Siamo preparati al peggio?

L’impatto della crisi sulle attività di risk management. Dalla prevenzione delle frodi alla gestione del day by day aziendale in fase di recessione. Così aumenta la richiesta dei professionisti del rischio. Che in Italia sono ancora troppo pochi, soprattutto nelle pmi

In Italia torna la Lira: istruzioni per l’uso. Potrebbe titolarsi così il dossier al quale stanno lavorando in questi mesi molte grandi aziende e multinazionali, preoccupate per la (in realtà remota) possibilità di un’uscita del nostro Paese dall’Euro. Il compito di disegnare questo catastrofico scenario, con tutte le possibili vie di salvezza (o di fuga), è affidato agli esperti di risk management. Per i professionisti del rischio, infatti, la crisi si è tradotta, da qualche anno a questa parte, in super lavoro. Alle tensioni dei mercati si sono sommate quelle politiche, e se da un lato i massicci interventi del governo Monti hanno forse evitato problemi ancora più seri, l’incertezza continua a dominare la scena. All’estero le cose vanno forse peggio: basti pensare alle cadute di governo sfociate in vere e proprie rivolte in molti Paesi strategici per il business italiano, come la Libia. Le borse sono deboli, i cambi ballerini, la produzione e i consumi di molti prodotti al palo. In una parola: recessione. E ancora non si vede la luce in fondo al tunnel. Per le imprese significa aver chiaro quali possono essere i rischi alle porte, valutarne la probabilità, l’impatto e soprattutto studiare subito un piano d’azione. Con un paradosso. Oggi la globalizzazione ha abbattuto le frontiere non solo del business, ma anche della crisi. E ora che la crisi è arrivata ovunque sull’onda degli scossoni delle economie occidentali, quello che fa più paura alle imprese che lavorano all’estero e con l’estero sono le frodi e le truffe sempre più frequenti. È questo, secondo gli esperti, il vero e nuovo rischio in una economia global e sofferente. «Serve una strategia ben definita di gestione del rischio frode. Un lavoro che trasforma la figura tradizionale di risk manager in un vero detective», spiega a Business People Gabriele Bertipaglia, dal 2009 partner e responsabile della divisione reputation e crisis management dell’agenzia Sec. «Se per esempio una compagnia italiana deve scegliere un partner straniero», continua, «allora potrebbe incrociare i dati di bilancio con verifiche de visu sull’attività e i movimenti delle merci e del management». Lavoro da 007, appunto. Chi lo sa fare? Di solito le grandi corporation affidano queste missioni alle società specializzate: hanno una loro divisione di fraud management tutti i big del settore, da Deloitte a Ernst & Young, Pwc e Kpmg. Le loro squadre di gestione-inganni, quando entrano in azione, valutano la vulnerabilità del cliente alla frode, trovano le carenze dei sistemi e dei processi, le debolezze interne, anche del personale, e le crepe esterne. Lo scopo? Minimizzare il rischio finanziario del crimine.

Frodi a parte, la crisi ha poi aumentato l’incertezza e di conseguenza il ruolo di chi deve analizzare questa instabilità. «Gli scenari sono diventati più complessi», ci racconta Luigi Norsa, uno tra i massimi esperti in Italia di crisis management, «ed è cresciuto il livello di insicurezza. Il tutto complicato dalla difficile interpretazione della situazione presente e dei suoi sviluppi». Che cosa dovrebbe preoccupare di più una azienda? «Da un lato l’instabilità politica come conseguenza di quella economica: penso al mondo arabo e alle sue rivolte. Più vicino a noi, le misure di austerity del governo Monti potrebbero portare all’innalzamento del conflitto sociale fino a livelli preoccupanti. Uno scenario da non sottovalutare. E non c’è da star tranquilli: la recessione è un fenomeno di cui è difficile prevedere la durata e l’impatto». Le conseguenze possono essere inimmaginabili: dall’uscita della Germania dall’Euro al default finanziario (e politico) di molti governi occidentali, Italia compresa. «Uno scenario suicida», commenta Norsa, «ma già previsto dalle analisi di risk manager e tenuto in considerazione, anche se chiuso nel cassetto, dalle grandi multinazionali».

