Finita la fase più acuta della pandemia, in Europa non si arresta la crescita del lavoro a distanza mentre in Italia si assiste a una frenata in favore del rientro in ufficio per la maggioranza delle ore di lavoro. E su 8 milioni di potenziali “smart worker” italiani (tra 6,4 milioni di smart worker “estensivi”, in grado di compiere a distanza tutte le attività, e 1,6 milioni “ibridi”), solo un terzo oggi lavora da remoto per almeno un giorno a settimana. All’analisi dei dati si affianca anche la normativa che, dal primo agosto 2022, fa decadere la possibilità, prevista dal Decreto riaperture, di svolgere al 100% la prestazione lavorativa in modalità agile, lasciando tale prerogativa alla trattativa privata, tra lavoratore e azienda.
È quanto emerge dall’indagine di Randstad Research, il centro di ricerca sul futuro del lavoro promosso da Randstad, realizzata elaborando i dati Istat ed Eurostat sul lavoro da casa negli anni di pandemia. Lo studio rileva come alla fine 2019 fossero 1,15 milioni gli italiani che lavoravano almeno in parte da casa, arrivati a 2,9 milioni di lavoratori da remoto almeno un giorno a settimana all’ultima rilevazione di fine 2021, in crescita ma ancora solo il 37,2% del potenziale. Sul totale degli occupati, oggi il 13% dei lavoratori italiani lavora da casa e, nello specifico, il 5,9% per 2 o più giorni a settimana, il 7,1% meno di 2 giorni a settimana.
Se però si analizza il dato di chi lavora da casa per almeno metà del tempo, confrontandolo con gli altri Paesi europei, si scopre che l’Italia è fanalino di coda e sta evidentemente tirando il freno al lavoro da remoto. Nel nostro Paese, la percentuale degli occupati che lavorano almeno la metà delle ore da casa è salita dal 3,6% del 2019 al 12,2% del 2020, per scendere poi all’8,3% nel 2021. Mentre nello stesso periodo la media Ue è passata dal 5,4% del 2019 al 13,4% nel 2021 in crescita costante. Se invece si considerano le persone che lavorano da casa meno della metà del tempo, l’Italia è in decisa crescita, dall’1,1% del 2019 al 6,5% nel 2021, ma resta comunque nelle ultime posizioni, mentre la media europea è arrivata al 10,6%.
“Finita la fase più dura della pandemia, quella legata al lockdown, aziende e lavoratori italiani sembrano aver scelto la strada del ritorno alle modalità di lavoro tradizionali, non cogliendo un’opportunità di cambiamento storica”, spiega Daniele Fano, coordinatore del Comitato Scientifico Randstad Research. “Una scelta che si differenzia molto rispetto a quanto fatto nei principali Paesi europei. La rivoluzione dello smart working nel nostro paese sembra aver interessato, stabilmente, solo alcune categorie professionali, che non dipendono da una presenza fisica in ufficio e possono facilmente lavorare da casa. Ma di certo rimane aperto il tema della qualità di questo tipo di lavoro, in termini di integrazione con la mobilità intelligente, la programmazione per obiettivi, la congruenza dello stesso lavoro fatto nelle mura domestiche, la capacità di combinare la distanza con incontri in presenza”.
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