Le persone cercano manager in grado di ascoltare e capire. Le aziende sono pronte?. In Italia, più di sei aziende su dieci investono in strumenti di wellbeing, ma solo un lavoratore su quattro sente che la propria organizzazione si sta prendendo davvero cura del suo benessere. È un paradosso: si investe in strumenti di welfare, ma si raccoglie poco. Perché?
Una risposta arriva dai dati dell’Osservatorio Jointly Balance, che ha analizzato l’impatto dell’omonimo servizio di supporto psico-relazionale attivo in 15 grandi aziende italiane, su un campione di circa 300 dipendenti. I risultati parlano chiaro: ciò che fa la differenza non è l’offerta, ma il modo in cui viene costruita la relazione tra azienda e collaboratori.
Più ascolto, più produttività
L’ascolto organizzativo – inteso come un insieme di strumenti per costruire relazioni di fiducia e durature – funziona. Funziona più della semplice copertura dei costi delle terapie. E non solo perché riduce le difficoltà personali, relazionali o professionali dei lavoratori, ma perché ha un impatto diretto su produttività ed engagement. “I risultati dell’Osservatorio Jointly Balance – spiega Francesca Rizzi, co-founder e CEO di Jointly – dimostrano come percorsi strutturati di ascolto organizzativo possano risultare efficaci nel migliorare benessere emotivo e capacità di gestione dello stress nella popolazione aziendale, con benefici importanti anche sul livello di engagement dei dipendenti”.
I dati lo confermano: in chi ha seguito un percorso di counseling strutturato, la percezione di criticità legate allo sviluppo professionale si è ridotta dal 12% all’8,2%. Le tensioni relazionali sono scese dal 15% all’11%. Ma soprattutto, è cresciuta la consapevolezza del ruolo che le relazioni interpersonali giocano nel generare malessere.
Una nuova responsabilità per i manager
C’è però un altro dato, forse ancora più interessante: le persone non portano più solo ‘il lavoro a casa’. Portano sempre più spesso la casa al lavoro. I confini si assottigliano. Le difficoltà personali si infiltrano in ufficio e diventano tensioni, conflitti, insoddisfazione professionale. È qui che entra in gioco il manager. Le figure di coordinamento oggi si trovano a gestire responsabilità crescenti, senza sempre avere gli strumenti per farlo. Ma sono loro i primi agenti del benessere organizzativo.
Ed è su di loro che le aziende devono investire, se vogliono costruire un ambiente di lavoro capace di attrarre e trattenere le persone. Secondo quanto emerso dallo studio, quando le persone hanno la possibilità di esprimere liberamente il proprio punto di vista sulle situazioni e su come affrontarle, si sentono ascoltate. E questo le porta a lavorare meglio.
Investire nel benessere mentale ha un impatto economico concreto. Secondo un’analisi condotta da Jointly con The European House – Ambrosetti, una strategia strutturata di corporate wellbeing può portare a un aumento del 20% della produttività. Il punto, tuttavia, non è (solo) economico, ma culturale. Un’azienda che si limita a rimborsare le sedute si chiama fuori dal processo. Affrontare il malessere – e non delegarlo – significa trasformarlo in uno spazio di progettualità condivisa. Significa dotarsi di strumenti di ascolto continui e, soprattutto, significa formare i manager perché non siano semplici esecutori di procedure, ma interpreti attivi di un nuovo contratto psicologico tra impresa e lavoratore.
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