Ci sono passati anche Steve Jobs e Steven Spielberg, per dirne due. Il primo contava le viti in Hp mentre l’altro faceva fotocopie negli Universal Studios: capita anche questo quando sei uno stagista, ma sono le regole del gioco, si comincia dal basso. Poi però i migliori emergono. La ricerca di talenti è sempre stata una priorità per molte aziende e in alcuni settori la competizione è così spietata che alcune società hi tech americane arrivano a pagare per uno stagista fino a 7 mila dollari al mese (vedi box). Il motivo è semplice: la gara per accaparrarsi i migliori, soprattutto informatici e sviluppatori, è sfrenata e chi mette le mani sulla persona giusta fa di tutto per tenersela. Senza arrivare a tanto, anche in Italia le aziende cominciano a considerare lo stage una vera opportunità per selezionare sul campo i migliori, prima che lo facciano gli altri, coltivando i talenti per poi assumerli. «Molti manager utilizzano la formula dello stage per insegnare ai giovani e contestualmente valutare i candidati per una possibile e futura collaborazione», conferma Giampaolo Rossi, direttore generale di Adexia, «perché assumere a tempo determinato una task force di giovani laureati o laureandi e commissionargli un progetto aziendale di sviluppo è una soluzione win-win: da un lato l’azienda fa il pieno di idee nuove e progettualità a basso costo, dall’altro i giovani collezionano un’esperienza formativa vera, che incrementa il curriculum vitae». Certo, non sono sempre rose e fiori per gli oltre 500 mila nuovi stagisti che ogni anno entrano in azienda. «Ormai si fanno moltissimi stage, il loro numero è raddoppiato dal 2005 a oggi, ma non tutti sono di qualità e la percentuale di assunzioni al termine dell’esperienza è ferma al 10%», denuncia Eleonora Voltolina, direttore della testata on line Repubblica degli Stagisti, «invece sarebbe meglio pochi stage ma buoni, realmente formativi, con un minimo di possibilità di sbocco occupazionale e un minimo di indennità, che almeno non costringa i tirocinanti a rimetterci di tasca propria». Già, parliamo di compensi. Senza arrivare alle cifre esorbitanti pagate da Facebook o Microsoft, da noi la legge prevede un’indennità di partecipazione obbligatoria e non inferiore a 300 euro al mese, e ogni Regione ha già stabilito il proprio limite minimo: alcune, come Abruzzo e Piemonte, sono arrivate a 600 euro. È questo il risultato di un lungo lavoro di chiarificazione e armonizzazione normativa, sfociato nelle linee guida condivise tra le Regioni e il Ministero del Lavoro, che hanno messo ordine in una situazione da Far West. Peccato, dicono i giovani stagisti, che resti ancora aperto il problema principale: la vacatio legis relativa ai tirocini curriculari. Chi entra in stage durante gli studi, infatti, lo fa senza nessuna legge che dica cosa può e cosa non può fare. E si tratta di decine di migliaia di casi ogni anno. Insomma, siamo sulla buona strada, ma solo all’inizio. C’è comunque chi vede in tutto ciò il bicchiere mezzo pieno. «Questa riforma è un primo passo sulla via della serietà », commenta Stefano Scabbio, numero uno di ManpowerGroup in Italia e Penisola Iberica, nonché presidente di Junior Achievement, la più vasta organizzazione non profit al mondo dedicata all’educazione economica dei giovani, «anche se rimane una carenza strutturale del sistema, ovvero la mancanza di connessione tra scuola e lavoro, che resta una delle cause della sottoccupazione ». Connessione che invece esiste, e funziona bene, in molti altri Paesi. «Per esempio la Germania prevede uno stage obbligatorio all’interno dei piani formativi scolastici», conferma Angelo Pasquarella, amministratore delegato di Projectland, «così i ragazzi ricevono subito un primo e fondamentale collegamento con l’attività che li attende mentre le aziende, dal canto loro, possono selezionare i loro futuri collaboratori osservandoli direttamente sul campo».
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E in Italia, invece, cosa si può fare lo stesso per rendere più proficua questa opportunità? «Già oggi la legge consente controlli e chiarisce in termini molto chiari il valore formativo degli stage», dice Paolo Iacci, vicepresidente nazionale dell’associazione italiana direttori del personale (Aidp), «ma sarebbe opportuna una sorta di moral suasion da parte degli enti preposti nei confronti delle imprese e, talvolta, qualche controllo. Forse si potrebbe seguire il modello tedesco che prevede poi l’assunzione con contratti tradizionali, ovviamente senza la spada di Damocle dell’articolo 18». In attesa che la riforma venga portata a termine, già da oggi manager e imprenditori possono portarsi avanti da soli per trarre il meglio dalla formula-stage. «Innanzitutto dovrebbero cambiare atteggiamento mentale nei confronti di questa esperienza», continua Pasquarella, «perché lo stagista concorre a produrre un’utilità aziendale, soprattutto in quelle aziende – e sono molte – che traggono il loro valore, non dal basso costo di produzione, ma dalla tecnologia, dall’immagine, dalla gradevolezza e dalle funzionalità del prodotto, e fondano quindi il loro successo sulle risorse umane. Siccome per selezionarle e formarle occorre molto tempo, ben vengano stage e contratti di apprendistato degni di questo nome, in grado cioè di costruire, a basso costo, figure professionali idonee a sviluppare le proprie competenze a livelli di eccellenza. Saranno loro a dare più valore ai prodotti». Perché il futuro di un’azienda si costruisce dal presente, stagisti compresi.
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