa un lavoratore su tre (38%) ha affermato come il monitoraggio della propria azienda sul proprio lavoro sia diventato più rigido, complice il lavoro da remoto.
3. Una strategia dinamica per affrontare la crisi delle competenze
Le ricadute della pandemia sono servite per ampliare il deficit di competenze in molte aziende, in parte nel momento in cui le aziende si affrettavano per adottare le tecnologie di automazione e intelligenza artificiale. Ma non sono solo le hard skill, come le conoscenze digitali, a scarseggiare. Le competenze sociali, di adattabilità e di resilienza contribuiscono alla produttività e alle prestazioni aziendali e diventano ancora più essenziali quando la forza lavoro opera in modo virtuale. Con le nuove competenze richieste che prendono rapidamente il posto delle precedenti, serve un modo per mappare questi nuovi requisiti in termini di talento. In un momento in cui i lavoratori faticano chiaramente a fronte del cambiamento di responsabilità, il team delle risorse umane dovrà muoversi con cautela se intende riuscire a rafforzare la resilienza organizzativa e l’eccellenza operativa di punta. Dal 2017, il numero totale delle competenze necessarie per un unico impiego è aumentato del 10% anno su anno (dato Gartner).
4. Attenzione all’equità
Il posto di lavoro non è mai stato un ambiente equo e molte delle forze strutturali dietro alle disparità preesistenti sono state ingigantite dagli effetti della pandemia. Il panorama post-Covid presenta molte potenziali disparità legate al posto di lavoro che l’ufficio risorse umane deve valutare: generi, genitori e non genitori, gruppi di età, razze, dipendenti con e senza disabilità e lavoratori essenziali e non essenziali. Mentre il personale comincia a tornare sul posto di lavoro, va da sé che verranno alla luce nuove questioni di cui tenere conto. “I dati rivelano come sia più probabile che siano le donne, rispetto agli uomini, a classificare la gestione dello stress come il problema principale sul lavoro dall’inizio del Covid19; senza dubbio il peso di doversi occupare dei figli e della loro educazione in casa, della quale si sono fatte carico le donne in misura sproporzionata rispetto agli uomini per tutto il periodo, ha avuto un ruolo importante. Ma vi sono altre potenziali cause di stress tra le donne che interessano ai leader delle risorse umane: minore sicurezza in termini di prospettive di lavoro rispetto agli uomini e sensazione di sottovalutazione sul lavoro”, dichiara Marisa Campagnoli.
5. Tutele per i genitori
La pandemia ha costretto un numero record di persone a lavorare da casa, cosa che è risultata particolarmente difficile per i genitori con figli piccoli. Come riporta l’indagine, secondo gran parte dei dipendenti italiani con figli (48%), i datori di lavoro si sono dimostrati accomodanti nei confronti delle esigenze genitoriali dei lavoratori alle prese con l’accudimento dei figli o la chiusura delle scuole. Inoltre, secondo il 34% dei genitori, il proprio manager ha addirittura consentito maggiori misure a loro favore rispetto a quelle consentite dall’azienda e previste da regolamento. D’altra parte, lo studio ha anche evidenziato come, nonostante gli elementi positivi della pandemia in termini di maggiore flessibilità, ci siano ancora delle zone di resistenza che hanno influenzato in negativo l’equilibrio tra lavoro e vita privata. Infatti, sono ancora molti i manager che limitano la flessibilità garantita dall’azienda, secondo le dichiarazioni di una percentuale significativa di lavoratori, genitori e non (24%). A questo si aggiunge che ben il 5% dei genitori con figli di età compresa tra uno e dieci anni ha lasciato il posto di lavoro volontariamente durante la pandemia. Mentre si predispone la strategia di ripresa HR, far tornare i genitori al lavoro, con prospettive di lungo termine, deve essere una delle principali priorità.
6. Disparità intergenerazionali: attenzione ai più giovani
Infine, arriviamo alle ricadute sui dipendenti della Generazione Z (18-24enni), che con molta probabilità sono stati quelli maggiormente colpiti dall’impatto della pandemia rispetto a qualsiasi gruppo di dipendenti. Questa generazione sta entrando a far parte di una forza lavoro che è stata devastata da sconvolgimenti radicali, incertezza e recessione. La loro formazione e prospettive professionali sono state danneggiate, con una conseguente rivisitazione delle aspettative che nutrono. Secondo i dati ADP Research Institute, a perdere il lavoro (con licenziamento, non rinnovo contratto o momentaneamente) è stato il 23,5% dei ragazzi di età compresa tra i 18 e 24 anni, la stessa fascia d’età più vulnerabile anche a livello contrattuale. Segue la generazione dei millenial (25-34 anni) con l’11,5%, la fascia 35-44 con il 9%, per poi scemare al 6% e 5% per le fasce più alte.
7. Un futuro flessibile grazie allo smartworking
Che ci aspettino o meno altri lockdown, nella pandemia attuale o in futuro, i dipendenti esigeranno sempre più che i team delle risorse umane assegnino la priorità e sostengano opzioni lavorative maggiormente flessibili. Garantire una flessibilità significativa ai lavoratori significa offrire opzioni che vanno ben oltre l’orario di lavoro e l’obbligo di lavorare in sede in determinati giorni della settimana. Riguarda la filosofia aziendale nel suo complesso rispetto ai lavoratori come esseri umani con una vita multidimensionale. Questa nuova flessibilità ha consentito a 3/4 dei lavoratori nel mondo di trasformare il dove e il come vivono la propria vita. Occorre però una maggiore attenzione per quel che riguarda il bilanciamento vita privata-lavorativa. Lo smartworking, infatti, se da un lato lo ha migliorato, ha però in certi casi contribuito a un significativo aumento delle ore lavorative: durante la pandemia, le ore di straordinario non pagate a settimana sono passate a circa sei ore a persona, mentre nei livelli pre-Covid si attestavano a quattro ore settimanali. Data la quantità di ore di lavoro non pagate che svolgono, i dipendenti potrebbero presto iniziare a mettere in discussione il grado di equità del loro trattamento nel momento in cui le opzioni di flessibilità non sono più disponibili.
8. Ricostruire le relazioni
A mano a mano che lo smart working si è diffuso, molti dei cardini del rapporto tradizionale tra datore di lavoro e dipendente sono stati ridefiniti. I dipendenti sanno che le loro responsabilità non si esauriscono con la garanzia di un orario di lavoro flessibile e che la loro azienda può solo guadagnare dal garantire loro sostegno in altro modo. Alcune di queste altre modalità sono:
- Sostegno alla salute mentale (il 42% dei lavoratori italiani sostiene che i datori di lavoro hanno fornito loro un supporto per la propria salute mentale durante la pandemia da Covid-19);
- Fornire consulenza per il benessere economico (solo il 31% afferma che le aziende lo facciano);
- Riconoscere il contributo apportato dal loro lavoro (il 50% dichiara che i datori di lavoro lo facciano).