«Data l’impossibilità di procedere alla ricapitalizzazione, il cda di Alitalia ha deciso di avviare le procedure previste dalla legge e ha convocato un’assemblea dei soci per il 27 aprile al fine di deliberare sulle stesse». Così i vertici della compagnia di bandiera prendono atto «rammarico» dell’esito del referendum che ha respinto l’accordo per il salvataggio della compagnia aerea.
Il 67% dei lavoratori ha detto no a circa mille esuberi e a un taglio dell’8% dello stipendio del personale navigante. Meglio l’incertezza, meglio scommettere sull’ennesimo inutile salvataggio da parte dello Stato a un buco nero che costa miliardi e non vuole uscire dalle difficoltà. Non conta tanto il piano industriale – è stato suicida la decisione di puntare sui voli a corto raggio – ma ora conta la fermezza, la chiarezza. Il governo ha promesso che non ci saranno nazionalizzazioni, si punterà a una vendita di pezzi della compagnia dopo il commissariamento (Laghi, ex Ilva, o Gubitosi, che doveva diventare a.d., i candidati).
Qui si gioca la partita, sulla serietà di un Paese che non può inchinarsi ai sindacati. L’Italia può rinunciare alla compagnia (ex) di bandiera – lo hanno fatto in tanti a partire dalla Svizzera (oggi Swiss è parte di Lufthansa) – ma non può perdere ancora una volta la sua credibilità.
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