I manager italiani sono animali stanziali. Un manager su due, infatti, dice no alla proposta di cambiare città o Paese anche a fronte di un aumento di stipendio del 20%. Come dei lavoratori comuni, poco disposti a spostare il proprio domicilio, anche i dirigenti confermano la tendenza generalizzata nella Penisola. A dirlo è un’indagine condotta da Technical Hunters (società di ricerca e selezione di personale qualificato) su oltre 600 manager intervistati nel corso del 2016.
Il 52% dei manager con un’esperienza di 4-5 anni non vede di buon occhio il trasferimento. Per i Ceo, anche un aumento di stipendio “medio” non basta, serve almeno un +20% e il coinvolgimento della famiglia per cambiare questa propensione. Col crescere dell’esperienza cala la disponibilità a muoversi: tra i manager con 10 anni di anzianità che è disponibile solo nel 39% dei casi, 34% tra chi lavora da almeno 15. E invece i giovani al primo impiego sono disponibili al 70%. «Paradossalmente», conclude Lorenzo Selmi, senior manager di Technical Hunters «questi dati rivelano però un’elevata flessibilità proprio tra i lavoratori più maturi, che sono spesso aperti al cambiamento nonostante un maggiore radicamento dovuto ai legami familiari».
Rispetto agli altri Paesi europei, recita infatti lo studio, i manager italiani si spostano maggiormente con moglie e figli o con l’intenzione di trasferirli in un secondo momento. Nel caso ci si sposti da soli, si tratta di impieghi “a scadenza”. I manager inglesi e tedeschi sono più restii al cambiamento, soprattutto fuori dai loro confini nazionali. Gli spagnoli si muovono invece più facilmente.
Quali sono le spinte al cambiamento? Al primo posto il tempo, e quindi la possibilità di un migliore bilanciamento tra lavoro e famiglia. Seguono la formazione e le prospettive di carriera. A trattenere i dirigenti, invece, sono il rischio di una bassa redditività, le scarse prospettive professionali e la sicurezza del luogo conosciuto.
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