MESTIERE IN CONTRODENDENZA

Un posto di lavoro sicuro, anche e nonostante il clima di recessione. Si mostra così la professione del chief risk officer, una figura a cui sempre di più atenei dedicano corsi di laurea, specializzazioni e master. Dalla Bocconi e dalla Cattolica di Milano, alla Luiss di Roma, fino all’Alma Mater di Bologna, le università italiane stanno potenziando la formazione per studenti che intendano occuparsi in futuro della gestione dei rischi societari. Interessate a reclutarli sono imprese, banche, assicurazioni e agenzie di consulenza, che offrono opportunità lavorative legate a questo mestiere anche a giovani neolaureati, oltre che a esperti senior del settore. Le doti richieste? A fronte di naturali attitudini matematiche e statistiche, sicuramente anche capacità manageriali e di processo, abilità nella valutazione e nell’amministrazione delle criticità, padronanza nelle attività di reporting e accounting.

E le pmi? Va detto subito che in Italia la situazione è anomala, soprattutto rispetto al mondo anglosassone. Da noi, infatti la figura del risk manager è ridotta a quella del tagliatore di costi assicurativi, nulla di più. «Chi è il professionista del rischio da noi? Purtroppo soltanto quello che controlla i crediti», conferma Furio Garbagnati, amministratore delegato di Weber Shandwick Italia, «mentre negli Stati Uniti o in Inghilterra è un manager di alto profilo che prevedere rischi ambientali, di risorse umane o di governance. E di questi professionisti ce ne sono pochi in Italia, forse solo nelle big corporations e sicuramente nelle multinazionali, non altrove». Risultato: le pmi sono totalmente impreparate al rischio, «a partire dagli impatti del business sull’ambiente, dalle liti sindacali fino ai problemi alla gestione dell’impresa». E sulla professione in tempi di recessione Garbagnati ha le idee chiare: «La crisi dei mercati e quella politica ha portato a forti oscillazioni fra i cambi delle valute: servono analisi economiche e finanziarie che abbiano il coraggio di anticipare scenari futuribili come un’Europa senza moneta comune, oppure con meno Paesi». Un esercizio, per ora solo teorico, che le grandi multinazionali fanno già da qualche anno. Diverso il caso italiano. «Il nostro tessuto produttivo è fatto per la stragrande maggioranza da piccole e medie imprese», conclude il numero uno di Weber Shandwick. «Non dico che debbano dotarsi di una figura ad hoc, ma dovrebbero mettere in campo procedure codificate per la gestione dei rischi, o perlomeno prenderle in considerazione». Insomma, la domanda a cui ogni imprenditore deve saper dare risposta è solo una, e non delle più facili: siamo preparati al peggio? È solo così che si affrontano le sfide della recessione e si salvaguarda il futuro dell’impresa.

RISK MANAGER ALL’ITALIANA

È vitale per i progetti di espansione all’estero, si occupa di finanza e assicurazioni, entra in causa quando si parla di sicurezza sul lavoro di qualità e rispetto delle norme di buona condotta nella gestione delle società. Ecco il risk manager oggi. Può essere un lavoratore dipendente, solitamente incluso nell’organico di una grande azienda, ma molto più spesso, nelle aziende di minori dimensioni, si tratta di un consulente esterno. Il suo obiettivo? Non è poi così diverso da quello di ogni buon ceo: massimizzare il valore aziendale. «Un professionista sempre più richiesto», conferma a Business People Paolo Citterio, presidente e fondatore dell’associazione dei direttori delle Risorse Umane (Gidp-Hrda), «con una busta paga che oscilla dai 90 mila ai 120 mila euro, più una variabile del 10 o 15% in media, legato a precisi obiettivi aziendali, come il ritorno sugli investimenti».

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